Matteo Renzi è un biopolitico molto bravo, ma non perfetto
Ok, Napoleone decise di dettare le sue memorie solo dopo che fu rinchiuso nell'isola di Sant'Elena. Matteo Renzi invece, dopo i primi tre libri fatti uscire nella fase ascendente della sua corsa verso il potere ("Fuori", nel 2011, "Stil novo", 2012, e "Oltre la rottamazione", 2013) pubblica adesso (e siamo già alla sesta edizione in agosto) "Avanti. Perchè l'Italia non si ferma" (Feltrinelli, 2017, p. 235). Racconta un pezzo delle sue recenti memorie, butta fuori un bel po' delle sue ansie e ci regala qualcuna delle sue speranze. Affidandosi ad un editore molto di sinistra (Feltrinelli) e riempiendo le pagine di aneddotica.
Il testo, che, per la saggistica, è già un piccolo successo editoriale, si legge bene. Matteo scrive come parla. Anzi meglio. Perchè si concede qualche secondo di riflessione in più. Per questo le pagine corrono via come quelle di un romanzo. Ma che Matteo sia un grande comunicatore è fuori di dubbio. E che si avvalga di una buona squadra di collaboratori è altrettanto certo.
A me il volume è stato utile per varie ragioni che provo a riassumere per sommi capi.
Intanto ho finalmente capito (o almeno così spero) che cos'è un biopolitico. La lettura (lontana) di Foucault e l'impossibilità di raccapezzarmi nei testi di Agamben e dei suoi seguaci finora non mi avevano aiutato ad arrivarci. Matteo invece me lo spiega facilmente. E lo fa mettendo in campo tutta la famiglia (figli, moglie, padre, madre...) e gli amici (Lotti, Boschi, Carrai, ecc.) e le relazioni amicali coi grandi (Obama, Merkel.. basta). Ne esce fuori una aneddotica che stordisce, che si fatica a dipanare, ma la sostanza è che tutto quanto è politica e che tutto quanto può essere utilizzato per fare politica. La politica in sostanza è un'attività immersiva. E' un gioco totale. Un Truman Show o un Dinasty. Ma in fondo non è una novità. Chi fa politica di solito prova una grande passione per quello che fa e si diverte a farlo. Anche quando si arrabbia. Sa che il suo fare politica contagia e mette a rischio tutti quelli che gli stanno intorno. Ma uno fa politica se è molto convinto delle proprie idee. Se ha una forte autostima. Un discreto ego. E quando va bene, solo un pizzico di narcisismo. Quando va bene. Matteo è perfettamente a suo agio in questa telenovela, di cui lui cerca (tra un colpo di scena e l'altro) di essere il protagonista e a cui cerca di far appassionare (stavo per scrivere "abbonare") gli italiani.
E come in ogni sceneggiato che si rispetti, anche i flashback sono fondamentali. Così la parte delle memorie dei mille giorni a Palazzo Chigi occupa gran parte del volume. Obiettivo principale: dimostrare che in quei giorni dal sapore un po' garibaldino e un po' guascone Matteo è riuscito a smuovere il Paese (e l'Europa) e a realizzare riforme fondamentali per ripartire. Ce l'ha fatta davvero? Ovviamente lui ne è convinto. Probabilmente ne sono convinti anche quelli che alle primarie gli hanno riconsegnato la guida del PD. Quanto a me, lascio volentieri ai posteri l'ardua sentenza. Ma gli concedo tutte le attenuanti generiche. Modificare l'Italia è un'impresa complicatina. Richiede tanta abilità e... tanta fortuna.
Obiettivo numero due di "Avanti", è provare a gestire l'ansia che la sconfitta referendaria gli ha procurato. Anche qui i flashback sono continui. La sconfitta e le dimissioni gli bruciano. Ammette che aver accettato di combattere contro tutti è stato un errore. Ma, si giustifica, sostenendo che non poteva fare diversamente. Ha ragione? Può darsi.
Certo che la rottura del Patto del Nazareno potesse far crollare tutta la sua impalcatura "riformatrice" era probabile. Quindi è stata un errore grave (che Matteo enuncia, ma non elabora più di tanto). Un errore a cui lui dice di essere stato indotto dalla necessità di non votare alla Presidenza della Repubblica il candidato scelto (e propostogli) da Berlusconi e D'Alema. Un candidato di cui non fa il nome. Resta il fatto che queste errore "inevitabile", segna non solo la sua sconfitta referendaria, ma lo priva dell'unica strategia possibile: quella di una collaborazione stabile col centro-destra. In un gioco a tre sono possibili tre soluzioni: ognuno gioca per conto proprio e tutti perdono. Due si coalizzano contro il terzo. I primi due vincono ma ottenendo solo il 50 per cento del premio, il terzo perde. Tutti e tre si mettono insieme e vincono un po' tutti (ma la vincita di ognuno è ancora minore).
Ora è sempre stato ovvio che i grillini non avrebbero fatto sponda su nulla a Matteo (si considerano una forza antisistema: perchè dovrebbero collaborare col Sistema Matteo?). Quindi, visti i numeri parlamentari, senza una alleanza stabile con il centro-destra niente maggioranze forti in Parlamento e nel Paese e senza maggioranze forti, niente riforme e cambiamenti forti. Questo Matteo l'ha capito e ha organizzato il patto del Nazareno. Poi l'ha mandato a gambe all'aria (o non ha accettato che anche la presidenza della repubblica entrasse nel Patto: a conti fatti il risultato non cambia) e ha provato a spaccare il centro-destra. In piccola parte con Alfano e Verdini la cosa gli è riuscita, ma ha raccolto solo una maggioranza debole. Che gli ha consentito di gestire il Parlamento, ma mediando su tutto e poi portandolo a sbattere sul referendum.
Nella terza parte del libro, quella del "Che fare?", le cose si complicano. Parecchio. Primo: perchè il PD ha subito una scissione. Per ora solo legata ai parlamentari di osservanza Bersaniano/D'Alemiana. Ma sono diversi deputati (e quindi il suo partito è oggettivamente più debole). Secondo: perchè questa scissione pesa in termini ideologici e non gli consente di presentarsi in maniera credibile come un candidato di sinistra (una sinistra che continua a dividersi e a produrre leader a ciclo continuo, incluso Pisapia). Questo non gli impedisce di scrivere un intero capitolo sul "futuro della sinistra". Ma chi lo andrà a leggere capirà che di futuro per la sinistra sembra essercene poco. Terzo: perchè i suoi avversari sono usciti rafforzati dallo scontro referendario. Stanno conquistando città importanti (Torino e Roma), mentre il PD ha perso terreno anche alle amministrative e nelle regioni ormai ex rosse.
Il guaio è che sul "Che fare?" pesano due fattori: a) l'assetto di un partito che non può che essere soprattutto di governo (ma in una fase storica in cui tanti italiani ce l'hanno col governo e sono disposti a votare il primo scemo che passa per la strada anziché un candidato governativo), europeista (anche se critico, ma è l'aggettivo europeista che ti affonda), filoatlantico (anche se c'è Trump), ecc. ecc. ecc.; b) uno smarrimento di orizzonti della sinistra che in Europa non ha precedenti.
Il libro (che contiene tante altre informazioni e moltissimo gossip come è necessario in una telenovela) qui si sfrangia un po'. Del resto su tutti i punti cruciali Matteo, come un grande generale, non potrà applicare schemi prefabbricati, ma dovrà improvvisare. Sa più o meno su quali truppe può contare (la scacchiera), conosce l'affidabilità e la "lealtà" dei suoi alleati (le regole del gioco). Conosce abbastanza bene i suoi avversari e sa valutarne le mosse e la forza.
Ma il problema è che tutti i santi giorni dovrà scendere in campo e dare battaglia. Dovrà muovere pedoni, torri e alfieri. Sulla legge elettorale, sulla finanziaria, sul tentativo di rilanciare l'occupazione, per gestire i terremoti, per sostenere l'evoluzione della formazione scolastica, per gestire la superpatata bollente dei migranti in un paese dove il razzismo sembra tornare ad avere la meglio sulla tradizionale accoglienza cattolica. In un contesto di forti antipatie reciproche (il tripolarismo è così). Dove l'incapacità a collaborare tra diversi è una certezza. Dove le parole, avrebbe detto Pirandello, hanno significati e pesi diversi a seconda di chi le pronuncia. In un Paese di forze spezzettate, divise e discordi. Su tutte le battaglie annunciate, il volume resta evocativo ma "aperto". Privo di indicazioni forti. Pieno di suggestioni e di esempi. Senza ricette. Qui Matteo procede con "Il principe" di Machiavalli in una mano e "I ricordi" di Guicciardini nell'altra. Il massimo, anche per Antonio Gramsci (che, se no sbaglio, Matteo non cita mai), della teoria politica italiana. Ma si può dargli torto?
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