Le
nostre realtà urbane e territoriali (e ciò che vale per Piombino
vale anche per Pontedera o Empoli o Castelfiorentino, con le
opportune specificità e differenze) sono entità collettive.
Sottoposte all'azione del tempo. Sono protagoniste della loro storia,
ma solo in parte; perché per un'altra parte sono obbligate a subire
e gestire i cambiamenti che l'evoluzione del mondo (la tecnologia, la politica e i mercati) impone loro. Per questi cambiamenti, negli ultimi venti anni, si è coniato il concetto di resilienza. Che poi non è altro che la
capacità di elaborare risposte a mutamenti sostanzialmente
traumatici e dolorosi che non si possono proprio evitare.
La
cultura non sta fuori del tempo. Sta dentro il
cambiamento. Quindi è a sua volta obbligata ad essere resiliente. O
almeno questo è ciò che penso.
La cultura riflette gli assetti produttivi e
sociali. Ma non solo passivamente o meccanicamente. A volte li
interpreta (bene o male, questo dipende dai livelli culturali, dai
singoli artisti e dalla qualità degli intellettuali). Altre volte li
contesta. Altre ancora li fissa in maniera retorica. Li esalta. Li
mistifica. Li accompagna. Li racconta travisandoli ed ingannando il
pubblico. Costruisce identità e tradizioni. Ne abbandona altre. Insomma in un luogo, in una città, in un territorio, la cultura fa tante cose rispetto all'evoluzione della
realtà. Se invece fa una cosa sola, siamo in un regime. Ma se in quella
città/territorio ci sono spazi di vera libertà, la cultura mostra
la sua polisemia e la sua grande varietà.
Da 50/60 anni le nostre città e i loro territori sono meno caratterizzate (tranne produzioni qualitative ma spesso marginali) da contesti
rurali e agricoli. Da una trentina di anni stanno fuoriuscendo
anche dai contesti spiccatamente industriali, avviandosi ad essere
produttivamente e socialmente altro dalle campagne ottocentesche e
dalle industrie novecentesche. Ciò che è accaduto e accade è forse paragonabile alle grandi estinzioni avvenute in intere ere
geologiche, estinzioni che però si manifestano adesso in pochi anni durante la vita di singole
generazioni. Così ci sono persone nate alla fine della civiltà contadina, che hanno attraversato la civiltà
industriale e che, probabilmente, moriranno, visto l'allungamento
dell'età media, in una fase cosiddetta post-industriale o forse anche più
in là.
Stravolti da queste e altre trasformazioni, i nostri comuni (più o meno grandi, più o meno
associati) si orientano ad essere
soprattutto centri di servizi. Senza ospedale, scuole, stazione
ferroviaria, attracchi portuali, comune e annessi, attività commerciali di
piccole e grandi dimensioni, trasporti pubblici e privati, centri
benessere e farmacie, stazioni balneari... che cosa sarebbe Piombino? O
Pontedera o Empoli (queste ultime senza il mare e senza i porti)?
Si,
certo, le campagne non sono fisicamente scomparse. Neppure le attività industriali. Ma il
grosso dell'occupazione, il grosso degli stipendi (pensioni a parte),
il grosso della ricchezza che circola nei nostri territori (poca o
tanta che sia) da dove viene? Ho l'impressione che se avessi sotto
mano statistiche aggiornate, risponderei che viene dai servizi.
E tra
questi servizi alcuni hanno anche attratto, per varie ragioni, un
mondo di migranti provenienti da tutti i sud del mondo che, a loro
volta, in una percentuale che comincia ad essere importante hanno
cambiato ulteriormente il volto e l'anima delle nostre città. E' il
terzo grande fattore di mutamento insieme alla scomparsa delle
lucciole nelle campagne e al silenzio imposto alle sirene delle
fabbriche.
Così,
mentre le voci delle nostre strade richiamano l'eco della torre di
Babele, l'identità rurale si è rattrappita. E quella industriale le
sta andando dietro. E con loro si sono ridimensionate la storia e la
cultura sociale, politica, sentimentale fermentate nel mondo agricolo e in quello industriale. Erano stati quei mondi a generare certe idee collettive, a dare fiato a determinati valori che oggi non fanno più presa o quasi.
A
fianco di questa evoluzione, città come le nostre da oltre
settanta anni vivono processi di secolarizzazione (rispetto ad es. ai
contesti religiosi) e di accresciute libertà individuali. Senza
precedenti, soprattutto se pensiamo alla libertà sessuale.
E salto a piè pari l'evoluzione tecnologica (computer, internet, wifi, social network, intelligenza e stupidità artificiale), che sull'evoluzione di certi mondi ha avuto un effetto importantissimo.
Avrà
un sapore tardo marxista, ma quello che ci sentiamo di (e finiamo
per) essere un po' nasce da quello che facciamo nella vita produttiva
e dalle relazioni sociali che su di essa si innervano. E quello che facevamo ieri insieme a centinaia o migliaia
di altre persone ovviamente ci condizionava molto di più di quello
che facciamo oggi in relazione con pochi (in contesti più ristretti,
più secolarizzati, più acculturati, ecc.). O almeno a me viene da
pensare così.
E
nelle città sempre più caratterizzate da servizi parcellizzati e
polverizzati, nelle società mediamente più acculturate e
secolarizzate, siamo tutti molto più liberi e meno condizionati, ma
questa maggiore libertà e minore condizionamento ci distanzia sempre di
più, ci carica di maggiori responsabilità e ci rende più difficile proporre visioni e narrazioni
collettive forti e condivise. Si scopre che libertà,
uguaglianza e senso della comunità non marciano spontaneamente
insieme. Affatto.
Lo
sviluppo turbolento e caotico del mondo dei servizi e delle
professioni (insieme ai processi di secolarizzazione rispetto a tutte
le credenze e alla crescita delle libertà individuali) modifica
l'anima dei nostri concittadini (e anche la nostra) e quindi delle
nostre città. Ci rende diversi dalle generazioni precedenti.
Diversi da noi stessi, quando eravamo immersi in vite ed in contesti
precedenti. L'aria della città ci rende sempre liberi, ma anche più
soli, più isolati, più incerti. Le associazioni dell'era
agricola e industriale (sindacati, partiti e parrocchie) ci sono
sempre, ma sono sempre più deboli e con minor presa sugli individui
(un bene? un male? ai posteri l'ardua sentenza).
Rispetto
a questa fase evolutiva, rispetto alle estinzioni dell'era agricola,
industriale, religiosa, all'arrivo di uomini e donne dalle tante
lingue, storie e nazioni, qual è la risposta della cultura?
Non
credo ci sia una sola risposta. Nè che vi siano solo risposte
positive.
Ad
es. la rinascita di sentimenti nazionalisti e razzisti è una
risposta culturale sbagliata alle criticità prodotte dalla
deindustrializzazione e dalla globalizzazione. La rinascita dei
fondamentalismi religiosi (basta pensare agli attentati terroristici
in Francia, in Belgio, in GB o anche agli ultimi scritti di Oriana
Fallaci o alle polemiche contro la costruzione delle moschee, ad es.
a Pisa) è un'altra risposta errata ai grandi movimenti di
popolazioni e al mescolarsi di genti che caratterizza la
contemporaneità. Il guaio è che stiamo parlando di risposte che stanno prendendo
piede e che caratterizzano masse sempre più importanti anche della
nostra Toscana. Anche delle nostre città ex operaie o ancora
parzialmente operaie, ma sempre più terziarizzate.
Sul
piano positivo, e su un versante di "sinistra", non si
vedono segnali di una nuova narrazione collettiva che sappia
analizzare le dure conseguenze della deindustrializzazione e della
globalizzazione e soprattutto che sappiano fornire soluzioni che guardino con speranza al
futuro. Restano attivi gli argomenti di una cultura che fa
riferimento a mondi scomparsi (mi riferisco in particolare al tardo
marxismo), ma la cui presa sulle menti delle persone è in evidente,
inevitabile, declino.
Ci
sono certo alcuni punti importanti, tra cui una ripresa della
sensibilità ambientalista e una rinascita di spinte egualitarie e
meno individualiste. A questo si affianca la sopravvivenza di una
cultura dell'accoglienza che, sorretta soprattutto dallo spirito (e
dall'associazionismo) religioso, lavora sui temi del dialogo, della
solidarietà, dell'integrazione e della multiculturalità. Ma è
troppo presto per dire se questi elementi (sentimenti/atteggiamenti)
funzioneranno e avranno un effetto profondo sul grosso della
popolazione.
La
speranza globale, delineata da Padre Balducci nel suo profetico ma
poco letto e poco discusso “Uomo planetario”, è un'utopia ancora
assai lontana da mettersi in marcia.
Quanto
alla memoria del passato, difficile dire che peso eserciterà
rispetto ad una visione necessariamente resiliente che dovrà
caratterizzare gli abitanti delle nostre città, i quali dovranno
soprattutto fare conti col presente e col futuro e non potranno
rimanere troppo ancorati ad un passato che può certo insegnarci
qualcosa, ma difficilmente tornerà a vivere e a produrre benessere
sociale.
Lo
sforzo delle cultura contemporanea di interpretare
questi traumatici cambiamenti epocali e provare a costruire delle risposte non è facile. Forse è anche per questo che la politica
locale (analogamente a quanto accade sul piano nazionale) spesso ignora i
contenuti culturali e procede a tentoni verso soluzioni improvvisate,
prive di analisi e soluzioni narrative dotate di una qualche
coerenza.
Del resto se
può essere vero che tocca alla cultura orientare la politica e
quindi disegnare la città futura (ma troverei più corretto dire che
tocca ai valori orientare la politica e quindi la città del futuro),
occorre però che la cultura sappia proporre soluzioni resilienti
rispetto ai rapidi cambiamenti che incombono su tutti noi e che
modificano quotidianamente il corso degli eventi.
Se
non lo farà o se si limiterà solo a rivendicare un primato che però non riuscirà a
gestire, non potrà lamentarsi se la politica la
lascerà sostanzialmente da parte e farà ciò che potrà per
rispondere, con urgenza, alle domande dei suoi sempre più spaesati
cittadini.