Perchè le librerie sono aperte e le biblioteche civiche sono chiuse?
In un Paese che spesso si rifiuta di affrontare la complessità della realtà rispondere ad una domanda di questo tipo è difficile.
Innanzi tutto perchè le ragioni di questa differenza sono molteplici.
La prima è che le librerie stanno sul mercato e i librai ma soprattutto gli editori sono una lobby in grado di fare pressing sul governo e di trovare ascolto. Sono anche un insieme in grado di stimolare i loro clienti a protestare e a farsi sentire, magari attraverso giornali che orientano l'opinione pubblica. Insomma la filiera privata del libro è in grado di spingere per essere presa in considerazione e quindi sia nella prima fase del lockdown ha riaperto prima delle biblioteche e attualmente non è chiusa.
La seconda sta nel fatto che invece le biblioteche civiche dipendono dagli enti locali. Per lo più dai comuni. E qui comincia il difficile. Perchè i comuni che magari si battono per non far chiudere i negozi, considerano assai meno importanti le proprie biblioteche, pensano che i loro dipendenti siano comunque tutelati e che gli utenti alla fine non protesteranno per la chiusura delle biblioteche. Così i comuni trattano un po' di smartworking coi sindacati, congelano i servizi, cercano di risparmiare e si sentono a posto. Il livello di sensibilità verso i libri e i lettori che caratterizza decisori politici e amministrativi non consente loro di cercare altre strade. Si accontentano e considerano rompiscatole i bibliotecari fanatici che vorrebbero che i loro servizi fossero trattati come quelli delle librerie.
La terza è che la categoria dei bibliotecari, parlo dei grandi numeri, diversamente dai librai non ha la vera responsabilità delle biblioteche che resta nelle mani di dirigenti e amministratori pubblici. E siccome lo stipendio dei bibliotecari corre anche se la biblioteca è chiusa, chi glielo fa fare ai bibliotecari di ingaggiare una battaglia da cui non hanno da guadagnare nulla, se non la gratitudine del pubblico e l'antipatia di amministratori e di dirigenti? Questo misto di irresponsabilità operativa dei bibliotecari, di certezza di stipendio pubblico e dei rischi di una battaglia contro i propri vertici fa sì che solo un pugno di bibliotecari fanatici abbia protestato anche in queste settimane contro le chiusure delle biblioteche, mentre il grosso della professione si è acquietata, magari inventandosi meccanismi soft per rimanere parzialmente aperti. Un ragionamento analogo vale purtroppo anche per le biblioteche statali e universitaria, dove anche lì la filiera dell'organizzazione inceppa il buon senso e la volontà di aprire di più.
Si può modificare questo stato di cose? La vedo dura.
I bibliotecari pubblici non diventeranno mai veramente responsabili delle loro biblioteche e difficilmente i decisori pubblici riconosceranno loro un'autonomia che si riflette sui bilanci comunali (o universitari o statali), sui quali ovviamente gli amministratori vogliono avere sempre l'ultima parola.
Per cambiare solo in parte le cose servirebbe una generazione di bibliotecari di alto livello professionale e di forte visibilità sociale, in grado di conquistarsi una sostanziale (anche se non formale) autonomia operativa sul campo. Infatti laddove le biblioteche pubbliche funzionano bene, hanno pubblico e realizzano ottimi servizi, questa autonomia sostanziale è stata conquistata (con un complesso sistema di relazioni che sarebbe troppo lungo spiegare) e si sposa con una discreta condivisione progettuale da parte di dirigenti e amministratori. Ma è una conquista ed una condizione fragile e precaria, perchè si basa, a sua volta, su un mix di fattori che spesso sono più il frutto della fortuna che di un disegno intelligente. O d'altronde!
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