Riflettendo sinteticamente sulla storia del socialismo italiano
C'è un primo periodo, secolare, che va dal 1870 al 1970 in cui il SOCIALISMO si diffonde, anche in Italia, come credenza politica popolare (egualitaria, universalistica, radicale nella redistribuzione della ricchezza, ecc.) con una TENSIONE CENTRALE IRRISOLTA che genera dibattito sia interno che esterno alle forze che daranno vita al PSI (Genova 1892) e poi, nel 1921, al PCI.
Questa tensione è quella tra RIFORMISMO (la società può diventare più giusta, più uguale, più libera e quindi socialista attraverso un cammino di riforme e di cambiamenti graduali) e RIVOLUZIONE (per ottenere un cambiamento sociale radicale, a vantaggio delle moltitudini, occorre una rivoluzione anticapitalista, antiborghese, antimonarchica, ecc. Una rivoluzione violenta, radicale, che rovesci l'ordine statuale).
Questa tensione caratterizzerà la storia e la divisione interna dei gruppi dirigenti e dei militanti del PSI fino al 1921 e poi le relazioni tra PSI e PCI fino agli anni '70 del '900.
Ma tra gli anni '70 e gli '80 del XX secolo, la tensione si smorza fino a marginalizzarsi (l'ultimo colpo di coda sarà il terrorismo politico, in Italia particolarmente aspro e velenoso). A far declinare il dualismo RIVOLUZIONE/RIFORME è essenzialmente l'abbandono da parte del PCI del filosovietismo e dell'antiatlantismo ed in una sua più o meno convinta adesione all'EUROPEISMO, insieme all'abbandono dell'antistalismo (e della contrapposizione tra le masse e il potere: il PCI dagli anni '70 in poi smette di considerarsi una forza antisistema e comincia a concepirsi come forza di governo, un governo che vede sempre più alla sua portata).
Ma se negli anni '80 del '900 la dialettica riforme-rivoluzione muore, anche gli ideali socialisti non se la passano bene e cominciano a declinare, incalzati da un forte ritorno del liberalismo e dell'individualismo. Il PCI è ormai riassorbito quasi completamente nell'alveo del riformismo, e tuttavia si scatena proprio in quegli anni tra i gruppi dirigenti (e i militanti) del PSI e PCI (anche laddove governano insieme città, province e regioni) un aspro conflitto per il controllo dell'area riformista e per la conquista del potere (centrale e locale). Ciò rende molto tese le relazioni tra i due gruppi dirigenti (e tra i loro militanti). Il risultato finale di questo confronto duro (che avviene anche in presenza di collaborazioni locali importanti) è che nessuna delle due forze politiche sopravviverà ai primi anni '90, almeno non nelle forme che i due partiti avevano assunto a partire dal 1921 in poi (clandestinità inclusa) e poi dal 1943. PSI e PCI entreranno in un vortice di cambiamenti e stravolgimeti che non può essere spiegato attraverso l'asse secolare riforme/rivoluzione. L'aspro conflitto che oppone, negli anni '80, uomini e dirigenti del PSI e del PCI è uno scontro tra gruppi di potere che si contendono il controllo dello Stato e delle istituzioni locali, pur rifacendosi ad un'idea simile di RIFORMISMO e di SOCIALISMO, un'idea sempre più malleabile e sfaccettata, per altro giocata di fatto, al di là delle dichirazioni formali, all'interno di una sola formula politica (quella del Centro Sinistra, di cui il Compromesso Storico non è che una variante). E nella scelta del Centro-sinistra l'unica tensione resta quella di spostare il baricentro un po' più verso il centro o un po' più verso sinistra. Mentre la politica estera rimane ancorata alla fedeltà atlantica e all'europeismo, con un ridimensionamento delle ambizioni nazionaliste verso Balcani e Mediterraneo (del resto l'Italia non ha i mezzi per permettersi una politica estera autonoma, nemmeno su aree limitate: e questo non è detto che sia un male).
Saranno comunque l'EUROPEISMO e l'avvicinamento al governo a spingere il PCI verso un approdo squisitamente RIFORMISTA così come sarà la crisi del PSI e del PCI e l'emergere del berlusconismo a blindare PSI e PCI verso soluzioni di centro/sinistra (dall'Ulivo al PD). Anche se va osservato che in Italia una parte dei post-socialisti (ovvero quelle forze politiche che rifacendosi alla tradizione socialista sorgono sulle ceneri del PSI) non avrà come approdo solo il centro-sinistra. Diversi socialisti (sia parlamentari che militanti) si aggregheranno infatti al centro-destra berlusconiano, intravedendo nella modernizzazione (e nel liberismo) di quest'ultimo una qualche contiguità con la modernizzazione craxiana.
In sostanza dagli anni '90 in poi la storia dei post-socialisti e dei post-comunisti è quella di gruppi dirigenti e di militanti locali che, pur collaborando, non riusciranno mai ad amalgamarsi tra di loro e che quindi (anche quando faranno la scelta di rimanere nel contesto del Centro/sinistra e poi di fondare il PD) continueranno in larga parte anche a confliggere e polemizzare.
A favorire questa dinamica conflittuale non è però una legittima tensione ideologica o culturale (non ci sono più faglie di distinzione tra post-socialisti e post-comunisti), quanto piuttosto una partigianeria con fondamenti blandi, un certo localismo che si accompagna al tradizionale "familismo italiano" (un familismo corporativo e clientelare che contagia anche la politica), insieme ad un forte individualismo e a modalità amicali e fiduciarie di costruzione delle relazioni politiche che impediscono di costruire sistemi aperti e di far crescere soggetti politici su basi fortemente democratiche.
Il tutto inoltre si accompagna ad un sostanziale appannamento del SOCIALISMO come religione laica, come strumento di riscatto e come sistema di valori per orientare il governo e le amministrazioni locali. Un appannamento che è evidente anche in Europa e nel resto del mondo da oltre un trentennio.