sabato 27 maggio 2017

RETE BIBLIOLANDIA - FINALONE DI PROMO LETTURA A PONSACCO
Giornata ambiziosa quella che si è giocata oggi a Ponsacco. Premiazioni a manetta di lettori forti, insegnanti collaboranti, classi super impegnate, con contorno di suggerimenti di lettura da parte di una squadriglia di bibliotecari superappassionati del proprio benedetto lavoro. Il sindaco di Ponsacco introduce il pomeriggio davanti a 300 piccoli lettori ansiosi di conquistare la gloria del palcoscenico, accompagnati da genitori giustamente compiaciuti. In riga la pattuglia dei bibliotecari leggenti. A seguire alcuni singoli performer bibliotecari, coordinati dal giovane ma già espertissimo Massimiliano Bertelli (in rosso nella foto).



venerdì 26 maggio 2017

Caciagli provincia rossa Pisa

Addio alla Provincia Rossa. Origini, apogeo e declino di una cultura politica / Mario Caciagli, Carocci, 2017, pp.376

La prima cosa da fare è ringraziare Mario Caciagli per aver condotto questa ricerca, con costanza e per così tanto tempo, sulla cultura comunista nell'area della provincia di Pisa detta anche "zona del Cuoio", essendo i comuni coinvolti (San Miniato, Santa Croce s.a., Montopoli ecc.) centri di uno dei più importanti distretti conciari italiani.
Ed è veramente bello che Caciagli abbia avuto la tenacia e la forza per chiudere questa lunga ricerca (che ha coinvolto anche diversi collaboratori, tra cui Carlo Baccetti e M. Carrai), durata oltre trent'anni e che ha raccolto oltre 250 intervistati.
Il testo che ci consegna infatti non è una collezione di studi già pubblicati, ma una muova rielaborazione del materiale accumulato e una riflessione originale che rimette in gioco anche quello che lui stesso aveva scritto nel corso degli anni (anche in polemica, scientifica, con altri politologi italiani come Ilvo Diamanti).
Mario Caciagli è uno dei massimi esperti italiani di scienza politica (attualmente prof emerito dell'Università di Firenze); è un profondo conoscitore delle dinamiche dei partiti politici (anche a livello europeo) e conosce bene anche il basso Valdarno, in cui in parte è vissuto e vive.
Tema e cuore del libro, la dinamica della subcultura politica comunista in questo territorio. Una subcultura che ha le sue origini in quella socialista e anarchica di fine secolo, ma che ha anche radici profonde nel senso civico, nel mutualismo mazziniano/repubblicano e nel municipalismo di queste terre.
Certo Caciagli è consapevole che definire una cultura politica è come tentare di inchiodare un budino al muro. Eppure con questa prova si cimenta, con ironia e con la passione più distaccata possibile (ha diretto anche l'Istituto Gramsci Toscano).
Ne esce fuori una storia di famiglia ed in particolare delle famiglie rosse del basso Valdarno, anche perché tra le fonti che l'A. usa per raccontare la storia di questa evoluzione (che ha anche un po' il sapore di un giallo...rosso) ci sono 4 o 5 cicli di interviste a elettori (e a volte militanti) comunisti nell'arco di tempo che va dal 1984 al 2006. A fianco di queste fonti "orali", che Caciagli usa in maniera deliziosa (con citazioni gustose e molto significative), l'A. utilizza giornali e riviste locali, ricerche sociologiche, fonti d'archivio (anche se quelle del PCI sono molto lacunose), dati elettorali e dati Istat, pubblicazioni e studi accumulati da lui e da alcuni sui collaboratori. Insomma una bibliografia sterminata che accompagna una ricchezza di fonti documentaria importante.
Il fenomeno della cultura "rossa" del Basso Valdarno viene quindi inquadrato nel contesto più generale della trasformazione socio economica dell'area, che evolve da zona mezzadrile e parzialmente industriale a comprensorio a prevalenza industriale e di servizi, con uno spazio agricolo sempre più marginale e abitativo.
Ma la forza e la crescita della subcultura rossa Caciagli la riporta alla mezzadria e soprattutto alla capacità di riscatto che la cultura comunista assegna al mondo contadino locale. Ma va anche aggiunto che altrettanta forza il PCI la trova nello sviluppo industriale conciario e nei lavoratori finiti in fabbrica dopo l'esperienza dei campi. Perchè se tantissimi mezzadri dal 1946 in poi si iscriveranno e voteranno per il PCI nei comuni del Cuoio, altrettanti operai di S. Croce e Ponte a Egola e molti padroncini (soprattutto tra i contoterzisti) prenderanno la tessera del partito, militeranno nelle sue sezioni territoriali e voteranno il PCI alle elezioni politiche e amministrative. Mezzadri e operai sono dunque per l'A. gli ancoraggi sociali forti della subcultura rossa della Terra del Cuoio. Logico quindi che la crisi di questa cultura si manifesti con la fine della mezzadria e con l'avvento della società postindustriale, perchè, scrive Caciagli, il vero capolavoro del PCI da queste parti è stato catturare i mezzadri e poi tenere insieme operai e padroni nelle fabbriche: gioco questo che ha funzionato bene per 40 anni (il tempo di giungere a maturità ed invecchiamento della generazione che aveva vent'anni alla fine degli anni '40) e poi ha cominciato a sfaldarsi.
Va precisato che tutto questo avviene grazie anche alla creazione di una "corona" di associazioni ed enti satelliti che si radica nel territorio e che consente alla cultura rossa (e al PCI) di creare una egemonia territoriale forte che consente di: a) controllare una numerosa base elettorale (in alcuni comuni a sud dell'Arno i voti arriveranno anche al 70% dell'elettorato nel secondo dopoguerra), b) controllare le amministrazioni comunali e quindi rafforzare ancora di più l'egemonia locale; c) avere forza contrattuale rispetto ai proprietari agricoli e alle imprese; d) orientare lo sviluppo socio-culturale locale; e) affermare una forte presenza nel mondo della scuola (tra maestri e professori).
Il volume scandaglia poi il mondo dei valori comunisti, le feste, i simboli, la diffusione della stampa, la memoria, la tradizione antifascista e quella che potremmo definire la quotidianità comunista, ovvero quell'insieme di comportamenti e di riti che facevano sentire i comunisti delle persone "diverse", delle persone speciali, moralmente un po' superiori (vero o falso che questo sentimento fosse). Un po' come è tipico di tutte le "sette religiose".
Il libro analizza anche il difficile passaggio della cultura comunista da una generazione all'altra (in particolare da quella dei nonni-ventenni alla fine degli anni '40- a quella dei nipoti) e il ruolo dei nonni nella conservazione e nella trasmissione dei valori e della memoria.
Ma nelle circa 400 pagine di testo l'A. mette una tale quantità di carne al fuoco che non è possibile farne il riassunto in poche frasi.
La parte finale è poi dedicata alle ragioni del declino della cultura rossa nel Basso Valdarno, con note comparative rispetto ad esiti analoghi rintracciabili in altre regioni europee (come Germania, Francia, Austria).
Nell'insieme, ripeto, si tratta di un lavoro straordinario che meriterebbe di essere esaminato e sezionato punto per punto, perchè tante delle osservazioni di Caciagli potrebbero essere considerate solo punti di partenza e non di arrivo. Ma questo gioco di inchiodare il budino non è possibile nemmeno per me e quindi mi limiterò a poche annotazioni che mi sembrano più significative.
Comincio da una nota bianca. La subcultura rossa del Cuoio infatti convive e si affianca per 60 anni con una forte subcultura bianca (quella cattolica/democristiana per intenderci) e perfino con una subcultura nera (quella fascista).
I cattolici manterranno nel Cuoio (soprattutto sul versante lucchese dell'Arno, ovvero a Nord) alte percentuali di penetrazione e i comuni di Castelfranco e Santa Maria a Monte vedranno questa cultura contrastare con quella rossa e a tratti prendere il sopravvento nelle amministrazioni locali. Del resto anche la cultura bianca ha costruito nel "Cuoio" una sua corona e una sua capacità egemonica che certo affonda le radici più nella tradizionalista cultura lucchese bianca che in quella rossa del resto della Regione.
La seconda riguarda il terreno privato (morte, battesimo, cresima, comunione e matrimonio). Su questo piano la cultura rossa, che pure recuperava l'anticlericalismo anarchico e socialista di fine ottocento, non spodestò mai nel Cuoio la cultura e i valori cattolici; e questa "criticità" del "privato" rosso (che Caciagli non sottolinea abbastanza) costituisce a mio avviso uno dei fattori di debolezza della cultura rossa, che si evidenzierà soprattutto quando gli individui perderanno un po' di senso di appartenenza alla classe (mezzadrile e operaia) e si troveranno di nuovo a fare i conti con la propria individualità.
La terza annotazione è che la cultura rossa non è rimasta immobile per tutto il dopoguerra, ma è evoluta, secondo una gittata lunga e fortemente differenziata. La cultura rossa è cambiata nel corso degli anni. E' traghettata infatti da una fase fortemente rigida, dura, "antisistemica" e rivoluzionaria (tipica degli anni '40 e '50, l'epoca dei comunisti stalinisti, per semplificare) a quella più sistemica e riformista degli anni 60/80, fino a diventare una cultura integrata nel sistema nazionale ed in quello europeo degli anni '80/'90, quando il PCI concluse la sua parabola e si sentì perfino obbligato a cambiare nome, tanto la sua "natura" e quindi la sua "cultura" era mutata. Di questa trasformazione Caciagli non fornisce il senso forte (ma mi rendo conto che per trattare una cosa del genere gli ci sarebbero volute altre 200 pagine di testo e il volume avrebbe assunto un carattere troppo faticoso).
Come testimonianza di questa evoluzione radicale della subcultura rossa indicherei, ad es., il filosovietismo e l'antieuropeismo degli anni '40 e '50 che si rovesciano in filoeuropeismo e nella morte del mito dell'URSS negli anni '70 e poi '80. Il che però significava che i termini di "bene" e "male" con cui erano stati vissuti il filosovietismo e l'antieupeismo si rovesciano e provocano smarrimento.
Un altro elemento che cambia e stravolge la cultura rossa è l'avvento dei diritti civili (rivoluzione sessuale, divorzio, aborto, libertà personali). Tra gli anni '60 e gli anni '80 infatti il paese passa da una cultura fortemente collettivista ad una cultura più individualista e liberale e questo modifica i modi di pensare anche sul piano locale.
E' quindi la somma delle trasformazioni locali e di quelle nazionali (ed internazionali) a sfarinare la subcultura comunista anche in questa parte della Toscana. Perchè se ad. es. molti vecchi comunisti restano "sentimentalmente" filosovietici (perchè rompere col mito sarebbe troppo doloroso), tanti giovani comunisti rigettano la mitologia sovietica, non vedendo affatto in quel paese un "paradiso sulla terra", ma semmai un grande Gulag da cui prendere le distanze.
Aggiungo che tra gli ancoraggi culturali della subcultura rossa non ci sono quasi mai riferimenti ai libri. Caciagli non parla quasi mai testi sacri. Marx e Lenin non sono quasi mai citati. Stalin molto di più. Anche Gramsci è presente. Ma a parte le "Lettere dal carcere", l'opera di Gramsci è troppo complessa per diventare una lettura popolare. Insomma alla cultura rossa, al popolo rosso, è mancato (nel "Cuoio" come altrove) un testo di riferimento chiaro, forte, stabile, a cui si potesse tornare nei periodi di crisi per fare domande ed ottenere risposte. E anche se "Il manifesto dei comunisti" di Marx sarà sicuramente stato citato nelle interviste realizzate tra gli anni '80 e il 2006, questo opuscolo non può assumere nè il valore nè la forza evocativa paragonabile a quella recitata dalla Bibbia nella cultura bianca . Non a caso anche di recente un importante esponente politico post-comunista toscano, che tra l'altro è tornato a parlare di "rivoluzione socialista", alla domanda di quali testi suggerirebbe ai giovani di leggere oggi, ha risposto indicando il XXIV Capitolo della "Teoria generale dell'occupazione.." di John Maynard Keynes (sic!) e "L'attesa della povera gente" del messianico ma cattolicissimo fiorentino Giorgio La Pira (un testo che in Italia non risulta più ristampato dal 1983).
Confesso che il libro di Caciagli mi ha poi stimolato moltissime altre e, almeno per me, intrigantissime riflessioni sulle quali però non è il caso qui di dilungarsi, avendola io già fatta troppo lunga.
Concludo invece dicendo che, diversamente da quanto in parte sostiene Caciagli, credo che molti degli elementi che formarono la subcultura rossa in Italia e nella zona del Cuoio non solo preesistessero all'avvento del "comunismo" nostrano ma siano ancora vivi anche se poco vegeti e ormai poco diffusi e praticati. Mi riferisco a forti sentimenti di antimilitarismo, antistatalismo, anticapitalismo, anticlericalismo, gusto per la cooperazione collettiva, senso civico, profondo senso di giustizia e di egualitarismo. Tutti questi sentimenti e valori erano molto radicati in queste aree della Toscana e in diverse aree del paese prima del XX secolo e sono rintracciabili anche adesso all'inizio del XXI, ma in forma assai più blanda, minoritaria e mescolata. La vera "magia" che seppe realizzare il PCI nell'area del Cuoio, in Toscana ed in molte aree del paese per un trentennio, fu di riuscire a fondere tutti questi elementi in un insieme culturale e nel riuscire a farlo funzionare come identità a sostegno della propria politica che divenne in molti contesti (come quello del Cuoio) largamente egemone.
Da questo punto di vista oso sostenere che se la subcultura rossa si è certamente sfarinata, molte delle sue componenti chimiche sono disperse nell'ambiente almeno toscano e altrettanto potenzialmente potrebbero essere riaggregate sia pure impastate con miscele politiche diverse. Anzi di fatto lo sono. Perchè ad es. il grillismo toscano pesca molto nelle componenti chimiche  "un tempo rosse" anche se le mescola con elementi provenienti da altre esperienze e da altre subculture.
In fondo, è questa la mia tesi, le culture politiche reimpastano sempre elementi che sono già presenti nell'aria e sul terreno ovvero si trovano radicati nelle mentalità e nelle tradizioni dei popoli e dei microcosmi. Questi elementi però sono "cangianti" e sfuggenti e quindi sono difficili da definire con precisione (anche in un libro) e da chiarire esaustivamente. Perchè cambiano impercettibilmente ma continuamente e sono influenzati da mille fattori. Per questo il volume di Caciagli è un'opera preziosa. Perchè tenta davvero di inchiodare il budino al muro e in gran parte, devo dire, ci riesce.

giovedì 25 maggio 2017

grandi biblioteche non comprano buoni libri

Le grandi biblioteche italiane non comprano nemmeno libri innovativi

Il prof. Oded Shoseyov è membro dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Si occupa di ingegneria delle proteine, di biologia delle piante e di nano-biotecnologie. Il suo gruppo di ricerca si concentra sui materiali Bio-Inspired Nanocomposite. E' autore o co-autore di oltre 160 pubblicazioni scientifiche ed è l'inventore o co-inventore di 45 brevetti. Il prof. Shoseyov ha ricevuto il premio Polak Award Scientifico per il 2002, il Premio Kay per la Ricerca Innovativa e Applicata del 1999 e il 2010 e il Premio del Primo Ministro di Israele per l'Imprenditoria e l'Innovazione del 2012. È il fondatore scientifico di 9 start up. Questo da internet (e da un recente articolo di La Repubblica, 23/5/2017).Ha scritto, curato e pubblicato un testo importante nel 2008 (riedito nel 2010) intitolato NanoBioTechnology : bioinspired devices and materials of the future (edited by Oded Shoseyov and Ilan Levy, Totowa, NJ : Humana Press, ©2008) di cui in Italia circolano a livello pubblico solo... 2 copie (o almeno questo ci dice una ricerca effettuata in SBN e AZALAI, i due principali motori di ricerca a disposizione dei bibliotecari italiani). Ho fatto un rapido controllo su altri sistemi bibliotecari europei. Rispetto al libro sopra citato sono usciti questi dati che si riferiscono a copie disponibili in biblioteche pubbliche, universitarie incluse (dati che forse potrebbero essere arrotondati per difetto).
Francia 3 copie
Gran Bretagna 7 copie (compresa la British Library)
Germania 15 copie
Italia 2 copie (ma nessuna è presente in una delle grandi biblioteche nazionali italiane, tipo Roma o Firenze)
Ok, è solo un esempio. Forse imperfetto. Forse non se ne può trarre una morale univoca. Ma qualcosa questa informazione suggerisce. E almeno a me dice che se non ci si rende conto che anche comprare libri innovativi è importante per lo sviluppo del Paese e che anche i libri sono equiparabili alle autostrade, alle ferrovie, agli aeroporti, non andremo lontano e non terremo il passo degli altri sistemi nazionali con i quali siamo in competizione.
La conclusione non è mia, la sosteneva già uno storico come Pasquale Villari nelle sue “Lettere Meridionali”, pubblicate negli anni '70 del........... XIX secolo.

PS. In tema di salute è uscito nel 2011 un testo importante sugli effetti devastanti del fumo e del tabagismo. Si intitola “Golden Holocaust: Origins of the Cigarette Catastrophe and the Case for Abolition”. L'ha scritto Robert N. Proctor e stampato la University of California Press. Proctor insegna storia della scienza alla Stanford University.
L'autore si avvale di documenti precedentemente segreti per esplorare come la sigaretta sia diventata la droga più diffusa sul pianeta, con circa sei mila miliardi di sigarette vendute all'anno. Descrive un'immagine stupefacente dei produttori di tabacco che si impegnano per bloccare il riconoscimento dei pericoli del cancro provocati dal tabacco. Proctor racconta storie inedite di frodi e sostiene un rimedio semplice ma ambizioso: il divieto di fabbricazione e vendita di sigarette.
Di questo libro, non tradotto in italiano, ci sono nelle biblioteche italiane appena 6 copie pubbliche (ma 1 si trova alla biblioteca della Base Militare Americana di Aviano -possiamo considerarla Italia?, la seconda alla Biblioteca dell'Università Europea di Firenze in quel di Fiesole. Nessuna alla Nazionale di Roma o di Firenze).

In Germania le copie pubbliche sono 14 e ben distribuite nel Paese.
In Gran Bretagna 26 (British Library compresa)
In Francia ce ne sono 8 copie in lingua originale e 23 in francese (loro lo hanno tradotto nel 2014).
Anche questa storia mi pare esemplificativa.
SALONI DEI LIBRI - IN ITALIA A VOLTE LA DISUNIONE FA LA FORZA
L'Italia è uno strano Paese. Anzi no. Ormai è chiaro è il paese del piccolo è ganzo. E a volte il il piccolo funziona meglio del grande. Non c'è da vantarsene, perchè i piccoli anche se sono ganzi sempre piccoli rimangono, ma.. nella confusione di un mondo sempre più complicato a volte branchi di pesci piccoli possono trasmettere il loro colore al mare. Oppure fare cose rilevanti. Magari sul piano della qualità.
E' il caso dei saloni dei libri in Italia.
Un salone di spessore europeo non possiamo o non riusciamo a costruirlo. Mettere d'accordo tutti i protagonisti della filiera del libro in Italia sarebbe come pretendere di quadrare il cerchio. O almeno così pare. Nel frattempo tanti anni fa ci provò Torino, in piena crisi Fiat, a sostituire il business delle auto con quello dei libri. Gli andò bene. Certo Torino è un luogo decentrato rispetto al resto del Paese (non a caso non ci si potè fare la capitale d'Italia anche se furono i monarchi torinesi a guidare il processo risorgimentale e conquistare l'Unità Nazionale e forse la capitale se la sarebbero persino meritata). Il meglio dell'editoria torinese entrava allora in una fase di declino. Le sue Università... Lasciamo perdere. Tanto il fatto importante è che Torino, per varie ragioni, lanciò 30 anni fa il Salone ed è riuscito piano piano a costruire una sua tradizione. Una tradizione che, con qualche sostegno pubblico, è riuscita a portare a Torino 100.000 visitatori ad ogni edizione negli ultimi anni.
Peccato che nel frattempo l'editoria torinese abbia perso autonomia e sempre di più il baricentro editoriale si sia invece rafforzato in quel di Milano. Così la capitale dell'editoria italiana, parlo di Milano, nel 2012 ha lanciato Bookcity (una specie di salone del libro distribuito in città in autunno) e poi ha tentato nel 2017 di cannibalizzare il Salone di Torino, inventandosi un salone milanese a primavera e portandoci 70.000 visitatori, nell'area della Fiera di Rho.
Nel frattempo anche Roma, la subcapitale della editoria italiana, ha giustamente organizzato due fiere di libri (una primaverile ed una a ridosso del Natale). Entrambe con buoni numeri. Di vendite e presenza di pubblico. La demografia del resto non manca alla capitale politica italiana. E i lettori nemmeno.
E il bello è che tutte queste fiere stanno andando proprio molto bene.
Il salone di Torino poi quest'anno, stimolato dalla concorrenza lombarda e ormonizzato da un surplus di sostegno pubblico, è stato un successone, superando quota 160.000 visitatori (e chiunque sappia come si arriva a Torino via treno o in auto si rende conto di cosa intendo dire quando parlo di "successone").
Ne deduco che la concorrenza, mescolata ad una buona dose di capitalismo e a dosi altrettanto massicce di sostegno pubblico, servono.
Servono, servono. Perfino per far vendere più cultura in un paese dove in certi casi sono davvero la disunione e il municipalismo a fare se non la forza almeno il successo.

martedì 16 maggio 2017

Ma che lingua dovrebbe parlare un futuro leader europeo?

In due lunghi interessanti articoli apparsi sul Corriere della Sera del 10 aprile e del 14 maggio di quest'anno Ernesto Galli della Loggia (editorialista del "Corriere della Sera") e Roberto Esposito (filosofo teoretico e della politica, docente alla SNS di Pisa) sostengono, in estrema sintesi, che l'Europa avrebbe bisogno per rilanciarsi di un leader, eletto democraticamente, con un voto popolare diretto da tutti i cittadini europei. Un uomo politicamente forte proprio perché scelto direttamente dai popoli europei. Quest'uomo (o donna che sia), eletto dai popoli, dovrebbe essere nominato Presidente della Commissione Europea e scegliersi con una certa libertà i suoi ministri. Beh, ovviamente, i due lunghi articoli del "Corrierone" sono più dettagliati e dicono anche altro, ma la sostanza è che per progredire verso un'Europa politica (con una sua politica estera e una sua difesa) secondo i due autori serve l'elezione diretta (possibilmente in un giorno uguale per tutti gli stati) di un leader coi fiocchi.
Peccato che ai due commentatori politici, schierati come me pro-Europa, non venga a mente di chiedersi: ma quale lingua dovrebbe parlare un leader simile (e i suoi competitori, naturalmente) per risultare facilmente comprensibile e quindi valutabile da parte dei suoi elettori sparsi dei 27 paesi dell'Unione?
Perchè anche se quello che fu un assillo dei padri fondatori dell'Europa, ovvero cercare di costruire una lingua europea parlata o almeno intesa dai vari popoli europei, oggi è un problema rimosso, non vuol dire che la questione della lingua sia risolta. Tutt'altro. E se si vuole costruire un più forte e solidale senso di comunità europea, se si vuole che questa comunità esprima un autorevole leader europeo, se si vuole che questa comunità riconosca i propri confini globali, i suoi abitanti, almeno la stragrande maggioranza dei 400 milioni di elettori europei, dovrebbero parlare o almeno intendere una comune lingua europea.
Il guaio è che oggi questo non è possibile. E, peggio ancora, la tesi dominante è che la vera lingua europea è la traduzione. Il che rappresenta una scelta paralizzante e blocca lo sviluppo della Comunità Europea.
Certo la "traduzione" è una soluzione condivisa da tantissimi. Intellettuali compresi. Persino dagli anti-europeisti convinti (e questo già dovrebbe insospettire). Ma è evidente che è la scelta meno agglutinante possibile.
Certo, questa opzione mette d'accordo un po' tutti, ma ha il difetto che non funziona come motore per costruire una comunità europea emotivamente coesa e blocca lo sviluppo di una vera cultura meticcia. Inoltre ha un notevole costo finanziario.
Tra gli effetti bloccanti evidenzio anche che la traduzione inchioda la comprensione della comunicazione, soprattutto quella di valore politico, alla "mediazione" e inibisce quindi la fruizione diretta di qualunque discorso politico da parte delle singole persone. Ma questo significa che circa 400 milioni di elettori sentiranno sempre distante qualunque leader europeo.
Aggiungo che ci sono molte altre ragioni per suggerire a chi chiede più Comunità Europea di affrontare prioritariamente la battaglia culturale per individuare una lingua europea.
E senza farla troppo lunga (e saltando argomenti che allungherebbero troppo questo testo) aggiungo che la lingua europea non può che essere una specie di Euronglish, sulla scia di quanto sta avvenendo nel mondo scientifico, in quello economico e, almeno in parte, in quello delle relazioni personali.


martedì 9 maggio 2017

In Europa sarebbe utile una opinione pubblica bilingue
Nell'agile volume che Enrico Letta ha scritto per sostenere le sue battaglie europeiste (e anche la sua presenza politica in Italia) ci sono molte riflessioni e molti spunti che meriterebbero di essere ripresi. "Contro venti e maree. Idee sull'Europa e sull'Italia. Conversazioni con Sebastien Maillard (Il Mulino, 2017) esamina molte ragioni per cui vale la pena di sostenere e se possibile rilanciare l'Unione Europea.
Tra tutte, mi piace sollevare un tema che Letta tratta di sfuggita, ma con parole accorate e che meritano un approfondimento. Serio.
Dice Letta quasi alla fine della sua intervista che la "società civile europea è molto debole a causa della barriera delle lingue. Per eliminare queste barriere occorre tempo. L'apprendimento delle lingue è molto più spinto di una volta, ma non bisogna lasciarlo alla sola iniziativa personale. Bisogna renderlo obbligatorio". E poi, più avanti nella stessa pagina, annota: "La società civile europea è debole anche per l'assenza dei media europei". Infine aggiunge che il digitale ci darà una mano.
In queste poche frasi credo sia riassunto il motivo per cui il sogno Europeo è destinato a rimanere fragile e legato o agli interessi economici cari soprattutto alla borghesia o a visioni politico culturali serie ma destinate ad una certa precarietà, almeno in questa fase storica.
Affievolita la spinta propulsiva dell'aspirazione alla pace (dopo 70 anni di pace ininterrotta in Europa la paura delle guerra non è più un timore forte a livello popolare, anche se questo non vuol dire che la guerra non resti una tragedia sempre possibile tra popoli "civilizzati"), preso atto che dal punto di vista economico l'Europa non può garantire un sistema disseminato di welfare di altissimo livello (mancando all'Europa sia un motore economico fortissimo che sostenga tale welfare sia un'altrettanto forte volontà politica di costruire una comunità più solidale); tenuto invece conto che l'Europa è scossa dai mille problemi che agitano anche il resto del pianeta, rispetto ai quali problemi non è facile per un soggetto plurale come l'Europa prendere decisioni efficaci per tutti, si evidenzia bene come manchi una opinione pubblica che ragioni "in termini europei" e suggerisca agli eletti decisioni "europee" ovvero non condizionate da egoismi nazionalistici (almeno nella misura in cui ciò è possibile).
E ha ragione Letta a sottolineare come sia particolarmente debole quell'insieme che lui chiama "società civile europea" e che invece io preferirei definire come "opinione pubblica europea".
Ma comunque la si intenda, resta il fatto che, come ha notato Letta, per poter avere una società civile davvero europea è necessario superare le attuali barriere della lingua. Gli europei non parlano, né scrivono, né usano, se non in misura assolutamente minoritaria (università, centri di ricerca, determinati contesti economici), una lingua comune. Ognuno di noi continua a pensare, scrivere, parlare nella sua lingua nazionale e ad avere come orizzonte per lo più i confini del proprio Paese.
Già, ma come si supera tutto questo? Come si superano i particolarismi nazionali?
Letta parla genericamente di "apprendimento delle lingue" che va reso obbligatorio. Ma cosa vuol dire in concreto? Su questo punto, Letta è meno chiaro.
Il problema di una lingua comune che desse voce ad un'opinione pubblica europea se lo posero con chiarezza i fondatori della Comunità negli anni '50 del '900, quando, almeno in alcuni paesi europei, fu coltivata l'idea di sostenere una lingua artificiale scritta e parlata da tutti in Euorpa. Quella lingua, l'Esperanto, fu perfino introdotta in via sperimentale e se non erro volontaria nell'insegnamento scolastico. Ricordo di aver preso lezioni di Esperanto a scuola a Pontedera, alle medie, alla metà degli anni '60. Poi la cosa finì.
Non credo che sia possibile rilanciare oggi l'Esperanto (lingua artificiale), ma ritengo invece che il superamento delle barriere linguistiche possa manifestarsi attraverso la costruzione di Europa bilingue. Un'Europa in cui ogni cittadino conosca bene la propria lingua nativa, ma ne padroneggi con facilità anche un'altra, veicolare, comune a tutti gli altri europei. Una lingua con cui gestire la propria cittadinanza europea. Una lingua già strutturata, diffusa sul piano scolastico, per apprendere la quale ci sono già insegnanti e libri di testo, e che reca con sé molti motivi ed evidenti vantaggi per essere adottata ed usata.
Non credo invece all'idea, per altro molto diffusa tra gli intellettuali europei, che la lingua europea risieda nella "traduzione delle varie lingue". So bene che questa idea è sostenuta da grandissime personalità della cultura che rispetto e ammiro moltissimo e che porta con sé anche certi vantaggi (e un bel po' di lavoro di traduzione).
Ma se vogliamo che si sviluppi un'opinione pubblica europea con un'anima europea serve una lingua veicolare comune a tutti, intesa e usata con scioltezza e facilità da tutti o almeno dalla stragrande maggioranza degli europei, a qualunque nazione o ceppo linguistico base appartengano. Una lingua che non abbia bisogno di intermediari. Mentre la "traduzione" è l'esempio più perfetto di intermediazione culturale.
Allora, come sosteneva anche il più famoso dei linguisti italiani, Tullio De Mauro (in Internet è rintracciabile un appassionato discorso in cui De Mauro difende questa tesi all'indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=NFMJG-xpgDA), la lingua veicolare "europea" non può che essere l'inglese. E la soluzione linguistica più sostenibile per gli europei (ma pur sempre un traguardo politico da conquistare) è il biliguismo.
Solo il bilinguismo infatti potrebbe avere il vantaggio di realizzarsi in tempi rapidi (una volta accolto come scelta politica) e potrebbe creare quella koinè che, a sua volta, potrebbe favorire lo sviluppo di un'opinione pubblica europea e di un'editoria di portata europea. Gli stessi media  (TV in primis) e i social network potrebbero diventare a quel punto strumenti ancora più unificanti (con l'uso spinto della lingua veicolare) e l'Europa potrebbe spostare le ingentissime somme che oggi investe sulle traduzioni (in 24 lingue diverse) verso il sostegno ad un'unica lingua veicolare.
Ovviamente senza pretese puriste. Ma con finalita' pratiche. Creare l'unità linguistica dell'Europa. Un sogno certo. Ma a portata di mano.

lunedì 8 maggio 2017

10 maggio 1933 - I roghi nazisti dei libri antitedeschi. Ricordare per non ripetere.

La Biblioteca Gronchi di Pontedera ha aderito volentieri alla campagna promossa, su scala nazionale, dall'ARCI contro i roghi dei libri organizzati a più riprese nella Germania nazista e contro tutti i roghi di libri, di giornali, di riviste e più in generale di idee che purtroppo continuano (anche se in forme meno clamorose) anche nel mondo contemporaneo. Così mercoledi 10 maggio la Biblioteca organizzerà un paio di eventi di promozione del libro e della lettura.
Quando dissero a Sigmund Freud che in Germania avevano bruciato pubblicamente le sue opere pare che il padre della psicanalisi si sia incupito ma subito dopo, in perfetto spirito ebraico, abbia commentato che in fondo gli era andata bene, perchè solo qualche secolo prima al rogo ci avrebbero mandato lui. E di sicuro i nazisti lo avrebbero bruciato in qualche forno crematorio se Freud non si fosse premunito di fuggire in Inghilterra, aprendo una nuova via della diaspora in cui fu seguito anche da altri autori, tra cui Thomas Mann, le cui opere furono date alle fiamme.
Del resto la libertà di stampa è una della prime vittime dei regimi totalitari che non sopportano la libertà di pensiero, né opinioni diverse da quelle ufficiali.
I libri, invece, sono una testimonianza perfetta della esistenza e, oserei dire, della necessità che esistano diversità di pensiero, diverse opinioni, punti di vista divergenti, prospettive le più disparate e chi più ne ha più ne metta. Ma tutta questa bibliodiversità non solo non è pericolosa, bensì costituisce una ricchezza.
Di più. Il libri sono la materializzazione inconfutabile che non solo esiste l'altro, ma che addirittura esistono tanti altri, tutti diversi tra di loro e tutti però con la loro dignità, autorevolezza e forza.
E le biblioteche sono i contenitori per eccellenza di questa diversità, pluralità, alterità.
Così non fa meraviglia che il sogno di tanti bibliotecari sia quello di essere il più possibile enciclopedici. Il loro sogno, irrealizzabile se non attraverso la Reti bibliotecarie, è di coprire attraverso i libri tutte le discipline e tutti i punti di vista sulle diverse discipline, così da rispondere a tutte le domande di tutti i potenziali lettori.
Perchè l'unica cosa che i bibliotecari sanno è che il sapere è la somma e soprattutto la messa in relazione (ovvero in autentica disponibilità per tutti) di tanti buoni libri che scandagliano e raccontano la realtà del mondo partendo da punti di vista diversi ed a volte perfino contrapposti.
Per questo i roghi dei libri oltre ad essere una follia politica sono un grave danno per lo sviluppo dell'umanità, la quale cresce e progredisce attraverso il confronto tra idee e libri e non certamente attraverso la soppressione di certi libri a favore di altri per mera decisione politica.
Così mi piace pensare all'iniziativa NO ROGO dell'ARCI come ad una iniziativa per l'ulteriore apertura alla lettura su tutti i temi possibili e per tutte le persone possibili. Migranti inclusi. E a costo zero.
Le biblioteche infatti restano (e dovranno restare anche in futuro) tra le poche istituzioni del sapere e della cultura a costo zero per i lettori e per gli utenti, il cui utilizzo vada costantemente incoraggiato e promosso.
E aggiungo, per finire, che un governo civile dovrebbe riconoscere a tutti un credito di imposta di almeno 200 euro all'anno per acquisto libri. Perchè se un Paese crede nella formazione permanente, nella lettura e nell'importanza dei libri, allora dovrebbe fare in modo che tutti i suoi cittadini spendano in acquisto libri e magari possano detrarre una parte di queste spese dalla propria dichiarazione dei redditi per un valore di almeno 200 euro all'anno (pari più o meno a 10 libri). Penso che questo credito d'imposta non solo sarebbe un modo per sostenere il mondo dei libri, ma servirebbe a tenere aggiornate e più in forma le teste di tante persone e sicuramente questo farebbe molto bene al paese. Sicuramente gli farebbe risparmiare altri costi (in medicine, incidenti, comportamenti scorretti, ecc.), oltre naturalmente a preservare la democrazia e la cultura.
  

domenica 7 maggio 2017

Bene la Francia
La vittoria di Macron restituisce speranza al futuro dell'Europa o almeno così pare di capire.
La maggioranza dei francesi ha detto no al ritorno nazionalista e sovranista e questa è una buona notizia.
Restano ovviamente tutti gli altri problemi sul tappeto, ma almeno in Francia non prevale la chiusura e l'egoismo nazionalista che, volenti o nolenti, ha caratterizzato la Brexit.
Questo di per sé mi pare un fatto già molto positivo.