sabato 23 luglio 2022

La crisi di governo spiegata al Massimo Contemporaneo Filosofo

Il MCF si chiede oggi sulla pag. 1 de “La Stampa” se sia “razionalizzabile quanto avvenuto” (intendendo la caduta del governo Draghi). Risposta facile. Non solo lo è, ma tale caduta era persino prevedibile proprio in questo periodo. Perchè? Beh, qui serve la storia, la quale ci racconta che l’Italia è una repubblica parlamentare in cui in media (almeno dal 1943 ad oggi) un governo è durato in carica non più di un anno e mezzo. Ergo, avendo il gov Draghi raggiunta una tale durata media, era statisticamente molto probabile che il parlamento lo defenestrasse. Insomma questione di storia, di statistica, di probabilità, in breve di matematica, che, come direbbero i cugini francesi, di solito è più chiara di tante riflessioni arzigogolate. Oltre tutto il gov Draghi è stato fortemente voluto e sostenuto dal Presidente della Repubblica, ma la rissosa coalizione di partiti che l’ha tenuto in vita in Parlamento è costituita da soggetti politici che litigano tutti i giorni su tutto e non sono d’accordo su nulla (dalle piccole scelte alle grandi). Perciò mi verrebbe da chiedere al MCF: Ma come si fa a pensare che in questo Parlamento dalle sfarinate maggioranze variabili (e dove si è registrato il più alto numero di “cambi di casacca”) ci possa essere una compattezza tale da garantire a un governo, pur guidato da un personalità di alto profilo e pur apprezzato anche dall’Europa e dagli Usa, di stare dignitosamente in piedi? In effetti i filosofi hanno molta fantasia e spesso la realtà se la disegnano e se la manipolano secondo i loro desideri o ubie. Ma, come avrebbe detto Norberto Bobbio, bisogna saper imparare dalle dure repliche dalla storia. E magari dare anche un’occhiatina alle statistiche.

giovedì 21 luglio 2022

Il miracolo europeo

Quando si ragiona di Comunita' Europea dico che non parlerei di "fallimento dell'integrazione europea",  quanto piuttosto di incompiutezza del processo di intrgrazione. Un processo fortemente condizionato prima dalla guerra fredda, poi dalla fine dell'imperialismo sovietico e ora dal suo ritorno neozarista e dall'incrinarsi dai processi di integrazione/globalizzazione e dal ripresentarsi di forti sentimenti nazionalisti. A mio avviso il faticoso e lento processo di integrazione europea e' in realta' un mezzo miracolo, dato il variare continuo del contesto storico e delle classi dirigenti. Lo stesso dicasi per l'Euro. Aggiungerei che per la ns generazione di settantenni Europa ed euro sono state e sono due botte di c.... che spero che i ns figli e i nostri nipoti conservino e, se ce la fanno, migliorino. Sono realta' perfette? Certo che no. Ma la drammatica ridefinizione attuale delle relazioni internazionali ce ne fa toccare con mano l'importanza. Aggiungerei infine che parlare di "mortale abbraccio dell'atlantismo" come capita a volte do leggere o di sentir dire, mi sembra ingeneroso. Atlantismo e europeismo sono stati assi che hanno garantito pace e sviluppo in Europa per circa 80 anni e favorito l' evoluzione democratica di diversi paesi europei a vocazione autoritaria: Italia inclusa". Per fare di meglio le poco omogenee classi dirigenti europee dovrebbero affrontare problemi che (a cominciare dalla sicurezza del continente) non sembrano assolutamente in grado di gestire. Certo la guerra in corso in Ucraina sta scuotendo l'edificio europeo, attaccato anche dai rigurgiti nazionalisti. Le previsioni sono difficili, ma un'autosufficienza europea politica, militare ed economica non sembra realistica, soprattutto dopo la Brexit. Prendere atto che l'europa e' un vaso di coccio tra le grandi potenze aggressive del pianeta e gestire con maggiore realismo anche il proprio protagonismo internazionale ci farebbe bene. O almeno cosi credo.

“La sfida nucleare”: quanto ne sappiamo?

I bei libri sono come le patatine. Uno tira l’altro. Perciò dopo il saggio di Antonio Varsori sono passato a leggere il testo di Nuti (docente di Relazioni Internazionali all’Università di Roma 3) per capire di più della politica estera italiana in rapporto all’uso delle armi nucleari. A suggerirmi questo approfondimento è stata la tragica guerra in atto in Ucraina e il frequente ricorso da parte degli aggressori russi alla minaccia atomica. Una minaccia che sembrava destinata a tramontare con gli anni ‘90, con la firma, anche russa, di diversi trattati di disarmo e che invece ci è stata risbattuta sul muso con violenza e con brutale cinismo negli ultimi mesi, senza che su questo si sia riusciti a ragionare seriamente. Il tema è tutt’altro che facile. Solo gli stati sovrani (ovvero quelli che hanno eserciti agguerriti e armi, incluse quelle atomiche) contano davvero sullo scacchiere internazionale. Gli altri sono stati vassalli. I russi zaristi, poi quelli comunisti e di nuovo quelli neozaristi hanno ragionato e ragionano ancora oggi così. E’ una realtà spiacevole. Mostruosa. Ma non basta tapparsi gli occhi perché scompaia.

E noi italiani, noi con un esercito per fortuna poco bellicoso e che non abbiamo sviluppato il nucleare militare, noi, come siamo messi rispetto a questa sfida? E, soprattutto, come ci comportiamo?

Domande difficili a cui si abbinano risposte altrettanto complicate da trovare e da assimilare.

Quello che posso dire è cosa ho imparato dal saggio di Nuti (il cui titolo è: “La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991”, Il Mulino, 425 pp, 2007, nessuna copia in Bibliolandia).

In primis che l’Italia ha avuto un gruppo di scienziati (in parte ex allievi o collaboratori di Fermi) che nel dopoguerra hanno deciso di non impegnarsi nella ricerca dell’energia atomica con ricadute militari. Non che siano mancati fisici che abbiano lavorato in quella direzione, ma un buon numero di loro si è tirato fuori (ha “obiettato”). Gli scienziati antinuclearisti erano tutti di “comunisti”, come sosteneva il Ministro Pacciardi? O i fisici antinuclearisti erano animati dal sentimenti umanitari o di terrore rispetto al potenziale distruttivo dell’energia atomica (secondo una suggestiva lettura che Leonardo Sciascia fece della scomparsa del fisico Ettore Majorana in un suo delizioso volumetto anche questo da leggere)? Il testo di Nuti presenta il tema, ma lo lascia in sospeso.

Di certo sorsero alcuni laboratori e centri di ricerca nell’ambito universitario e del CNR, nonchè in ambito militare, sull’energia atomica con potenzialità militari. Ma spesso queste esperienze furono in conflitto tra di loro. Oppure si ignorarono. Fatto sta che tutte ebbero scarsa capacità di muovere risorse sia da parte dei decisori politici che dai vertici militari (che in realtà dipendevano, o avrebbero dovuto dipendere, dal vertice politico).

Il risultato fu che per tutti gli anni ‘50 e ‘60 fisici nucleari, centri di ricerca, militari (ministero della difesa) e governi a guida DC sembrarono più ostacolarsi che avere un obiettivo chiaro su cui puntare. Niente di nuovo sul fronte interno italiano.

Secondo Nuti sulla complessa vicenda del nucleare militare italiano pesarono soprattutto il disinteresse di De Gasperi (e dei successivi leader democristiani, quasi nessuno escluso) e il ruolo decisamente “marginale” che le forze armate ebbero nel secondo dopoguerra nelle vicende sociali e politiche della Nazione.

Ma, come già detto, questa situazione non annichilì del tutto la ricerca in ambito nucleare, né produsse una sostanziale denuclearizzazione del nostro Paese. Tutt’altro.

Sul piano del nucleare civile e della produzione dell’energia elettrica da nucleare l’Italia si collocò terza tra i produttori del continente europeo, dietro Francia e Germania, arrivando ad avere 3 centrali elettriche nucleari attive negli anni ‘70 e un piano di sviluppo che negli anni ‘80 prevedeva la messa in funzione di 8 centrali. Ma tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80 il nucleare civile italiano entrò in una serie di vicende (che purtroppo il volume non esamina) le quali portarono all’abbandono di questa tipologia di produzione elettrica (sancita dal referendum popolare del 1987, che ebbe luogo in Italia dopo l’incidente della centrale atomica sovietica di Chernobyl).

Ma l’Italia rimase priva anche di armi nucleari? Niente affatto.

Secondo Nuti i democristiani e i loro alleati di governo puntano su due strategie: 1) EURATOM, ovvero progetti di energia atomica anche con possibili finalità militare da realizzare attraverso la Comunità Europea, che però nel 1952 abbandonò l’idea di costruire una comune difesa europea e quindi anche la costruzione di un armamento nucleare europeo; 2) MISSILI Usa legati al trattato NATO da dislocare sul nostro territorio.

Così in Italia dal 1957 e fino alla fine degli anni ‘80 gli americani, col consenso dei nostri governi (incluso quello guidato dal presidente socialista Bettino Craxi) e col voto del nostro parlamento, collocarono diverse tipologie di missili atomici (dai Jupiter ai Cruise, ai Pershing). L’Italia fu (ed è ancora) un paese militarmente nuclearizzato, il cui territorio perciò poteva essere luogo di lancio di missili nucleari e bersaglio di testate atomiche sovietiche per ritorsione.

Formalmente, almeno dagli anni ‘60, gli americani condivisero con i governi italiani e coi nostri militari l’uso dei missili atomici. Ma nella sostanza i governi italiani accolsero le armi nucleari senza poterne avere un vero e autonomo controllo. In cambio di questo l’Italia sperò di poter godere dello status di nazione privilegiata nei confronti degli USA, di potersi presentare come media potenza grazie a queste armi “in prestito” e di scaricare i costi della difesa “nucleare” di cui il Paese comunque “godeva” soprattutto sul bilancio federale americano, avvantaggiandosi delle somme investite dagli Usa nelle sue basi militari in Italia e in particolare in quelle dove si trovavano testate nucleari.

Insomma una storia bella complicata (a vederla anche nei dettagli) in cui l’Italia si comporta come al solito in maniera contorta: non sviluppa una propria capacità di difesa atomica (come invece faranno Francia e Inghilterra), ma accetta che la propria difesa nucleare sia gestita da un soggetto terzo, gli Usa, nell’ambito di un trattato di alleanza militare, la Nato, dentro il quale però l’Italia si sente più un vaso di coccio che di ferro.

E il PCI?

Dal 1947 agli anni ‘70 giocò (come Lega e i 5Stelle oggi) dalla parte dei Russi. I comunisti furono contrari all’Alleanza Nato, contrari ad un esecito europeo (CED), contrari all’istallazione dei missili nucleari sul territorio nazionale. Furono i più forti organizzatori di manifestazioni pacifiste e antinucleari in Italia. Il che gli consentì di essere ininfluenti ma coerenti rispetto alle decisioni dei governi in questa materia. I problemi per il PCI arrivarono negli anni ‘70, quando, crescendo elettoralmente ed entrando nell’orbita governativa, ruppero il cordone ombelicale con l’URSS e cominciarono a dirsi favorevoli alla Nato, però continuando a schierarsi contro l’istallazione dei missili nucleari che la Nato (da cui ora dicevano di sentirsi protetti) aveva istallato anche in Italia.

Chiaro che la coerenza dei partiti politici era un problema anche ai tempi della prima repubblica. A destra come a sinistra.

Concludo che il saggio di Nuti contiene moltissimi altri spunti di riflessione e lo consiglio caldamente a chi voglia approfondire le vicende anche di questi ultimi anni con una maggiore profondità storica; e soprattutto a chi intenda confrontarsi seriamente con la domanda di come si garantisce il sistema di sicurezza internazionale di una nazione e non voglia solo utilizzare facili argomenti retorici.

La fine dell’URSS e la firma dei trattati di disarmo aveva illuso il mondo occidentale e noi italiani (notoriamente distratti rispetto alle vicende internazionali) che i deterrenti atomici appartenessero ad una epoca ormai tramontata. La tesi della fine della storia attribuita allo storico Fukujama si accompagnava anche al ridimensionamento del ruolo delle armi nucleari.

E il libro di Nuti cessa la sua narrazione proprio al 1991.

Ma oggi come stanno le cose?

Secondo alcune fonti, Usa e Russia avrebbero circa 4000 bombe atomiche a testa di diversa potenza. Forse i russi qualcuna di più. Il che ci dice che le loro minacce vanno prese maledettamente sul serio.

Un paio di centinaia di bombe per ciascuna (e forse qualcuna di più) le avrebbero Francia e Regno Unito. La Cina ne possiederebbe sulle 350.

Un centinaio di bombe le avrebbero Israele, India, Pakistan.

E da noi?

Sul territorio italiano ce ne sarebbero dislocate una settantina, anche se non sono di nostra proprietà, ma della Nato. Ovviamente possono essere lanciate verso paesi nemici (forse anche a nostra insaputa) e possono diventare bersaglio di paesi ostili (come ci ha recentemente ricordato qualche illustre esponente del neozarismo russo).

Insomma “la sfida nucleare” è ancora in mezzo a noi e la guerra in Ucraina ce lo ricorda da quasi 150 giorni.

venerdì 15 luglio 2022

Il luglio del 1992 a Pontedera e il progetto del trasferimento a Nusco di alcune lavorazioni della Piaggio

Nel luglio del '92, trenta anni fa, mentre la prima Repubblica politica collassava e la mafia uccideva Borsellino, dopo aver ammazzato Falcone, Pontedera viveva un suo personale dramma: quello del programmato trasferimento di una serie di lavorazioni della Piaggio a Nusco nell'avellinese. Il "trasferimento" aveva preso avvio oltre un anno prima e i sindacati avevano trattato dalla primavera del 1991 con l'azienda la collocazione di un certo numero di lavoratori di Pontedera a Nusco per avviare nuove lavorazioni della Piaggio in Campania. La Piaggio (allora di proprietà degli Agnelli) cercava di ottenere contributi statali ed europei per sostenere la crisi dei propri prodotti e rilanciarsi. Migrare al sud per gli Agnelli (incluso Giovanni Alberto, all'epoca vicepresidente di Piaggio Veicoli Europei) era un problema di delocalizzazione che andava solo gestito. La politica ci mise un bel po' a capire questa "riprogrammazione aziendale" e a impaurirsi dei riflessi che avrebbe avuto sul territorio pontederese e più in generale su quello toscano: anche se dimezzata nei suoi organici, la Piaggio restava (e resta) pur sempre una delle più importanti imprese insediate nella Regione. Nel PCI nel '92 diventato PDS e in un PSI agli sgoccioli del proprio ruolo politico, si confrontarono più linee politiche. In particolare nel PDS ai "meridionalisti" alla Chiaromonte (come illumina bene l'articolo di Mario Mannucci sulla Nazione del 5 luglio) si contrapposero, incalzati dai leghisti di Bossi, i "localisti" (Pontedera and Tuscany first). Questi ultimi intendevano difendere con le unghie e coi denti ogni posto di lavoro attivo alla Piaggio di Pontedera, col sostegno dell'allora segretario nazionale Occhetto. Anche l'on. socialista Giacomo Maccheroni, che pure aveva sostenuto fino a quel momento le decisioni governative e il progetto di trasferimento a Nusco, rispetto alle crescenti paure del suo collegio elettorale innestò una prudente retro marcia, chiedendo di rinegoziare l'intero progetto.

martedì 12 luglio 2022

Le origini della propositura di Pontedera raccontate da Paolo Morelli

Libretto delizioso (e non solo per gli appassionati di storia locale) quello che il prof Morelli ha dedicato alla nascita della propositura e alla chiesa della prima parrocchia di Pontedera. La scena della nascita (1269-1272), ricostruita attraverso un pugno di pergamene, è scandagliata con l'abilità di un astuto detective, che prova a far cantare le poche carte di cui dispone e a interrogare testimoni morti e sepolti da secoli. E come il prof. Mallegni, attraverso l'analisi del DNA, dichiara che il santo di Pontedera, San Faustino, era un giovane africano, così Morelli decodificando, con la paleografia, burocratiche scritture medievali ci racconta come e soprattutto chi, nei procellosi anni della fine del '200, a Pontedera costruì la prima chiesa urbana e come questa divenne parrocchia in un intricato gioco di poteri, tutti dipendenti dall'arcivescovato pisano e dagli organi della repubblica pisana. E' in questo contesto che il prof fa rivivere e muovere il vescovo pisano Federico Visconti e con lui Ranieri del fu Bonaccorso, vicario di Albizello, castellano di Pontedera; e con loro rievoca almeno un'altra trentina di personaggi, in qualche modo benestanti, tutti riconducibili al "comune di Pontedera", che all'epoca della erigenda propositura era di fatto un "castello" sottomesso a Pisa. E poi il prof evoca, vero convitato di pietra, l'allora potente pievano di Calcinaia, al quale la nascita della chiesa parrocchiale pontederese toglieva il potere di battezzare e di seppellire nella sua "pieve" anche i pontederesi: l'unico insomma che dalla costruzione della nuova istituzione perdeva potere e soldi e che avrebbe potuto mettersi di traverso. Come si articolasse questo intreccio economico, politico e soprattutto religioso il prof lo spiega assai bene; e chi voglia toccare con mano come funzionavano allora certe relazioni locali, soprattutto in ambito religioso, deve leggersi il volume (una cinquantina di pagine, se si escludono le preziose trascrizioni in latino delle pergamene). Insomma, precedendo sempre in maniera scrupolosa e scientifica, Paolo Morelli consente ai suoi lettori (e ai pontederesi in particolare) di fare un tuffo nella realtà cittadina di 750 anni fa.

Un paio di copie del volume intitolato "Pontedera e la sua propositura fra Due e Trecento" (Tagete edizioni, 2021, pp. 82, ill., € 10) sono consultabili nella Rete Bibliolandia.

venerdì 1 luglio 2022

La politica estera italiana del secondo dopoguerra nell’analisi di Antonio Varsori

Il pontederese (di nascita) Antonio Varsori, docente di storia delle relazioni internazionali all’Università di Padova (con uno straordinario curricolo di storico delle politica estera italiana ed europea, come indica la voce di Wikipedia), ha costruito un libro davvero notevole intitolato “Dalla rinascita al declino. Storia internazionale dell’Italia repubblicana” (Il Mulino, 2022, 38€). E’ un testo di sintesi. Lungo circa 700 pagine, nel quale il settantunenne storico, che ha insegnato anche in Università prestigiose fuori dell’Italia, sintetizza tutto quello che sa della politica estera del nostro paese e ne ragiona con un linguaggio sufficientemente divulgativo, sfruttando la documentazione di archivi importanti. Ne esce fuori un quadro molto complicato e articolato che fornisce la materia base per potersi orientare seriamente nei meandri (spesso poco comprensibili) della politica estera italiana. Difficile sintetizzare il volume che, come rivela il titolo, divide la “rinascita” italiana (che corrisponde gli anni ‘50 e ‘60) sia in politica interna che estera dal “declino” (collocato tra gli anni ‘90 e oggi).

Se è vero che dai buoni libri si esce arricchiti, questo è ciò che mi è capitato leggendo il testo di Varsori, uno dei cui meriti è di costringere il lettore a confrontarsi sia con la visione che gli italiani hanno avuto ed hanno della propria storia, sia coi giudizi e con le osservazioni che diplomatici, politici e storici di altri paesi (ed in primis gli americani) hanno dell’Italia e della nostra collocazione internazionale. Ne esce, a mio avviso, più che “una rinascita ed un declino”, la descrizione di una grande duratura stabilità, ancorata a tre sostanziali fedeltà: quella al patto difensivo della Nato; quella che definirei di accettazione “volontaria” della subordinazione all’egemonia degli Stati Uniti d’America; e infine l’uso intelligente del “vincolo esterno” ovvero la fedeltà al progetto Europeo. Tre fedeltà che orientano il paese e le sue classi dirigenti (pur con le inevitabili e turbolenti dinamiche interne) da 80 anni. Il che per una nazione ondivaga e "voltagabbana" come era stata l’Italia nei suoi primi 80 anni di vita (1861-1943) sembra un autentico “capolavoro”. Tanto più se si riflette sui circa 60 governi e altrettanti ministri degli esteri (quasi uno all’anno) che si sono avvicendati al potere dal 1944 a oggi.
Ovviamente il libro di Varsori, che scende in molti dettagli, è ricco di spunti e di riflessioni a non finire, non sintetizzabili in poche battute. Insomma è un libro che va letto. Con un po’ di impegno.
E se non suonasse troppo retorico aggiungerei che si tratta di una lettura obbligata per chi intenda farsi un’idea un po’ più precisa della storia dell’Italia nel contesto internazionale e per chi non voglia solo campare di stereotipi.
Il volume è disponibile nella Rete Bibliolandia