mercoledì 31 ottobre 2018

Il '68 e dintorni: mostra di giornali e pubblicazioni d'epoca su

Si è inaugurata il pomeriggio di Halloween, alla biblioteca Gronchi  di Pontedera, una mostra di giornali d'epoca sul '68 e ... dintorni. Oltre 30 pannelli fitti di documenti originali, messi a disposizione e organizzati da Moreno Bertini, leader maximo e anima dei collezionisti della Valdera.
Il Sessantotto e il decennio successivo sono raccontati soprattutto attraverso la voce (o meglio i numeri primi) delle riviste di estrema sinistra "Potere Operaio", "Rosso", il "Bolscevico", "Lotta Continua", "Il Manifesto" (mensile) e tante altre testate simili, a cui sono affiancati anche giornali e settimanali ritenuti allora "riformisti" (tipo "L'Unità" e "Rinascita") o "borghesi", come "La Nazione", "La Stampa", "Il Corriere della Sera", "La Repubblica" e "L'Espresso".
Tutto materiale originale, come vuole la buona prassi del collezionista.
La mostra è densa, fitta, molto concentrata, quasi senza didascalie e tanti oggetti documentari posizionati nelle bacheche.
Ne esce fuori un'immagine complicata di quel tumultuoso decennio (1968/1978) che non credo sia facile per le giovani generazioni (ammesso che trovino la voglia, il mondo e il tempo di visitarla) decriptare.
Tuttavia si tratta di materiale prezioso che vale comunque la pena di mettere in mostra e offrire al lettore ed al visitatore (e la speranza è che qualcuno ci passi di fronte a queste bacheche e si fermi  incuriosito a guardarle).
Nel corso della inaugurazione Moreno Bertini ha illustrato le caratteristiche documentarie ed organizzative della mostra, mentre Giovanni Volpi, professore al Liceo XXV Aprile di Pontedera, ha sinteticamente descritto le linee principali di quel fenomeno complesso che va sotto il nome di '68. Infine Eugenio Leone, che ha sostenuto la circuitazione della mostra (già allestita a Capannoli e a Ponsacco), mettendo in relazione i collezionisti e l'Amministrazione comunale di Pontedera, ha provato a suggerire collegamenti tra il '68 e i nostri giorni, tra i giovani di ieri e quelli di oggi.
Dal mio punto di vista la mostra rappresenta una botta di nostalgia.
Vedere documenti, riviste e giornali, che, almeno in parte, ho tenuto tra le mani 50 anni fa, mi ha ha procurato una certa emozione, che la vecchiaia ha reso malinconica. Ahimè.
Ciò premesso, come ho detto durante la discussione, oggi leggo il '68 essenzialmente come un grande moto planetario contro l'autoritarismo e come una fortissima spinta di sapore hegeliano verso una condizione individuale e collettiva di maggiore libertà ed indipendenza. I giovani (e anche i meno giovani) di allora volevano autodeterminarsi di più e volevano agire con maggiore libertà: in famiglia, a scuola, sul lavoro, nelle istituzioni, in chiesa, nelle proprie piccole patrie. Ovunque. Di qui una contestazione di tutte le forme di autorità e di oppressione. Ad Occidente come ad Oriente. Eravamo contro l'imperialismo americano e contro quello sovietico (e, a parte pochi sbeffeggiati maoisti, anche contro quello cinese). Eravamo contro gli stati autoritari e fascisti, ma anche contro quelli comunisti che opprimevano altri paesi comunisti. Eravamo contro tutti i paternalismi autoritari. Le donne in più volevano parità di diritti, di dignità, di uguaglianza con gli uomini. Gli uomini volevano soprattutto più libertà sessuale. Poi volevamo anche salari e pensioni più alti; e rivendicavamo più diritti e meno doveri. E, almeno molti di noi, anche più beni materiali. Per quanto mi riguarda sognavo un comunismo dal volto umano.
Oggi dico che gran parte di quello che allora chiedevamo (comunismo escluso, e oggi aggiungo per fortuna) lo abbiamo nei limiti del possibile ottenuto; e questo nell'ambito di Stati che, almeno in Occidente, mi sento di definire democratici.
I livelli di libertà e di autodeterminazione individuale e collettivi sono cresciuti, ma gli Stati sono sopravvissuti allo sviluppo della libertà individuali e collettive, l'economia ha continuato ad essere strategica ma anche cogente nelle nostre vite, il mercato è diventato sempre più importante e l'interconnessione e la comunicazione si sono sviluppate in maniera incredibile. Consumiamo più servizi telefonici, tv, cultura ed internet di quanto avremmo mai potuto immaginare allora.  
Oggi, quindi, le giovani generazioni partono da livelli di libertà e di autodeterminazione molto più alti di quelli 50 anni fa e fanno fatica a immaginarsi altri grandi traguardi. E' normale che sia cosi. Il mondo del lavoro e delle professioni è cambiato. Si è complessificato. E per quanto i giovani ne sappiano molto più di noi, penano a posizionarsi. Soprattutto se seguono percorsi di studio lontani dagli sbocchi occupazionali o se sognano il posto sotto casa. Sotto casa si faceva il contadino, l'operaio e l'impiegato. Ma i cambiamenti hanno ridotto al lumicino, in occidente, questi tre tipi di occupazione.
Le stabili democrazie non consentono oggi grandi sogni immaginifici e il socialismo e il comunismo (una volta provati e, almeno in Europa e in diverse altre parti del mondo, rigettati) non scaldano più il cuore a nessuno. O a pochi. Dobbiamo farcene una ragione.
Ognuno oggi è più solo, ha osservato il professor Volpi, rispondendo ad una mia osservazione. Beh, sono almeno 300 anni che la grande letteratura europea e nordamericana ci dice che l'uomo contemporaneo è abissalmente solo. Il Novecento è stato attraversato da una fondamentale corrente di pensiero, l'esistenzialismo, che ha fatto della solitudine uno dei suoi punti centrali. E molte altre filosofie hanno sottolineato questo aspetto. Siamo soli. E' cosi. Probabilmente non facciamo nemmeno parte di un disegno intelligente e tra gli ottanta e i novanta anni concludiamo il nostro ciclo vitale. Molti, oltre ad essere soli, odiano gli altri. Soprattutto se gli altri hanno un colore della pelle e parlano una lingua diversa dalla loro. Magari per essere meno soli potremmo essere più altruisti. Invece avverto gelidi venti razzisti tornare a scuotere anche l'Europa.
Comunque, essere più liberi, più autodeterminati e consapevoli vuol dire provare anche più solitudine. Vuol dire sentirsi più fragili, più responsabili, più preoccupati, più ansiosi rispetto al proprio futuro. Sapere di più, essere più coscienti e essere più consapevoli di sè e degli altri, vuol dire soffrire emotivamente di più. L'età della responsabilità e della consapevolezza è sempre molto più difficile dell'età delle illusioni e delle ideologie. Per questo nonostante i processi di secolarizzazione e nonostante "il dio è morto" di Nietzsche, le religioni continuano a proliferare e ad aiutare gli uomini a dare un ritmo e un senso alla loro vita.
In questo contesto di maggiore libertà e consapevolezza molti auspicano anche il ritorno a ideologie assassine.  Alcuni sognano di nuovo stati nazionali forti (dove uno solo comanda e pensa e decide per conto di tutti, ovviamente per il bene del popolo). Altri odiano gli stranieri. Altri ancora cercano la felicità nelle comunità autosufficienti aggredite dai processi di globalizzazione.
Sembra proprio che la storia non ci riesca ad essere maestra di vita.

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