giovedì 21 luglio 2022

“La sfida nucleare”: quanto ne sappiamo?

I bei libri sono come le patatine. Uno tira l’altro. Perciò dopo il saggio di Antonio Varsori sono passato a leggere il testo di Nuti (docente di Relazioni Internazionali all’Università di Roma 3) per capire di più della politica estera italiana in rapporto all’uso delle armi nucleari. A suggerirmi questo approfondimento è stata la tragica guerra in atto in Ucraina e il frequente ricorso da parte degli aggressori russi alla minaccia atomica. Una minaccia che sembrava destinata a tramontare con gli anni ‘90, con la firma, anche russa, di diversi trattati di disarmo e che invece ci è stata risbattuta sul muso con violenza e con brutale cinismo negli ultimi mesi, senza che su questo si sia riusciti a ragionare seriamente. Il tema è tutt’altro che facile. Solo gli stati sovrani (ovvero quelli che hanno eserciti agguerriti e armi, incluse quelle atomiche) contano davvero sullo scacchiere internazionale. Gli altri sono stati vassalli. I russi zaristi, poi quelli comunisti e di nuovo quelli neozaristi hanno ragionato e ragionano ancora oggi così. E’ una realtà spiacevole. Mostruosa. Ma non basta tapparsi gli occhi perché scompaia.

E noi italiani, noi con un esercito per fortuna poco bellicoso e che non abbiamo sviluppato il nucleare militare, noi, come siamo messi rispetto a questa sfida? E, soprattutto, come ci comportiamo?

Domande difficili a cui si abbinano risposte altrettanto complicate da trovare e da assimilare.

Quello che posso dire è cosa ho imparato dal saggio di Nuti (il cui titolo è: “La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991”, Il Mulino, 425 pp, 2007, nessuna copia in Bibliolandia).

In primis che l’Italia ha avuto un gruppo di scienziati (in parte ex allievi o collaboratori di Fermi) che nel dopoguerra hanno deciso di non impegnarsi nella ricerca dell’energia atomica con ricadute militari. Non che siano mancati fisici che abbiano lavorato in quella direzione, ma un buon numero di loro si è tirato fuori (ha “obiettato”). Gli scienziati antinuclearisti erano tutti di “comunisti”, come sosteneva il Ministro Pacciardi? O i fisici antinuclearisti erano animati dal sentimenti umanitari o di terrore rispetto al potenziale distruttivo dell’energia atomica (secondo una suggestiva lettura che Leonardo Sciascia fece della scomparsa del fisico Ettore Majorana in un suo delizioso volumetto anche questo da leggere)? Il testo di Nuti presenta il tema, ma lo lascia in sospeso.

Di certo sorsero alcuni laboratori e centri di ricerca nell’ambito universitario e del CNR, nonchè in ambito militare, sull’energia atomica con potenzialità militari. Ma spesso queste esperienze furono in conflitto tra di loro. Oppure si ignorarono. Fatto sta che tutte ebbero scarsa capacità di muovere risorse sia da parte dei decisori politici che dai vertici militari (che in realtà dipendevano, o avrebbero dovuto dipendere, dal vertice politico).

Il risultato fu che per tutti gli anni ‘50 e ‘60 fisici nucleari, centri di ricerca, militari (ministero della difesa) e governi a guida DC sembrarono più ostacolarsi che avere un obiettivo chiaro su cui puntare. Niente di nuovo sul fronte interno italiano.

Secondo Nuti sulla complessa vicenda del nucleare militare italiano pesarono soprattutto il disinteresse di De Gasperi (e dei successivi leader democristiani, quasi nessuno escluso) e il ruolo decisamente “marginale” che le forze armate ebbero nel secondo dopoguerra nelle vicende sociali e politiche della Nazione.

Ma, come già detto, questa situazione non annichilì del tutto la ricerca in ambito nucleare, né produsse una sostanziale denuclearizzazione del nostro Paese. Tutt’altro.

Sul piano del nucleare civile e della produzione dell’energia elettrica da nucleare l’Italia si collocò terza tra i produttori del continente europeo, dietro Francia e Germania, arrivando ad avere 3 centrali elettriche nucleari attive negli anni ‘70 e un piano di sviluppo che negli anni ‘80 prevedeva la messa in funzione di 8 centrali. Ma tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80 il nucleare civile italiano entrò in una serie di vicende (che purtroppo il volume non esamina) le quali portarono all’abbandono di questa tipologia di produzione elettrica (sancita dal referendum popolare del 1987, che ebbe luogo in Italia dopo l’incidente della centrale atomica sovietica di Chernobyl).

Ma l’Italia rimase priva anche di armi nucleari? Niente affatto.

Secondo Nuti i democristiani e i loro alleati di governo puntano su due strategie: 1) EURATOM, ovvero progetti di energia atomica anche con possibili finalità militare da realizzare attraverso la Comunità Europea, che però nel 1952 abbandonò l’idea di costruire una comune difesa europea e quindi anche la costruzione di un armamento nucleare europeo; 2) MISSILI Usa legati al trattato NATO da dislocare sul nostro territorio.

Così in Italia dal 1957 e fino alla fine degli anni ‘80 gli americani, col consenso dei nostri governi (incluso quello guidato dal presidente socialista Bettino Craxi) e col voto del nostro parlamento, collocarono diverse tipologie di missili atomici (dai Jupiter ai Cruise, ai Pershing). L’Italia fu (ed è ancora) un paese militarmente nuclearizzato, il cui territorio perciò poteva essere luogo di lancio di missili nucleari e bersaglio di testate atomiche sovietiche per ritorsione.

Formalmente, almeno dagli anni ‘60, gli americani condivisero con i governi italiani e coi nostri militari l’uso dei missili atomici. Ma nella sostanza i governi italiani accolsero le armi nucleari senza poterne avere un vero e autonomo controllo. In cambio di questo l’Italia sperò di poter godere dello status di nazione privilegiata nei confronti degli USA, di potersi presentare come media potenza grazie a queste armi “in prestito” e di scaricare i costi della difesa “nucleare” di cui il Paese comunque “godeva” soprattutto sul bilancio federale americano, avvantaggiandosi delle somme investite dagli Usa nelle sue basi militari in Italia e in particolare in quelle dove si trovavano testate nucleari.

Insomma una storia bella complicata (a vederla anche nei dettagli) in cui l’Italia si comporta come al solito in maniera contorta: non sviluppa una propria capacità di difesa atomica (come invece faranno Francia e Inghilterra), ma accetta che la propria difesa nucleare sia gestita da un soggetto terzo, gli Usa, nell’ambito di un trattato di alleanza militare, la Nato, dentro il quale però l’Italia si sente più un vaso di coccio che di ferro.

E il PCI?

Dal 1947 agli anni ‘70 giocò (come Lega e i 5Stelle oggi) dalla parte dei Russi. I comunisti furono contrari all’Alleanza Nato, contrari ad un esecito europeo (CED), contrari all’istallazione dei missili nucleari sul territorio nazionale. Furono i più forti organizzatori di manifestazioni pacifiste e antinucleari in Italia. Il che gli consentì di essere ininfluenti ma coerenti rispetto alle decisioni dei governi in questa materia. I problemi per il PCI arrivarono negli anni ‘70, quando, crescendo elettoralmente ed entrando nell’orbita governativa, ruppero il cordone ombelicale con l’URSS e cominciarono a dirsi favorevoli alla Nato, però continuando a schierarsi contro l’istallazione dei missili nucleari che la Nato (da cui ora dicevano di sentirsi protetti) aveva istallato anche in Italia.

Chiaro che la coerenza dei partiti politici era un problema anche ai tempi della prima repubblica. A destra come a sinistra.

Concludo che il saggio di Nuti contiene moltissimi altri spunti di riflessione e lo consiglio caldamente a chi voglia approfondire le vicende anche di questi ultimi anni con una maggiore profondità storica; e soprattutto a chi intenda confrontarsi seriamente con la domanda di come si garantisce il sistema di sicurezza internazionale di una nazione e non voglia solo utilizzare facili argomenti retorici.

La fine dell’URSS e la firma dei trattati di disarmo aveva illuso il mondo occidentale e noi italiani (notoriamente distratti rispetto alle vicende internazionali) che i deterrenti atomici appartenessero ad una epoca ormai tramontata. La tesi della fine della storia attribuita allo storico Fukujama si accompagnava anche al ridimensionamento del ruolo delle armi nucleari.

E il libro di Nuti cessa la sua narrazione proprio al 1991.

Ma oggi come stanno le cose?

Secondo alcune fonti, Usa e Russia avrebbero circa 4000 bombe atomiche a testa di diversa potenza. Forse i russi qualcuna di più. Il che ci dice che le loro minacce vanno prese maledettamente sul serio.

Un paio di centinaia di bombe per ciascuna (e forse qualcuna di più) le avrebbero Francia e Regno Unito. La Cina ne possiederebbe sulle 350.

Un centinaio di bombe le avrebbero Israele, India, Pakistan.

E da noi?

Sul territorio italiano ce ne sarebbero dislocate una settantina, anche se non sono di nostra proprietà, ma della Nato. Ovviamente possono essere lanciate verso paesi nemici (forse anche a nostra insaputa) e possono diventare bersaglio di paesi ostili (come ci ha recentemente ricordato qualche illustre esponente del neozarismo russo).

Insomma “la sfida nucleare” è ancora in mezzo a noi e la guerra in Ucraina ce lo ricorda da quasi 150 giorni.

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