martedì 20 novembre 2018


Il '68 raccontato dal Telegrafo

A 50 anni dal '68 è ancora difficile riassumere il significato di quei 365 giorni. Non parliamo poi di memorie condivise. Chiunque abbia vissuto quell'anno ha una sua esperienza e su questa ha appoggiato una sua memoria e una sua personale interpretazione dei fatti; e poi, secondo come è evoluto culturalmente e politicamente nei successivi 50 anni, ognuno ha riaggiustato costantemente i fatti e attraverso la rielaborazione della sua esperienza ha rimodellato la memoria e il giudizio sul '68.
Ma allora non si può parlare del '68? Certo che sì. Ma con un certo sapore di relatività e di approssimazione al vero. Perché è bene sapere che anche quando non siamo mentitori, siamo comunque aggiustatori di memorie, a cominciare dalla nostra (accordando a tutti, almeno fino a prova contraria, la buona fede).
Per l'ideatore della mostra, il '68 essenzialmente fu un moto antiautoritario. Di contestazione di qualunque autorità che come tale si imponesse e non fosse giustificata dal consenso della stragrande maggioranza. Tutti i sistemi di potere (politico, religioso, economico, familiare) risultarono toccati e scossi da questo moto. Partiti, sindacati, imprese, istituzioni scolastiche, assetti istituzionali internazionali, chiese e religioni, tutto fu radicalmente messo in discussione.
Si trattò di un sommovimento molto anarchico contro la globalizzazione ideologica che allora si cominciava a percepire (il famoso “Uomo a una dimensione” di cui scrisse H. Marcuse).
A livello globale si protestava contro gli accordi di Yalta e la divisione del mondo in due grandi blocchi guidati uno dagli Usa (l'Occidente democratico e capitalistico) e l'altro dall'URSS (il blocco comunista, a cui partecipava anche la Cina), così come erano usciti dall'immane flagello di sconquassi, morti e genocidi che chiamiamo seconda guerra mondiale.
Il '68 si espresse contro il colonialismo, alimentando il grande movimento di liberazione anticoloniale che era decollato già nel secondo dopoguerra, simboleggiato dall'indipendenza dell'India (1947).
A fianco dell'anticolonialismo, forte fu il sentimento contro la segregazione razziale, contro l'apartheid e contro gli stati che sostenevano le differenze razziali o che impedivano lo spostamento delle popolazioni e dei singoli individui.
Fu un moto contro la famiglia patriarcale, autoritaria e maschilista, spesso difesa anche da madri relegate in forme moderne di servitù. Contro la famiglia mononucleare e contro la famiglia poligama.
Fu un moto che dette voce al protagonismo femminile e al ruolo delle donne nella società, scuotendo sensibilità e sentimenti che avevano radici più nell'antropologia che nella storia. Mai infatti prima di allora le donne avevano rivendicato, in massa, un simile protagonismo in tutti i campi della vita di relazione, familiare, sociale e politica. In Italia la sentenza che abolì l'adulterio femminile ne fu un segnale fortissimo insieme alla diffusione della pillola contraccettiva e alla possibilità di una sessualità non legata alla procreazione.
Ma la protesta e la contestazione dilagarono soprattutto nelle scuole superiori e nelle Università, verso le quali per la prima volta affluivano milioni di studenti non solo di origine nobile o borghese, ma di condizione piccolo borghese e proletaria. E questi studenti volevano non solo sapere di più, ma contare di più e avere di più. Il loro protagonismo scosse tutte le università del mondo, mise in dubbio il potere dei docenti e delle facoltà, ne contestò idee e ruoli.
Il '68 criticò anche la conduzione degli stati democratici (Francia, Inghilterra, Germania, Italia, Usa, che in una certa misura erano e sono democrazie parlamentari). La Francia finì addirittura sull'orlo della guerra civile, o almeno così scrisse Il Telegrafo. Ovviamente la rivolta sessantottina criticò anche gli stati fascisti (come erano allora la Spagna, il Portogallo e la Grecia), né risparmiò gli stati comunisti (compresa l'allora misteriosa Cina). Nessuna idea politica uscì indenne da quella che allora veniva chiamata “la critica militante”.
Ovviamente il '68 contestò il capitalismo, il potere autocratico dei padroni, le imprese, rilanciando, almeno in parte, il mito operaista.
Più in generale venne radicalmente contestata la società dei consumi di cui però si apprezzavano tanto anche i vantaggi (tv, lavatrici, radio, automobili, ciclomotori, erano sì beni a cui si dichiarava di voler rinunciare, ma solo a parole: il neopauperismo comunitario fu un filone molto marginale della contestazione).
Ancora: la contestazione attaccò quasi tutte le istituzioni culturali, le rassegne cinematografiche, i premi letterari e, più timidamente, le gare canore.
Nell'insieme gli uomini e le donne che fecero il '68 espressero forti richieste di libertà, che marciavano parallelamente su due livelli: uno individuale e l'altro collettivo.
Così quell'anno e alcuni degli anni che seguirono furono eccezionali perchè ad una grande esplosione dell'io si accompagnò un altrettanto forte senso del noi.
La sensazione era che tante persone forti rivendicassero più potere per tutti.
Insomma nell'alveo del '68 si espressero sia un individualismo ed un bisogno di libertà individuale assoluti, sia un profondo bisogno di vivere insieme e lottare insieme per affermare un mondo migliore, più libero e più giusto. Per tutti. Indipendentemente dal colore della pelle o dal genere o dalla condizione familiare.
Tutti volevano contare di più e per farlo erano disposti a partecipare di più. A dare di più. Ad ascoltare di più.
Una delle grandi paure dell'epoca fu quella dalla mercificazione delle persone e questo spinse a chiedere una maggiore autonomia individuale ed un maggior valore per i singoli; e quindi più indipendenza dalla famiglia e dallo Stato; e quindi più diritti individuali; ma, contestualmente e senza avvertire alcuna contraddizione, anche più diritti collettivi (nelle scuole, nelle fabbriche, nei campi) in un rilancio continuo che sembrava, allora, non dover finire.
A simboleggiare tutto questo caos culturale, ecco i guerriglieri alla Che Guevara, i preti armati alla Camillo Torres, i preti operai come Don Mazzi dell'Isolotto di Firenze o i preti che stavano dalla parte degli ultimi come Don Lorenzo Milani e contestavano le gerarchie religiose reinventandosi un vangelo povero, genuino e partecipato. Ma nel pantheon dei nuovi miti finirono anche Mao Tse Tung (della cui rivoluzione culturale, allora, non si sapeva molto in Occidente) e la triade formata da Marx, Engels e Lenin, più una miriade di santi minori. Furono questi, insieme a Martin Luther King e a Bob Kennedy (entrambi assassinati nel '68) i miti e le divinità di un'acropoli policroma e confusa (i cui ritratti penzolavano sia dai muri delle sedi delle formazioni politiche, sia delle camere dei singoli militanti).
Naturalmente il '68 fu molto di più e soprattutto si scontrò con il forte attrito della realtà e rispetto alla dura realtà il moto di protesta si modellò, reagì, prese forma e poi … rifluì.

Perché la scelta de IL TELEGRAFO
La decisione di raccontare un insieme di eventi così complessi attraverso un quotidiano “locale” è legata ad alcuni fattori: il tipo di pubblico a cui ci si vuole rivolgere (il mondo degli studenti di scuola superiore da una parte e gli utenti dei circoli territoriali dall'altra); la necessità di partire da fonti sintetiche rispetto alla complessità del macrofenomeno da descrive; l'esigenza di collegare eventi locali, vicende nazionali e fatti internazionali nella stessa fonte.
Le prime pagine de Il Telegrafo (digitalizzate dalla Biblioteca Labronica di Livorno, che ringraziamo pubblicamente per avercele messe a disposizione, così come ringraziamo Il Tirreno per avercene consentito l'utilizzo) si prestano perfettamente a raggiungere i tre obiettivi indicati sopra.
Su circa 360 prime pagine è stata effettuata così una scelta degli avvenimenti più significativi e con un sistema di colori è stata impostata una lettura suggerita del corso degli eventi, accompagnata da note di integrazione e commento.

Utilizzo e circuitazione della mostra
Sono state selezionate circa 40 prime pagine e poi è stato effettuato un montaggio su base mensile producendo alla fine 20 roll-up autoportanti che costituiscono una mostra prêt-à-porter che in pochi minuti può essere montata e smontata e trasportata da una scuola o da un circolo all'altro, quindi presentata al pubblico.
Il materiale potrà essere portato nelle scuole per raccontare in 20 quadri di 1 metro per 2 la storia di un anno ricco di eventi e consentire ai ragazzi di abbracciare con un colpo d'occhio un insieme davvero molto variegato e complesso.
Il tutto con semplicità, ma senza alterare le caratteristiche della fonte documentaria che racconta dal punto di vista del cronista quell'anno straordinario.
La mostra è prodotta dalla Rete Bibliolandia (e dal gruppo di archivisti) in collaborazione con ARCI Valdera. Arci la farà circuitare nei suoi circoli, accompagnandola con dibattiti di approfondimento e discussioni introdotte dai curatori, mentre la Rete Bibliolandia la fornirà alle scuole superiori che potranno tenerla per brevi periodi.
La mostra nasce da un'idea progettuale e da una scelta di documenti di Roberto Cerri, che nell'elaborazione di testi e pannelli si è avvalso della collaborazione di Roberto Boldrini, Patrizia Marchetti, Andrea Brotini, Massimiliano Bertelli e Claudia Salvadori.
Maria Chiara Panesi dell'Arci Valdera ha deciso di sostenere la mostra, di presentarla presso l'Agorà/Sala Carpi e di farla circuitare presso i circoli Arci della Valdera, dove sarà accompagnata dai curatori.

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