Giovanni Gentile. Una biografia / di Gabriele TURI, Giunti, 1995, pp.526 p + indici. Qualche riflessione a margine della lettura
Questa non è una recensione dello splendido libro di Turi dedicato alla vicenda culturale (e umana) di Giovanni Gentile, uno degli intellettuali italiani che almeno nel ventennio fascista ha avuto un peso diretto e significativo (in negativo) nelle vicende collettive del nostro Paese. In sostanza non entro e non valuto i dettagli di una biografia molto ben articolata, di discreta mole e scritta da uno storico contemporaneista che ha indagato per tutta la sua vita professionale il rapporto tra intellettuali e potere, intellettuali e case editrici, mondo della scuola, istituzioni scolastiche e università. Turi è un esperto dell'argomento che tratta ed è corretto nel definire i limiti che si autoimpone (è ad esempio evidente che evita una valutazione analitica della filosofia gentiliana, della sua articolazione e della sua evoluzione nel tempo). Io, a mia volta, parto dal libro, per avanzare qualche commento. Alla buona.
Del resto confesso di aver letto il testo come un romanzo, perché l'uso consistente dei carteggi dei personaggi che ruotano attorno al filosofo o si incrociano con la sua biografia (a cominciare da don Benedetto Croce) rendono la vicenda, almeno per chi abbia un po' di dimestichezza con la storia politica e culturale italiana, piacevole, scorrevole, godibilissima, anche senza pretendere di cogliere tutte le sottigliezze e gli sfumati che sicuramente contiene. Ma, mi ripeto, questa non è una recensione (che non avrei titolo per fare) e e mi limiterò a dire perché ne consiglio caldamente la lettura.
Sono mie riflessioni personali, che valgono il giusto, ma che ritengo giusto esternare.
Sostenuto dal giudizio di Antonio Labriola, anch'io da quello che so di Gentile e dalla lettura del libro di Turi, traggo la convinzione che il filosofo nato a Castelvetrano fosse un "infatuato di sè, un po' presuntuoso.. non un rappresentante della filosofia sana, ma un pazzo per la sua idea di tornare a Hegel con quarant'anni di ritardo, seguendo gli insegnamenti di quell'idiota di Jaja". Così scrive Antonio Labriola in una lettera a Croce parlando di un Gentile ventottenne e delle sue idee (p.149). E così penso che il filosofo si sia felicemente conservato fino alla fine, gonfio di una forte autostima ed di una profonda fiducia in se stesso, che, vista con gli occhi di uno psicologo, penso potrebbe essere definita come una situazione di delirio narcisistico accompagnata da un'assoluta sordità ad ascoltare le ragioni dell'altro.
Ora la "pazzia" e i deliri dei singoli hanno spesso un raggio di azione limitato (di solito sfasciano famiglie, piccole compagnie di amici, singole imprese e contesti operativi su cui i "deliranti", non curati, vengono ad impattare).
Ma quando pazzia e deliri singoli, nutrendosi di idee potenzialmente assassine, entrano in circuiti più ampi, impattano su organizzazioni più vaste (ad es. lo Stato) e raggiungono le moltitudini (le masse, i popoli), a quel punto pazzia e deliri possono contagiare tanti e trasformarsi in sentimenti largamente condivisi. E' allora che producono effetti deflagranti e devastanti per intere collettività nazionali e spesso anche internazionali come testimonia la tragica storia della prima metà del '900 in Europa.
Perchè dico questo? Perchè buona parte dell'idealismo italiano e nello specifico l'attualismo gentiliano rappresentò, nel primo quarantennio del '900, dati i livelli di penetrazione che aveva raggiunto nei gangli formativi, sulla stampa nazionale e nel governo, un disastro culturale immane per il sistema paese. E per spiegarmi meglio proverò a riassumere le diverse ragioni fondamentali di questa affermazione.
Primo: non avendo alcuna comprensione della scienza, in nome di una grande cultura filologica umanistica (di cui certo Gentile era validissimo quanto inutile e pericoloso epigono), in lotta col pensiero positivista e scientifico, buona parte degli idealisti condannò l'Italia, la sua "scuola" e più in generale il sistema Paese ad una profonda ignoranza in materia di cultura scientifica. Una pena dolorosa che il paese non ha ancora finito di scontare.
Secondo: data la base filologico-umanistica della cultura idealista e dato l'approccio "metafisico" ai problemi del paese, anche figure di grande spessore come Gentile (ma in compagnia di Croce e dei loro epigoni, per non parlare dalle scuole eccentriche e irrazionaliste: da Papini e Prezzolini) non capirono quasi niente dei problemi di "modernizzazione" che il Paese aveva un disperato bisogno di affrontare e di risolvere con strumenti giusti.
Terzo: dalla loro visione antiscientifica e metafisica della realtà scaturì, oltre un forte ritardo sul piano organizzativo, il consolidamento di un patriottismo e di un nazionalismo demenziali. Gentile, purtroppo insieme a tanti altri, non solo giustificò la prima guerra mondiale come "evento tragico ma necessario", ma soprattutto, con grande provincialismo e miopia, non riusci a guardare all'Europa come spazio e come bene comune da alimentare e condividere. Idealismo e nazionalismo impedirono a gran parte degli intellettuali italiani di guardare oltre i confini nazionali, di immaginarsi un diverso esito del Risorgimento da completare, di uscire dal loro penoso e provinciale isolamento. Così un'intera generazione di grandi e piccoli intellettuali e di uomini sicuramente colti finì (con la rilevante eccezione di Croce) per sostenere quel grande macello che fu la prima guerra mondiale e continuò per i venti anni successivi a sognare rivincite e imperialismi straccioni.
Quarto: da questa visione antiscientifica e metafisica, sorda agli argomenti degli altri, uscirono anche analisi e visioni politiche rozze, superficiali e partigiane, tutte sostanzialmente antidemocratiche e illiberali che non a caso nel dopoguerra sfociarono in una scomposta lotta politica e subito dopo nella dittatura fascista a cui Gentile dette un importante contribuito personale.
Da un certo punto di vista l'avventura umana di Gentile sembra quella di un iperattivo filosofo di provincia che armato di un suggestivo ma confuso bagaglio di idee, da una forte fiducia in se stesso e da una grande capacità comunicativa, decide di cambiare il mondo per conformarlo alla sua visione; e, grazie al contesto favorevole e alla sua abilità di scrittore e di comunicatore, questa cosa almeno in parte gli riesce. Ottiene così un forte ascendente su un pubblico vasto (gli italiani) a cui finalmente, in concorso con altri (nel caso della guerra i nazionalisti, la monarchia, gli irredentisti, ecc, successivamente i fascisti), può fare veramente male. Un male che arreca agli altri e alla fine anche a se stesso, in nome di nobili motivi (lo stato etico, erede dei valori della classicità e del risorgimento) e animato da buoni sentimenti (cercherà, ma senza riuscirci, ad esempio di non far finire in campo di concentramento le sorelle Bemporad, due ebree di cui aveva rilevato la casa editrice).
Il libro del prof. Turi, lo preciso, non ha questo taglio psicologico. Nè fruga più di tanto nel lato oscuro della mente del filosofo, cercando di spiegare quali pulsioni si celassero dietro i suoi scritti e le sue azioni. E quando lo fa, utilizza i giudizi che parenti, amici, collaboratori e solo in parte avversari dettero di lui, fissando sulla carta i propri pensieri. Lo sforzo maggiore del libro, davvero encomiabile e di notevole valore, è di cesellare e spiegare la figura di Gentile nei contesti che gli furono specificatamente propri: l'Università italiana (a cominciare dalla Scuola Normale Superiore di Pisa), le associazioni scolastiche che si batterono per la riforma della scuola italiana, le case editrici di cui Gentile si occupò e che diresse in prima persona o attraverso i figli, la produzione della Enciclopedia Italiana Treccani, le collaborazioni con giornali e riviste, la sua partecipazione politica (in particolare dal 1922 al 1924) e le relazioni con i principali esponenti del fascismo, a cominciare da Mussolini.
Il volume è veramente ricco di suggestioni, spunti, suggerimenti di lettura ed offre uno spaccato così realistico e vivo delle vicende culturali italiane del primo '900 che non si può che essere grati alla pazienza e all'abilità dello storico che ha saputo ricostruirle e porgercele con tanto garbo.
giovedì 30 maggio 2019
giovedì 23 maggio 2019
Età del disordine di Detti e Gozzini
L'età del disordine. (Il caso italiano 1968-2017) / Detti - Gozzini, Laterza, 2018. Parte seconda (+ breve)
Il bel manuale che racconta gli ultimi 50 anni di storia mondiale, presenta anche una breve appendice sulle vicende italiane. 10 pagine scarse, una sintesi estrema, meno di un saggio da rivista, per provare a tracciare i mutamenti essenziali e le continuità del Paese.
Ovviamente l'Italia dal '68 in poi si confrontò col disordine del mondo, coi processi di secolarizzazione religiosa e ... politica. Con la fine delle ideologie, con l'impatto della globalizzazione, coi mutamenti di mentalità e di costume.
E di fronte a tutto questo l'Italia, sostengono Detti e Gozzini, non stette ferma. E io concordo. Governi e società cercarono di dare risposte. Pensioni, divorzio, diritto dei lavoratori, diritto di famiglia, regioni, servizio sanitario nazionale. Insomma l'Italia si modernizzò. Certo, lo fece all'italiana, ovvero indebitandosi fino agli occhi e superando, alla fine degli anni '90 il 100% del proprio PIL. Il tutto per sostenere un welfare figlio di un modello di sviluppo che stava nel frattempo esaurendo la propria spinta e andava sostenuto a sua volta.
Comunque dopo il '68 il Paese cambiò pelle politica. Tra gli anni '80 e '90 uscì dalla dialettica destra democristiana sinistra socialcomunista per tentare un bipolarismo che però vista la tipica frammentazione politica nostrana non funzionò. Tornò di moda il personalismo politico. Berlusconi, grazie alle sue TV, si inventò un partito dal nulla e sdoganò voti e uomini politici dell'ex Movimento Sociale, in qualche modo chiudendo l'era dell'arco costituzionale e provando a "pacificare" gli astiosi italiani.
La grande industria cresciuta col boom si sgonfiò e riemerse l'Italia delle piccole e medie imprese, l'Italia dei distretti industriali, l'Italia delle manifattura leggera in grado però di reggere meglio la globalizzazione e di adattarsi con più facilità alle pieghe del nuovo disordine globale. Naturalmente il Paese continuò ad arrancare attorno a bassi livelli di occupazione, con troppi giovani e troppe donne disoccupati e bassi livelli di alfabetizzazione e di titoli di studio universitari.
Il sogno europeo, il sogno di un'Italia agganciata all'Europa però continuò a funzionare; così, nonostante la nostra debolezza finanziaria (fatta da un mix di spaventoso debito pubblico e di alta inflazione), il Paese rimase agganciato alla locomotiva Franco-tedesca ed entrò con qualche affanno e molto fardello nella moneta unica, nell'euro. Fu il secondo miracolo italiano, dopo quello degli anni '50, anche se di questo secondo miracolo che interrompeva il ciclo perverso di inflazione/svalutazione della moneta e ripartenza economica quasi tutti fecero finta di non accorgersi.
Dalla fine degli anni '90 altri fenomeni hanno poi caratterizzato il Paese. Tra questi: gli intensi fenomeni migratori soprattutto dall'Africa, la crescente denatalità, lo sviluppo del protagonismo femminile.
Ma il Paese è anche rimasto una società ad alta intensità criminale e se è riuscito a recuperare e ad a far quasi scomparire la criminalità politica (di estrema destra e di estrema sinistra) che aveva ferocemente insanguinato strade e piazze dal 1969 al 1987 (provocando quasi 500 morti), meno è riuscito a fare per mettere sotto controllo la criminalità mafiosa e camorrista. E' infatti questa criminalità che continua ancora oggi a dettare legge in almeno quattro importanti regioni meridionali e ad impregnare della propria violenza e dei propri commerci illegali anche il resto del Paese, tanto che, se dovessi citare un libro simbolo di questi anni, non esiterei a parlare di "Gomorra", scritto da Roberto Saviano, il quale da 13 anni (ovvero dal 2006) vive sotto scorta.
Detti e Gozzini non lo scrivono, ma in fondo l'Italia di questa età del disordine e di caos sembra un po' l'emblema. In piccolo e con tutta una serie di difetti e peculiarità tipicamente italiane, ovviamente.
Nell'insieme, tuttavia, il paese ha tenuto botta alla globalizzazione. Certo ha perso occupazione e pezzi importantissimi del proprio tessuto industriale, ma ha anche reagito potenziando la piccola e media impresa e perfino inventandosi e facendo dilagate la microimprenditorialità. Il popolo delle partite IVA, con milioni di imprese unicellulari, è un fenomeno che ci caratterizza abbondantemente.
E se continuiamo ad investire poco nella formazione e nella ricerca, puntiamo sul genio e sulla nostra arte di arrangiarsi per sopravvivere e resistere sui mercati, costruendo un impasto di "vecchio" e "nuovo" che da sempre è la cifra di questo paese. Il tutto all'insegna della modernizzazione e del cambiamento e tentando di migliorarsi costantemente. In maniera difforme, a macchia di leopardo, secondo la logica delle tre e più Italie, secondo quando scritto nel DNA antropoligico di un paese fatto davvero di tanti paesi e di tante anime.
Insomma sono 10 pagine intense, con diverse riflessioni anche sulla politica, che per brevità (e perchè considero meno interessanti) ometto. 10 pagine che aiutano a riflettere sulle dinamiche italiane inserite nelle dinamiche internazionali. Pagine che risulteranno utili a che vorrà leggere la storia degli anni recenti rifuggendo dalle 140 battute di un tweet o dalle banalità di tanti articoli di giornale.
Il bel manuale che racconta gli ultimi 50 anni di storia mondiale, presenta anche una breve appendice sulle vicende italiane. 10 pagine scarse, una sintesi estrema, meno di un saggio da rivista, per provare a tracciare i mutamenti essenziali e le continuità del Paese.
Ovviamente l'Italia dal '68 in poi si confrontò col disordine del mondo, coi processi di secolarizzazione religiosa e ... politica. Con la fine delle ideologie, con l'impatto della globalizzazione, coi mutamenti di mentalità e di costume.
E di fronte a tutto questo l'Italia, sostengono Detti e Gozzini, non stette ferma. E io concordo. Governi e società cercarono di dare risposte. Pensioni, divorzio, diritto dei lavoratori, diritto di famiglia, regioni, servizio sanitario nazionale. Insomma l'Italia si modernizzò. Certo, lo fece all'italiana, ovvero indebitandosi fino agli occhi e superando, alla fine degli anni '90 il 100% del proprio PIL. Il tutto per sostenere un welfare figlio di un modello di sviluppo che stava nel frattempo esaurendo la propria spinta e andava sostenuto a sua volta.
Comunque dopo il '68 il Paese cambiò pelle politica. Tra gli anni '80 e '90 uscì dalla dialettica destra democristiana sinistra socialcomunista per tentare un bipolarismo che però vista la tipica frammentazione politica nostrana non funzionò. Tornò di moda il personalismo politico. Berlusconi, grazie alle sue TV, si inventò un partito dal nulla e sdoganò voti e uomini politici dell'ex Movimento Sociale, in qualche modo chiudendo l'era dell'arco costituzionale e provando a "pacificare" gli astiosi italiani.
La grande industria cresciuta col boom si sgonfiò e riemerse l'Italia delle piccole e medie imprese, l'Italia dei distretti industriali, l'Italia delle manifattura leggera in grado però di reggere meglio la globalizzazione e di adattarsi con più facilità alle pieghe del nuovo disordine globale. Naturalmente il Paese continuò ad arrancare attorno a bassi livelli di occupazione, con troppi giovani e troppe donne disoccupati e bassi livelli di alfabetizzazione e di titoli di studio universitari.
Il sogno europeo, il sogno di un'Italia agganciata all'Europa però continuò a funzionare; così, nonostante la nostra debolezza finanziaria (fatta da un mix di spaventoso debito pubblico e di alta inflazione), il Paese rimase agganciato alla locomotiva Franco-tedesca ed entrò con qualche affanno e molto fardello nella moneta unica, nell'euro. Fu il secondo miracolo italiano, dopo quello degli anni '50, anche se di questo secondo miracolo che interrompeva il ciclo perverso di inflazione/svalutazione della moneta e ripartenza economica quasi tutti fecero finta di non accorgersi.
Dalla fine degli anni '90 altri fenomeni hanno poi caratterizzato il Paese. Tra questi: gli intensi fenomeni migratori soprattutto dall'Africa, la crescente denatalità, lo sviluppo del protagonismo femminile.
Ma il Paese è anche rimasto una società ad alta intensità criminale e se è riuscito a recuperare e ad a far quasi scomparire la criminalità politica (di estrema destra e di estrema sinistra) che aveva ferocemente insanguinato strade e piazze dal 1969 al 1987 (provocando quasi 500 morti), meno è riuscito a fare per mettere sotto controllo la criminalità mafiosa e camorrista. E' infatti questa criminalità che continua ancora oggi a dettare legge in almeno quattro importanti regioni meridionali e ad impregnare della propria violenza e dei propri commerci illegali anche il resto del Paese, tanto che, se dovessi citare un libro simbolo di questi anni, non esiterei a parlare di "Gomorra", scritto da Roberto Saviano, il quale da 13 anni (ovvero dal 2006) vive sotto scorta.
Detti e Gozzini non lo scrivono, ma in fondo l'Italia di questa età del disordine e di caos sembra un po' l'emblema. In piccolo e con tutta una serie di difetti e peculiarità tipicamente italiane, ovviamente.
Nell'insieme, tuttavia, il paese ha tenuto botta alla globalizzazione. Certo ha perso occupazione e pezzi importantissimi del proprio tessuto industriale, ma ha anche reagito potenziando la piccola e media impresa e perfino inventandosi e facendo dilagate la microimprenditorialità. Il popolo delle partite IVA, con milioni di imprese unicellulari, è un fenomeno che ci caratterizza abbondantemente.
E se continuiamo ad investire poco nella formazione e nella ricerca, puntiamo sul genio e sulla nostra arte di arrangiarsi per sopravvivere e resistere sui mercati, costruendo un impasto di "vecchio" e "nuovo" che da sempre è la cifra di questo paese. Il tutto all'insegna della modernizzazione e del cambiamento e tentando di migliorarsi costantemente. In maniera difforme, a macchia di leopardo, secondo la logica delle tre e più Italie, secondo quando scritto nel DNA antropoligico di un paese fatto davvero di tanti paesi e di tante anime.
Insomma sono 10 pagine intense, con diverse riflessioni anche sulla politica, che per brevità (e perchè considero meno interessanti) ometto. 10 pagine che aiutano a riflettere sulle dinamiche italiane inserite nelle dinamiche internazionali. Pagine che risulteranno utili a che vorrà leggere la storia degli anni recenti rifuggendo dalle 140 battute di un tweet o dalle banalità di tanti articoli di giornale.
mercoledì 22 maggio 2019
L'età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017 / di Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, Laterza, 2018, 200p. Parte prima (e lunga)
Ho letto e in buona parte meditato questo agile volume che racconta, in sole 200 pagine, la storia sociale, economica e politica degli ultimi 50 anni della Terra, dedicando le ultime 10 pagine al caso italiano (sempre in riferimento allo stesso periodo). Che dire? Che il testo merita di essere letto da parte di chi abbia voglia di farsi un'idea un po' più chiara di come siano andate le cose nel mondo dal 1968 a oggi. Perchè diversamente dai giornali, dalle riviste e soprattutto dai volatili social, i libri continuano ad organizzare l'analisi dei fenomeni complessi con quell'accuratezza e quella profondità che rende più affidabile e sostanzialmente più valida qualunque affermazione contengano. E la storia dell'umanità negli ultimi 50 anni ricade sotto la categoria dei fenomeni complicati.
Così, due storici toscani di formazione marxista, ma con un orizzonte ampio e secolarizzato rispetto agli studi storici comparativi ed internazionali, non ci regalano l'ennesimo volumetto da mettere nello scaffale, ma una sintesi che cerca di ricostruire gli elementi portanti dei mutamenti in corso e del disordine e della confusione che li accompagna, trattandosi di vicende che coinvolgono oltre 200 stati, migliaia di imprese grandi come stati e oltre sette miliardi di persone.
Merci, capitali, persone e informazioni, tutto infatti ha preso a muoversi sempre più velocemente e caoticamente in questa seconda grande ondata di "globalizzazione" e di costruzione di un mondo "sempre più connesso" partita nel dopoguerra e rilanciata, con particolare forza, dopo il 1968. Un'ondata globalizzante sempre più complessa e dove si giocano contemporaneamente una grande quantità di partite e dove gli interessi in gioco si rimescolano costantemente. E si rimescolano talmente tanto che a partire dalla grande crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 si è messa in atto una contro spinta (una specie di ritorno del pendolo) che i due autori non esitano a definire di de-globalizzazione: fenomeno quest'ultimo che ad esempio ha trovato nelle strategie del presidente americano Trump, nelle guerre commerciali tra USA e Cina e nel risultato della Brexit i suoi punti di maggiore evidenza.
Ma al di là delle grandi oscillazioni del pianeta tra integrazione interstatale e recupero di singole sovranità, ecco lo spostamento dell'asse manifatturiero del mondo verso l'Asia con l'effetto disoccupazione che si sparge tra USA ed Europa; ecco l'emergere della potenza cinese come protagonista assoluto della politica e dell'economia del pianeta (dopo secoli di silenzio e di ruoli assolutamente marginali). Ecco le grandi trasformazioni tecnologiche (con l'avvento dell'era dell'informazione e del computer); ecco i grandi mutamenti sociali (il rallentamento demografico, per fortuna, il crescere del protagonismo femminile nella società e nella stessa politica, il minor numero di famiglie tradizionali, i processi di secolarizzazione che investono le religiosi insieme al ritorno di fanatismi religiosi e di fenomeni terroristici).
E ancora i processi di finanziarizzazione dell'economia, la diminuzione della povertà su scala planetaria, l'andamento del complesso fenomeno delle diseguaglianze e molti altri fattori che il testo di storia contemporanea prova ad affrontare utilizzando le migliori fonti disponibili e la migliore saggistica prodotta su scala internazionale.
Ovviamente non è possibile riassumere in un paio di cartelle un libro che ce ne mette duecento di pagine per raccontarci gli ultimi 50 anni.
Quello che mi preme dire è che chi è davvero interessato a costruirsi un sguardo ampio, variegato e frastagliato del mondo e magari è disposto a mettere in crisi anche alcune delle proprie certezze, provi a leggere e a meditare questo libro.
E' scritto bene. Presenta i grafici giusti. Cita fonti e studi attendibili. Tratta quasi tutti gli argomenti rilevanti. Costituisce una riflessione davvero ponderata e con uno sguardo a 360 gradi sulla storia dell'ultimo mezzo secolo del mondo.
Contiene anche delle lucide riflessioni sull'Europa e sul suo progetto sociale e politico che sta per essere sottoposto alla valutazione dei suoi 400 milioni di elettori. Ma non è un testo immediatamente utilizzabile per farsi un'idea di come votare. Non è un volume di propaganda.
E non è un testo agiografico. Non si nasconde le criticità. Non ignora le incertezze Il titolo stesso le evidenzia. La realtà nazionale ed internazionale è segnata dal disordine. Ma in questo disordine ci sono anche sviluppo e mutamento costante. C'è il protagonismo degli stati, delle organizzazioni finanziarie, delle grandi imprese e accanto c'è anche una forte spinta all'individualismo di massa, portato a far prevalere le ragioni della libertà su quelle della giustizia.
Il volume è insomma una gran bella analisi che consente di provare a darsi una spiegazione razionale del caos e della confusione che stiamo vivendo e ad individuarne gli assi portanti. Per ragionarci sopra. Per farsi un'idea. Per poi decidere come muoversi.
Di più agli storici non si può chiedere.
Ho letto e in buona parte meditato questo agile volume che racconta, in sole 200 pagine, la storia sociale, economica e politica degli ultimi 50 anni della Terra, dedicando le ultime 10 pagine al caso italiano (sempre in riferimento allo stesso periodo). Che dire? Che il testo merita di essere letto da parte di chi abbia voglia di farsi un'idea un po' più chiara di come siano andate le cose nel mondo dal 1968 a oggi. Perchè diversamente dai giornali, dalle riviste e soprattutto dai volatili social, i libri continuano ad organizzare l'analisi dei fenomeni complessi con quell'accuratezza e quella profondità che rende più affidabile e sostanzialmente più valida qualunque affermazione contengano. E la storia dell'umanità negli ultimi 50 anni ricade sotto la categoria dei fenomeni complicati.
Così, due storici toscani di formazione marxista, ma con un orizzonte ampio e secolarizzato rispetto agli studi storici comparativi ed internazionali, non ci regalano l'ennesimo volumetto da mettere nello scaffale, ma una sintesi che cerca di ricostruire gli elementi portanti dei mutamenti in corso e del disordine e della confusione che li accompagna, trattandosi di vicende che coinvolgono oltre 200 stati, migliaia di imprese grandi come stati e oltre sette miliardi di persone.
Merci, capitali, persone e informazioni, tutto infatti ha preso a muoversi sempre più velocemente e caoticamente in questa seconda grande ondata di "globalizzazione" e di costruzione di un mondo "sempre più connesso" partita nel dopoguerra e rilanciata, con particolare forza, dopo il 1968. Un'ondata globalizzante sempre più complessa e dove si giocano contemporaneamente una grande quantità di partite e dove gli interessi in gioco si rimescolano costantemente. E si rimescolano talmente tanto che a partire dalla grande crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 si è messa in atto una contro spinta (una specie di ritorno del pendolo) che i due autori non esitano a definire di de-globalizzazione: fenomeno quest'ultimo che ad esempio ha trovato nelle strategie del presidente americano Trump, nelle guerre commerciali tra USA e Cina e nel risultato della Brexit i suoi punti di maggiore evidenza.
Ma al di là delle grandi oscillazioni del pianeta tra integrazione interstatale e recupero di singole sovranità, ecco lo spostamento dell'asse manifatturiero del mondo verso l'Asia con l'effetto disoccupazione che si sparge tra USA ed Europa; ecco l'emergere della potenza cinese come protagonista assoluto della politica e dell'economia del pianeta (dopo secoli di silenzio e di ruoli assolutamente marginali). Ecco le grandi trasformazioni tecnologiche (con l'avvento dell'era dell'informazione e del computer); ecco i grandi mutamenti sociali (il rallentamento demografico, per fortuna, il crescere del protagonismo femminile nella società e nella stessa politica, il minor numero di famiglie tradizionali, i processi di secolarizzazione che investono le religiosi insieme al ritorno di fanatismi religiosi e di fenomeni terroristici).
E ancora i processi di finanziarizzazione dell'economia, la diminuzione della povertà su scala planetaria, l'andamento del complesso fenomeno delle diseguaglianze e molti altri fattori che il testo di storia contemporanea prova ad affrontare utilizzando le migliori fonti disponibili e la migliore saggistica prodotta su scala internazionale.
Ovviamente non è possibile riassumere in un paio di cartelle un libro che ce ne mette duecento di pagine per raccontarci gli ultimi 50 anni.
Quello che mi preme dire è che chi è davvero interessato a costruirsi un sguardo ampio, variegato e frastagliato del mondo e magari è disposto a mettere in crisi anche alcune delle proprie certezze, provi a leggere e a meditare questo libro.
E' scritto bene. Presenta i grafici giusti. Cita fonti e studi attendibili. Tratta quasi tutti gli argomenti rilevanti. Costituisce una riflessione davvero ponderata e con uno sguardo a 360 gradi sulla storia dell'ultimo mezzo secolo del mondo.
Contiene anche delle lucide riflessioni sull'Europa e sul suo progetto sociale e politico che sta per essere sottoposto alla valutazione dei suoi 400 milioni di elettori. Ma non è un testo immediatamente utilizzabile per farsi un'idea di come votare. Non è un volume di propaganda.
E non è un testo agiografico. Non si nasconde le criticità. Non ignora le incertezze Il titolo stesso le evidenzia. La realtà nazionale ed internazionale è segnata dal disordine. Ma in questo disordine ci sono anche sviluppo e mutamento costante. C'è il protagonismo degli stati, delle organizzazioni finanziarie, delle grandi imprese e accanto c'è anche una forte spinta all'individualismo di massa, portato a far prevalere le ragioni della libertà su quelle della giustizia.
Il volume è insomma una gran bella analisi che consente di provare a darsi una spiegazione razionale del caos e della confusione che stiamo vivendo e ad individuarne gli assi portanti. Per ragionarci sopra. Per farsi un'idea. Per poi decidere come muoversi.
Di più agli storici non si può chiedere.
venerdì 17 maggio 2019
Inaugurate a Ponsacco le sale studio della Biblioteca di Villa Elisa, collocate al primo piano dell'edificio.
Si tratta di un nuovo passo avanti importante per la crescita del servizio di pubblica lettura a Ponsacco e in provincia di Pisa. Bambini, studenti, giovani e meno giovani, hanno a disposizione da oggi un luogo accogliente, con comode sedute e wifi free, per studiare, leggere e, per i più anziani, godersi il tempo libero. La biblioteca di Ponsacco ha fatto in pochi anni (e non era assolutamente scontato) un autentico balzo in avanti. Il tutto grazie all'amministrazione comunale, guidata da Francesca Brogi, che ha creduto e investito in questa struttura, puntando a farne il cuore dei servizi culturali di Ponsacco; ma grazie anche al lavoro quotidiano, all'impegno e alla grinta di due giovani bibliotecari professionisti (Francesca e Massimiliano). Sono loro che nell'ultimo anno e mezzo hanno coinvolto di più la cittadinanza, hanno fatto crescere sensibilmente il numero dei lettori e dei prestiti librari, e hanno coinvolto in maniera più dinamica il mondo delle scuole.Un classico successo di squadra.
Si tratta di un nuovo passo avanti importante per la crescita del servizio di pubblica lettura a Ponsacco e in provincia di Pisa. Bambini, studenti, giovani e meno giovani, hanno a disposizione da oggi un luogo accogliente, con comode sedute e wifi free, per studiare, leggere e, per i più anziani, godersi il tempo libero. La biblioteca di Ponsacco ha fatto in pochi anni (e non era assolutamente scontato) un autentico balzo in avanti. Il tutto grazie all'amministrazione comunale, guidata da Francesca Brogi, che ha creduto e investito in questa struttura, puntando a farne il cuore dei servizi culturali di Ponsacco; ma grazie anche al lavoro quotidiano, all'impegno e alla grinta di due giovani bibliotecari professionisti (Francesca e Massimiliano). Sono loro che nell'ultimo anno e mezzo hanno coinvolto di più la cittadinanza, hanno fatto crescere sensibilmente il numero dei lettori e dei prestiti librari, e hanno coinvolto in maniera più dinamica il mondo delle scuole.Un classico successo di squadra.
mercoledì 15 maggio 2019
Cosa Losca, uno spettacolo teatrale per ragazzi sulla Mafia e non solo
Cosa Losca, uno spettacolo teatrale per ragazzi sulla Mafia e non solo
Mi è capitato di vedere in questi giorni, in una sala affollata fino all'inverosimile, al Sete Sois di Pontedera, uno spettacolo pensato per ragazzi (dalle elementari alle superiori) sulla Mafia, scritto da Silvia Nanni e Marco Sacchetti, divertentemente recitato da Marco Sacchetti e Claudio Benvenuti, e di cui quest'ultimo è anche regista e un po' istrione e capobanda dalla messa in scena. Lo spettacolo è stato voluto e sostenuto a Pontedera dall'Associazione Crescere Insieme che, di fatto, è un pilastro per le iniziative culturali e soprattutto formative rivolte al mondo della scuola. L'organizzazione e la produzione sono stati del Teatrino dei Fondi di San Miniato, un'altra istituzione specializzata nel portare teatro nelle scuole. E quella che si è vista il 7 maggio u.s. a Pontedera è stata davvero una bella rappresentazione su un tema delicato e non semplice da offrire ai ragazzi. Perchè questo è un tema che va porto con il dovuto garbo; con l'ironia e l'umorismo giusto che attirino l'attenzione dei ragazzi, senza diventare burletta; con una apparente ingenua leggerezza che consenta a tutti di entrare nella storia, di seguirla e di riflettere su quello che viene detto.
Bene per la trovata dei due funzionari ministeriali indagatori con l'aria dei Blues Brothers che si intrufolano maldestramente in un bunker di Cosa Losca; bene per la spiegazione didascalica sugli affari della Mafia (ricostruiti e spiegati voce per voce, affare per affare, euro per euro); bene per il finale emozionante dedicato all'impegno antimafia e al martirio civile di Peppino Impastato. Bene per il coraggio e la forza nel presentarsi di fronte ai bambini e ai ragazzi e provare a coinvolgerli.
Perchè se è vero che, come sostiene Saviano e dimostrano indagini e processi recenti, la mafia e la criminalità organizzate, le Cose Losche, sono ormai diffuse su tutto il territorio regionale, nazionale e costituiscono da sempre una voce importante perfino nell'export nazionale verso l'estero, se tutto questo è vero, spettacoli come quelli voluti dall'Associazione Crescere Insieme e dal Teatrino dei Fondi sono un modo per fare prevenzione, per vaccinare le giovani generazioni, per metterle in guardia. Usando tutti i mezzi disponibili. Inclusi quelli culturali. Incluso il teatro, che, se ben congegnato, sa riflettere bene le vicende umane e sa toccare molte corde sensibili dell'animo umano. Ovviamente il teatro non basta, ma aiuta a rendere più consapevoli di sè le persone e quindi anche a renderle più forti nella lotta contro la Mafia. O almeno così si deve sperare.
Per chi volesse vedere il trailer su youtube:https://www.youtube.com/watch?v=OJ6oag_l2Dg
lunedì 13 maggio 2019
Riflettendo sulle attività della Rete Bibliolandia con un'attenzione specifica al rapporto con le scuole e le biblioteche scolastiche. L'esperienza della Rete e qualche modesta proposta.
Riflettendo sulle attività della Rete Bibliolandia con un'attenzione specifica al rapporto con le scuole e le biblioteche scolastiche. L'esperienza della Rete e qualche modesta proposta.
Come integrare le biblioteche
di pubblica lettura con le biblioteche scolastiche. Quali i vantaggi
e quali le difficoltà? Come ci siamo organizzati? Queste le domande a cui gli organizzatori di un dibattito sulle "Reti Bibliotecarie Scolastiche", previsto per domenica 12 maggio al Salone del Libro di Torino, mi avevano chiesto di rispondere. Riflessioni da condensare in 8
minuti al massimo. Ecco quello che ho scritto e che poi ho sintetizzato a braccio, aggiungendo anche qualche modesta proposta, in 7:40 minuti.
Da
venti anni coordino in provincia di Pisa un insieme di 57 biblioteche
che cooperano all’italiana (si tratta di una trentina
civiche, una decina private e religiose, una quindicina scolastiche). Il
nostro nome è Rete Bibliolandia.
Quali
vantaggi ci sono a fare Rete? Intanto quello di condividere un
insieme di 500.000 volumi come se fossero un’unica biblioteca. Di
avere un solo catalogo elettronico (OPAC) e gestire tutti gli utenti
della provincia come se fossero iscritti alla stessa biblioteca. Il
tutto con un solo software che gestisce 57 sportelli bibliotecari
distribuiti sul territorio. Agganciato al catalogo on line e alla
gestione degli utenti, c’è un nostro servizio di trasporto libri
che sposta settimanalmente da una parte all’altra della provincia,
su richiesta dei lettori, circa 2000 libri (60.000 testi trasportati
A/R su 240.000 prestiti globali annuali). La Rete (che è governata
da una convenzione, attuata da una Unione Comunale) fa anche altri
servizi per i soci. Ma qui mi soffermerò solo su quelli orientati
alle scuole e dai quali le scuole traggono un vantaggio diretto.
Il
programma di Bibliolandia ogni anno coinvolge su tutto il territorio
provinciale circa 600 classi (e un numero maggiore di insegnanti) in
attività che vanno dal prestito librario a domicilio al bibliogioco,
agli incontri con l’autore, agli incontri su libri che trattano
diverse tematiche (incluse alcune molto sensibili come il “genere”
e l’emigrazione). E’ attraverso la promozione della lettura che
la Rete interagisce con le Biblioteche scolastiche. Ma se le BS
dovessero pagare i servizi ricevuti (con quote simili a quelle
comunali) probabilmente le BS non starebbero in rete. Le loro quote
di iscrizione sono minimali; e questa è una criticità seria, che
potrebbe essere superata se Ministero del Pubb. Istruzione finanziasse direttamente le Reti che si fanno carico delle BS.
Rispetto
alla Primaria, la Rete pisana punta a creare contatti,
collaborazione, relazioni tra bibliotecari e insegnanti elementari
per far crescere i livelli di lettura. Da qui la costruzione di due
azioni: la prima vede i bibliotecari civici attivare un flusso di
prestiti di buoni libri e libri moderni verso le singole classi (con
l’insegnante che fa da mediatore attivo); la seconda da sì che i
bambini visitino con la loro classe le biblioteche civiche e imparino
a riconoscerle e apprezzarle come luoghi accoglienti e utili per la
loro crescita. Ad oggi abbiamo singole biblioteche civiche che
realizzano anche più di 200 incontri annuali tra prestiti a
domicilio (in classe) e visite di classi in biblioteca; e il 50% del
prestato delle civiche va alla fascia di bambini-ragazzi (5-16).
Nei
plessi delle scuole medie e delle superiori la Rete cerca di suonare
un’altra musica, anche perché mentre con gli insegnanti della
primaria i rapporti sono facili e buoni, alle medie e alle superiori
le relazioni coi prof divengono più complicate e difficili.
Lo
stato delle collezioni librarie delle scuole medie nel pisano è
pietosa, o almeno quella dei 7 Comprensivi che aderiscono alla nostra
Rete. Quando i dirigenti ci chiamano per un consiglio, noi proponiamo
scarti massicci. Le biblioteche scolastiche delle medie presentano
per lo più libri vecchi, non comprano quai mai nulla, ma le
segreterie amministrative sono terrorizzate dagli scarti e i
dirigenti scolastici (quando ci sono, non sono a scavalco e non sono
del tutto insensibili alla lettura) sono vittime della retorica del
libro come oggetto di culto. Da adorare, ma non da leggere. Laddove
poi c’è un insegnante “carcerato” in biblioteca, è peggio che
meglio. Non c’è bisogno che vi dica perché.
Verso
le medie in venti anni abbiamo tentato tre strategie: A) mettere un
bibliotecario vero, per poche ore alla settimana, a spese della Rete
dove era possibile organizzare una parvenza di biblioteca; B)
trattare le medie come la primaria (con prestito a domicilio e visite
in biblioteca civica); C) coinvolgerle nei progetti di promozione
della lettura (incontri con autore, bibliogioco, recensioni, ecc.).
La
strategia A) è stata problematica e non semplice: libri vecchi, ostilità di
dirigenti e reticenze dei prof hanno ridotto i margini di
manovra. Ma qualche risultato l'ha dato. Almeno fino a quando la Rete ha sostenuto finanziariamente la "presenza". Quanto alla strategia B) ovvero prestito a domicilio, i
successi sono stati parziali. Meglio è andata con la C), progetti di
promozione delle lettura, bibliogioco, ecc. Naturalmente i risultati
sono sempre all’italiana, ovvero dove abbiamo incontrato insegnanti
singolarmente sensibili qualche rapporto e qualche progetto di
collaborazione si è costruito (da Pisa a Volterra). Dove non li
abbiamo incontrati, abbiamo costruito poco.
Infine
le superiori. Qui la realtà è ancora diversa. I patrimoni librari
anche se mediamente vecchiotti spesso sono utilizzabili (per le opere
classiche e un po’ di saggistica); a volte c’è un bibliotecario
che ha voglia di fare il suo mestiere. Per queste scuole stare in
rete è vantaggioso da diversi punti di vista: a) per cataloghi
inseriti nell’OPAC della Rete (1). Insegnanti e studenti possono
consultarli via smartphone e computer; b) per il fatto che le
biblioteche scolastiche divengono un punto prestito potenzialmente
aperto anche all’esterno; c) per l’accesso che Bibliolandia ha
fornito a insegnanti e studenti, a costo zero per loro, ad una
piattaforma come MLOL; d) per il coinvolgimento degli studenti in
progetti di specifica promozione lettura. Alle superiori abbiamo
tentato la sfida di portare classi non solo in biblioteca, ma anche
nelle librerie, di far scegliere a ciascun ragazzo in forma molto
libera un libro o un fumetto, chiedendo in cambio che lo studente lo
leggesse e poi lo suggerisse ai suoi compagni di classe o a quelli di
un’altra classe. E altre cosette di questo tipo.
Aggiungo
infine che la sfida nelle BS delle superiori potrebbe essere giocata
ad un livello ancora più alto, ma i fattori che concorrono a
deprimere la lettura in questa fascia d’età sono potenti e
numerosi. E andrebbero combattuti scientificamente. A parte i
cambiamenti ormonali dei giovani e l’infestazione tecnologica da
cui sono e siamo travolti, penso all’insensibilità dei dirigenti,
al solipsismo di molti insegnanti, agli spiccioli per l’acquisto di
nuovi libri. Tutti fattori complicati da modificare. Io poi sono tra
quelli che non ritengono che il digitale risolverà tutto rispetto
alla lettura. Basta pensare che ciascuno di noi porta in tasca una
biblioteca con milioni di libri, a cui potrebbe accedere senza alcuno
sforzo e gratuitamente, ma non lo fa. Il digitale gratuito non ci sta
trasformando in un popolo di lettori. Nemmeno i più giovani (14-19)
che sono immersi nel digitale. Perchè? Perchè per diventare buoni
lettori e utilizzatori di libri e di biblioteche bisogna essere
motivati, incentivati e educati. Occorre essere iniziati alla
lettura. E la passione per la lettura va coltivata. Costantemente.
Per
questo se io fossi il Ministro della Pubblica Istruzione e come
Archimede cercassi un punto d’appoggio per costruire e moltiplicare
i buoni lettori assegnerei alle scuole superiori (e anche alle medie)
una risorsa economica specifica per acquisire (magari con bandi triennali) da cooperative
specializzate bravi bibliotecari motivatori e promotori della lettura
(per un pacchetto dalle 8 alle 12 ore settimanali per una quarantina
di settimane all’anno). Perchè i libri oggi si possono prendere
ovunque. Ma….. un motivatore alla lettura e uno che educhi gli
altri (di diverse fasce d’età e docenti inclusi) a leggere e a selezionare la produzione libraria migliore (anche sul versante dell'aggiornamento didattico) non si trova in natura,
né in Rete. Non può essere nemmeno un funzionario pubblico (non in
Italia, almeno). Deve essere innestato, autonomo ed etero diretto.
Solo una figura così (molto simile ai bibliotecari civici delle
sezioni per ragazzi) potrebbe avere l’odisseica astuzia per
raggiungere l’obiettivo di far leggere gli studenti e gli
insegnanti. Solo una risorsa così, anche se paracadutata in un
territorio “ostile”, potrebbe risolvere i problemi che
incontrerà, destreggiandosi tra ragazzi incantati da Maghi
cellulari, insegnanti che aspettano solo il suono della campanella e
dirigenti che vogliono e sperano di cavarsela e scansare le ire dei
genitori.
Roberto Cerri
r.cerri@comune.pontedera.pi.it
12 maggio 2019
domenica 5 maggio 2019
Ancora su Luperini, Montale, il fascismo e la forza della cultura.
Torno sulle emozioni e sulle riflessioni suscitate dalla lezione di Luperini alla Biblioteca Gronchi del 3 maggio. Solo ora ho realizzato che "Nuove stanze" è un testo scritto esattamente 80 anni fa. Un anniversario. Ma in particolare mi concentro sulla domanda che sta al centro, secondo Luperini, della "stanza" montaliana: può la cultura salvarci dalla barbarie nazifascista? Si, avrebbe risposto Benedetto Croce, che Luperini ha citato in un paio di occasioni. Sì, spera Montale. Più ambiguo. Ma Luperini non è convinto della soluzione crociana e in fondo, credo, nemmeno di quella montaliana. Così, quando nel corso della discussione, ha risposto alla domanda della prof. Laura Marconcini, che gli chiedeva se fare filologia basta, ha detto di no: non basta. E nemmeno fare poesia basta. Poi Luperini ha citato la battuta attribuita a Stalin su quante divisioni avesse il Papa, traslandola sulle divisioni che potrebbe mettere in campo la cultura. Nessuna. Ha fatto bene Luperini a citare Stalin, perché nel cinismo del tragico dittatore comunista, la cui barbarie, ancorché marxianamente ispirata, non fu molto inferiore a quella di un Mussolini, si annida, a mio modo di vedere, un suggerimento importante per trovare la giusta risposta alla domanda di Montale (che ovviamente continua a tormentare ciascuno di noi in ogni epoca in cui ci sembra di veder tornare "i barbari", come suggerirebbe Baricco).
A me, appassionato di storia, pare evidente che contro la barbarie la cultura non basta. Ne' come prevenzione, nè come cura. Per curare e sconfiggere la barbarie politico-militare serve il coraggio civile e militare. Un coraggio "colto" ma anche popolare e di massa, purché in grado di discernere i giusti valori morali e civili. Di riconoscere, ad esempio, i diritti fondamentali e inviolabili dell'uomo. Senza il coraggio della Resistenza e dei partigiani l'Italia non si sarebbe liberata dalla barbarie nazifascista. Perchè non c'è libertà, senza il coraggio, senza la fatica, senza il sacrificio di un popolo per conquistarla e per mantenerla. Questo lo sapevano nell'antichità gli ateniesi guidati da Pericle (almeno secondo quanto ci narra lo storico Tucidide). Questo lo sapevano i patrioti americani che si liberarono dal colonialismo inglese e costruirono gli Stati Uniti d'America. E chiunque sostenga il contrario, sappia invece di essere smentito da una discreta quantità di esempi storici distribuiti su tutto il pianeta, a tutte le latitudini, in tutte le epoche.
Aggiungo che le riflessioni luperiniano montaliane mi hanno stimolato un pensiero specifico però sulla nostra resistenza e sugli eserciti che liberarono il nostro paese dal nazifascismo.
Tra il '43 e il 1945, quasi solo nell'Italia del centro-nord, si combatté una guerra civile. Ora io credo che più propriamente si dovrebbe parlare di un conflitto politico tra forze e soggetti che in alcune aree geografiche assunse anche caratteristiche militari e di guerra civile. Con fronti mobili. Con il coinvolgimento occasionale di civili. Una cosa che sta tra una lotta politica violenta e una mezza guerra civile. Con molte sfumature, che in poche frasi però non si possono chiarire.
Comunque i vincitori di quella che solo per semplicità continuo a chiamare "guerra civile" hanno fondato sui valori della Resistenza la nuova Repubblica Italiana. E hanno fatto bene. Senza il coraggio, senza le armi, senza il sangue dei partigiani, libertà politiche e democrazia non sarebbero state riconquistate in Italia.
Questo è vero ed è un punto fermo.
Ma è altrettanto vero che chi combatté, consapevolmente o meno, dalla parte della barbarie (sul versante dei nazifascisti), e fu sconfitto, non può facilmente riconoscersi in quella vittoria (che per lui fu una sconfitta) e, per conseguenza, nei valori espressi dalla Resistenza. Il 25 aprile resta e rimarrà dunque una giornata di vittoria sulla barbarie, ma non di riconciliazione coi barbari. Se vogliamo superare quel trauma e creare una fondazione condivisa della Repubblica Italiana, forse dovremo inventarci una festa della riconciliazione, del perdono e del superamento degli stessi elementi di barbarie che inevitabilmente si annidano anche nel coraggio dei giusti. Ma questo è un altro percorso che la cultura e il tempo forse ci aiuteranno a compiere. Forse. Oppure la vittoria dei giusti rimarrà come una cicatrice non perfettamente rimarginata della nostra storia nazionale. Ce ne faremo una ragione.
Ma c'è invece un'altra verità che gli italiani faticano a riconoscere e comprendere compiutamente.
L'Italia non ha sconfitto la barbarie nazifascista solo col coraggio degli italiani che stavano dalla parte giusta. Questo coraggio è stato ed è moralmente rilevante, ma non sarebbe bastato. Anche di questo dovremmo assumere consapevolezza. Non per svilire i giusti che combatterono, ma per non creare una retorica sopravvalutata di quella lotta.
L'Italia è stata liberata essenzialmente grazie al coraggio e al sangue di giovani "stranieri" che hanno dato la loro vita per combattere il nazifascismo, riconquistando alla civiltà, palmo a palmo, il suolo italiano.
Se gli eserciti alleati costituiti da giovani americani, inglesi, polacchi, francesi e di molte altre nazionalità (soprattutto di paesi delle ex colonie britanniche) non fossero sbarcati in Sicilia e "garibaldinamente" non avessero combattuto contro l'esercito tedesco e fascista per tutta la penisola e fino al Brennero, l'Italia non sarebbe stata liberata. Certo la stessa cosa vale per la Francia (con lo sbarco in Normandia), ma è assolutamente vera.
Senza il coraggio, il sangue e la violenza degli eserciti alleati contro la barbarie nazifascista l'Italia e l'Europa non sarebbero un continente libero.
Ma che la Repubblica italiana si fondi in maniera essenziale, centrale ed incontrovertibile sul sangue e sul coraggio di questi soldati stranieri non è percepito dagli italiani, sempre pronti a dimenticare gli aiuti ricevuti dagli altri. E non sono solo gli italiani "sconfitti" (i fascisti) a ignorare le cosa, ma anche i vincitori.
Che l'Italia si stata liberata da "altri", da stranieri, è una verità scomoda che la nostra retorica patriottarda e nazionalista (incluso quella ispirata dalle forze del CLN) non ci consente di metabolizzare.
Eppure se fossimo un paese serio (e, a mio avviso, lo siamo solo in parte) il 25 aprile, più che andare a mettere una corona d'alloro all'altare della Patria, noi dovremmo andare a mettere corone d'alloro in tutti i cimiteri che ospitano i corpi dei soldati alleati che si trovano sul suolo italiano. Di più. Forse dovremmo collocare il corpo di un soldato degli eserciti alleati, di uno "straniero" dunque, nel nostro altare della Patria, perchè se l'Italia è diventata nel 1945 un paese libero è anche grazie al soldato straniero morto per noi; e il giorno della festa della Liberazione dovremmo fare un omaggio e un ringraziamento speciale a lui e a tutti i circa 100.000 soldati "alleati" morti per la nostra libertà. Perchè se i morti partigiani furono circa 35.000, i soldati degli eserciti alleati morti tra il 1943 e il 1945 nella guerra contro il nazifascismo in Italia, sul suolo italiano, furono circa 100.000. Almeno centomila.
Certo non è molto patriottico, nè riempie di orgoglio un "popolo caciarone e ad alta densità di retorica" come il nostro, pensare che la libertà ci è stata "donata" e imposta agli italiani da altri.
Ma così è andata. E un popolo diventa adulto solo se riesce a fare veramente i conti con la propria storia.
Del resto, ci suggerisce ancora Luperini nella lettura montaliana delle "nuove stanze", non era forse statunitense la musa con gli occhi di acciaio che aveva ispirato il testo e avrebbe dovuto sconfiggere la barbarie nazifascista a cui allegoricamente allude la poesia?
Torno sulle emozioni e sulle riflessioni suscitate dalla lezione di Luperini alla Biblioteca Gronchi del 3 maggio. Solo ora ho realizzato che "Nuove stanze" è un testo scritto esattamente 80 anni fa. Un anniversario. Ma in particolare mi concentro sulla domanda che sta al centro, secondo Luperini, della "stanza" montaliana: può la cultura salvarci dalla barbarie nazifascista? Si, avrebbe risposto Benedetto Croce, che Luperini ha citato in un paio di occasioni. Sì, spera Montale. Più ambiguo. Ma Luperini non è convinto della soluzione crociana e in fondo, credo, nemmeno di quella montaliana. Così, quando nel corso della discussione, ha risposto alla domanda della prof. Laura Marconcini, che gli chiedeva se fare filologia basta, ha detto di no: non basta. E nemmeno fare poesia basta. Poi Luperini ha citato la battuta attribuita a Stalin su quante divisioni avesse il Papa, traslandola sulle divisioni che potrebbe mettere in campo la cultura. Nessuna. Ha fatto bene Luperini a citare Stalin, perché nel cinismo del tragico dittatore comunista, la cui barbarie, ancorché marxianamente ispirata, non fu molto inferiore a quella di un Mussolini, si annida, a mio modo di vedere, un suggerimento importante per trovare la giusta risposta alla domanda di Montale (che ovviamente continua a tormentare ciascuno di noi in ogni epoca in cui ci sembra di veder tornare "i barbari", come suggerirebbe Baricco).
A me, appassionato di storia, pare evidente che contro la barbarie la cultura non basta. Ne' come prevenzione, nè come cura. Per curare e sconfiggere la barbarie politico-militare serve il coraggio civile e militare. Un coraggio "colto" ma anche popolare e di massa, purché in grado di discernere i giusti valori morali e civili. Di riconoscere, ad esempio, i diritti fondamentali e inviolabili dell'uomo. Senza il coraggio della Resistenza e dei partigiani l'Italia non si sarebbe liberata dalla barbarie nazifascista. Perchè non c'è libertà, senza il coraggio, senza la fatica, senza il sacrificio di un popolo per conquistarla e per mantenerla. Questo lo sapevano nell'antichità gli ateniesi guidati da Pericle (almeno secondo quanto ci narra lo storico Tucidide). Questo lo sapevano i patrioti americani che si liberarono dal colonialismo inglese e costruirono gli Stati Uniti d'America. E chiunque sostenga il contrario, sappia invece di essere smentito da una discreta quantità di esempi storici distribuiti su tutto il pianeta, a tutte le latitudini, in tutte le epoche.
Aggiungo che le riflessioni luperiniano montaliane mi hanno stimolato un pensiero specifico però sulla nostra resistenza e sugli eserciti che liberarono il nostro paese dal nazifascismo.
Tra il '43 e il 1945, quasi solo nell'Italia del centro-nord, si combatté una guerra civile. Ora io credo che più propriamente si dovrebbe parlare di un conflitto politico tra forze e soggetti che in alcune aree geografiche assunse anche caratteristiche militari e di guerra civile. Con fronti mobili. Con il coinvolgimento occasionale di civili. Una cosa che sta tra una lotta politica violenta e una mezza guerra civile. Con molte sfumature, che in poche frasi però non si possono chiarire.
Comunque i vincitori di quella che solo per semplicità continuo a chiamare "guerra civile" hanno fondato sui valori della Resistenza la nuova Repubblica Italiana. E hanno fatto bene. Senza il coraggio, senza le armi, senza il sangue dei partigiani, libertà politiche e democrazia non sarebbero state riconquistate in Italia.
Questo è vero ed è un punto fermo.
Ma è altrettanto vero che chi combatté, consapevolmente o meno, dalla parte della barbarie (sul versante dei nazifascisti), e fu sconfitto, non può facilmente riconoscersi in quella vittoria (che per lui fu una sconfitta) e, per conseguenza, nei valori espressi dalla Resistenza. Il 25 aprile resta e rimarrà dunque una giornata di vittoria sulla barbarie, ma non di riconciliazione coi barbari. Se vogliamo superare quel trauma e creare una fondazione condivisa della Repubblica Italiana, forse dovremo inventarci una festa della riconciliazione, del perdono e del superamento degli stessi elementi di barbarie che inevitabilmente si annidano anche nel coraggio dei giusti. Ma questo è un altro percorso che la cultura e il tempo forse ci aiuteranno a compiere. Forse. Oppure la vittoria dei giusti rimarrà come una cicatrice non perfettamente rimarginata della nostra storia nazionale. Ce ne faremo una ragione.
Ma c'è invece un'altra verità che gli italiani faticano a riconoscere e comprendere compiutamente.
L'Italia non ha sconfitto la barbarie nazifascista solo col coraggio degli italiani che stavano dalla parte giusta. Questo coraggio è stato ed è moralmente rilevante, ma non sarebbe bastato. Anche di questo dovremmo assumere consapevolezza. Non per svilire i giusti che combatterono, ma per non creare una retorica sopravvalutata di quella lotta.
L'Italia è stata liberata essenzialmente grazie al coraggio e al sangue di giovani "stranieri" che hanno dato la loro vita per combattere il nazifascismo, riconquistando alla civiltà, palmo a palmo, il suolo italiano.
Se gli eserciti alleati costituiti da giovani americani, inglesi, polacchi, francesi e di molte altre nazionalità (soprattutto di paesi delle ex colonie britanniche) non fossero sbarcati in Sicilia e "garibaldinamente" non avessero combattuto contro l'esercito tedesco e fascista per tutta la penisola e fino al Brennero, l'Italia non sarebbe stata liberata. Certo la stessa cosa vale per la Francia (con lo sbarco in Normandia), ma è assolutamente vera.
Senza il coraggio, il sangue e la violenza degli eserciti alleati contro la barbarie nazifascista l'Italia e l'Europa non sarebbero un continente libero.
Ma che la Repubblica italiana si fondi in maniera essenziale, centrale ed incontrovertibile sul sangue e sul coraggio di questi soldati stranieri non è percepito dagli italiani, sempre pronti a dimenticare gli aiuti ricevuti dagli altri. E non sono solo gli italiani "sconfitti" (i fascisti) a ignorare le cosa, ma anche i vincitori.
Che l'Italia si stata liberata da "altri", da stranieri, è una verità scomoda che la nostra retorica patriottarda e nazionalista (incluso quella ispirata dalle forze del CLN) non ci consente di metabolizzare.
Eppure se fossimo un paese serio (e, a mio avviso, lo siamo solo in parte) il 25 aprile, più che andare a mettere una corona d'alloro all'altare della Patria, noi dovremmo andare a mettere corone d'alloro in tutti i cimiteri che ospitano i corpi dei soldati alleati che si trovano sul suolo italiano. Di più. Forse dovremmo collocare il corpo di un soldato degli eserciti alleati, di uno "straniero" dunque, nel nostro altare della Patria, perchè se l'Italia è diventata nel 1945 un paese libero è anche grazie al soldato straniero morto per noi; e il giorno della festa della Liberazione dovremmo fare un omaggio e un ringraziamento speciale a lui e a tutti i circa 100.000 soldati "alleati" morti per la nostra libertà. Perchè se i morti partigiani furono circa 35.000, i soldati degli eserciti alleati morti tra il 1943 e il 1945 nella guerra contro il nazifascismo in Italia, sul suolo italiano, furono circa 100.000. Almeno centomila.
Certo non è molto patriottico, nè riempie di orgoglio un "popolo caciarone e ad alta densità di retorica" come il nostro, pensare che la libertà ci è stata "donata" e imposta agli italiani da altri.
Ma così è andata. E un popolo diventa adulto solo se riesce a fare veramente i conti con la propria storia.
Del resto, ci suggerisce ancora Luperini nella lettura montaliana delle "nuove stanze", non era forse statunitense la musa con gli occhi di acciaio che aveva ispirato il testo e avrebbe dovuto sconfiggere la barbarie nazifascista a cui allegoricamente allude la poesia?
sabato 4 maggio 2019
Romano Luperini su "Montale e il fascismo" e l'interpretazione della poesia "Nuove stanze" (maggio 1939).
Venerdi 3 maggio alla biblioteca Gronchi chi ha assistito alla lezione/spiegazione della succitata poesia di Montale a cura del prof. Romano Luperini è rimasto estasiato. Una mezza esperienza mistica. Come quando Paolucci o la Acidini raccontano un quadro di Michelangelo o un'opera di Leonardo. Godimento puro. Sfornando un'analisi complessa e profonda di un'opera d'arte, intellettuali come Luperini o Paolucci ti prendono per mano e ti fanno capire a quali livelli di profondità si può scendere nella comprensione delle cose e a quali livelli invece ci troviamo, di solito, noi umili mortali, più o meno acculturati. Solo chi sa, riesce davvero a capire le strutture di un'opera e a collegare i dettagli. Poi, però, la discussione seguita alla conferenza, stimolata anche dalla domanda interna al testo di Montale, che si chiedeva se la cultura può bastare a salvarci dalla barbarie (nel caso di Montale dal nazifascismo) è migrata verso il ruolo della poesia oggi, della letteratura oggi, delle filologia oggi, della scuola oggi, degli insegnanti oggi. E nelle riflessioni sull'oggi, le timide speranze presenti nel testo montaliano si sono trasformate in un forte pessimismo. Ma confesso che ho trovato un Luperini meno pessimista del solito. Forse perchè l'auditorium era piano di giovani e di "classicista" un po' in là con gli anni non ce n'erano molti.
La mia riflessione (che non ho osato però esporre in quella sede) è che oggi sia soprattutto la critica letteraria a non contare più un tubo nel dibattito pubblico, perchè di letteratura e di poesia se ne fa e se ne stampa forse anche troppa. Ma da una parte i critici non ce la fanno a leggere nemmeno un decimo di quello che si pubblica; e dall'altra le loro riflessioni hanno perso quel mordente che avevano fino agli anni '80 del '900. Questo non significa affatto che la critica letteraria abbia perso valore o qualità. Ha solo perso visibilità e attrattiva rispetto al dibattito pubblico (così come li ha persi la storia. Chi diavolo se li fila oggi gli storici e i loro bei libri complicati pieni di dati e riflessioni? O i filosofi? Roba buona solo per le élite che affollano i festival tematici, niente di più). Ma i giornali e i settimanali italiani non pubblicano più le loro recensioni e i loro dibattiti. O lo fanno molto casualmente. Del resto i social media non sarebbero leggibili se proponessero testi di critica militante, saggi di storici e filosofi seri. Anche se, ha detto Luperini, ci sono dei blog oggi che stanno andando in controtendenza e propongono testi di critica letteraria con la forza di certe riviste degli anni '60 e '70. Ovviamente Luperini vede nella morte della critica, della letteratura, della poesia, nella crisi della scuola e nella mancanza di maestri, un segno della barbarie che avanza. E ha lasciato intendere (o almeno così m'è parso di intendere) che non sarà facile combattere tutta questa barbarie e la sola filologia non basterà a salvarci. Confesso (e spero di non sbagliarmi) che, pur non ignorando il caos che si agita in questi tempi, non mi pare che il presente abbia lo stesso carico di barbarie degli anni '20 e '30, che certi leader attuali non siano paragonabili ai protagonisti del nazifascismo o anche del comunismo cino-sovietico dei gulag e delle rivoluzioni culturali del secolo folle. Né credo che il terrorismo contemporaneo fatto di predatori singoli o associati abbia lo stesso peso della barbarie del primo Novecento. Ma è un'interpretazione soggettiva la mia e non insisto. Aggiungo invece un'ultima cosa che mi ha colpito tra le molte che ha detto Luperini. Durante il commento alle "Nuove stanze" ha buttato là alcune velocissime riflessioni sulla lotta tra fascismo e antifascismo; ha riconosciuto che anche il fascismo ha espresso una sua cultura (sia pure meno raffinata di quella antifascista); e ha sostenuto che il fascismo è dentro di noi, perché (me lo sono appuntato) "è qualcosa di umano". A quel punto m'è venuto a mente il recente libro di Francesco Piccolo sulla bestia che è dentro di noi e anche Desmond Morris con il suo scimmione nudo. No, non direi proprio che la letteratura sia morta e nemmeno che i critici letterari siano defunti, se riescono a tenerci sveglia la mente e a farci riflettere su un sacco di cose.
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