Giovanni Gentile. Una biografia / di Gabriele TURI, Giunti, 1995, pp.526 p + indici. Qualche riflessione a margine della lettura
Questa non è una recensione dello splendido libro di Turi dedicato alla vicenda culturale (e umana) di Giovanni Gentile, uno degli intellettuali italiani che almeno nel ventennio fascista ha avuto un peso diretto e significativo (in negativo) nelle vicende collettive del nostro Paese. In sostanza non entro e non valuto i dettagli di una biografia molto ben articolata, di discreta mole e scritta da uno storico contemporaneista che ha indagato per tutta la sua vita professionale il rapporto tra intellettuali e potere, intellettuali e case editrici, mondo della scuola, istituzioni scolastiche e università. Turi è un esperto dell'argomento che tratta ed è corretto nel definire i limiti che si autoimpone (è ad esempio evidente che evita una valutazione analitica della filosofia gentiliana, della sua articolazione e della sua evoluzione nel tempo). Io, a mia volta, parto dal libro, per avanzare qualche commento. Alla buona.
Del resto confesso di aver letto il testo come un romanzo, perché l'uso consistente dei carteggi dei personaggi che ruotano attorno al filosofo o si incrociano con la sua biografia (a cominciare da don Benedetto Croce) rendono la vicenda, almeno per chi abbia un po' di dimestichezza con la storia politica e culturale italiana, piacevole, scorrevole, godibilissima, anche senza pretendere di cogliere tutte le sottigliezze e gli sfumati che sicuramente contiene. Ma, mi ripeto, questa non è una recensione (che non avrei titolo per fare) e e mi limiterò a dire perché ne consiglio caldamente la lettura.
Sono mie riflessioni personali, che valgono il giusto, ma che ritengo giusto esternare.
Sostenuto dal giudizio di Antonio Labriola, anch'io da quello che so di Gentile e dalla lettura del libro di Turi, traggo la convinzione che il filosofo nato a Castelvetrano fosse un "infatuato di sè, un po' presuntuoso.. non un rappresentante della filosofia sana, ma un pazzo per la sua idea di tornare a Hegel con quarant'anni di ritardo, seguendo gli insegnamenti di quell'idiota di Jaja". Così scrive Antonio Labriola in una lettera a Croce parlando di un Gentile ventottenne e delle sue idee (p.149). E così penso che il filosofo si sia felicemente conservato fino alla fine, gonfio di una forte autostima ed di una profonda fiducia in se stesso, che, vista con gli occhi di uno psicologo, penso potrebbe essere definita come una situazione di delirio narcisistico accompagnata da un'assoluta sordità ad ascoltare le ragioni dell'altro.
Ora la "pazzia" e i deliri dei singoli hanno spesso un raggio di azione limitato (di solito sfasciano famiglie, piccole compagnie di amici, singole imprese e contesti operativi su cui i "deliranti", non curati, vengono ad impattare).
Ma quando pazzia e deliri singoli, nutrendosi di idee potenzialmente assassine, entrano in circuiti più ampi, impattano su organizzazioni più vaste (ad es. lo Stato) e raggiungono le moltitudini (le masse, i popoli), a quel punto pazzia e deliri possono contagiare tanti e trasformarsi in sentimenti largamente condivisi. E' allora che producono effetti deflagranti e devastanti per intere collettività nazionali e spesso anche internazionali come testimonia la tragica storia della prima metà del '900 in Europa.
Perchè dico questo? Perchè buona parte dell'idealismo italiano e nello specifico l'attualismo gentiliano rappresentò, nel primo quarantennio del '900, dati i livelli di penetrazione che aveva raggiunto nei gangli formativi, sulla stampa nazionale e nel governo, un disastro culturale immane per il sistema paese. E per spiegarmi meglio proverò a riassumere le diverse ragioni fondamentali di questa affermazione.
Primo: non avendo alcuna comprensione della scienza, in nome di una grande cultura filologica umanistica (di cui certo Gentile era validissimo quanto inutile e pericoloso epigono), in lotta col pensiero positivista e scientifico, buona parte degli idealisti condannò l'Italia, la sua "scuola" e più in generale il sistema Paese ad una profonda ignoranza in materia di cultura scientifica. Una pena dolorosa che il paese non ha ancora finito di scontare.
Secondo: data la base filologico-umanistica della cultura idealista e dato l'approccio "metafisico" ai problemi del paese, anche figure di grande spessore come Gentile (ma in compagnia di Croce e dei loro epigoni, per non parlare dalle scuole eccentriche e irrazionaliste: da Papini e Prezzolini) non capirono quasi niente dei problemi di "modernizzazione" che il Paese aveva un disperato bisogno di affrontare e di risolvere con strumenti giusti.
Terzo: dalla loro visione antiscientifica e metafisica della realtà scaturì, oltre un forte ritardo sul piano organizzativo, il consolidamento di un patriottismo e di un nazionalismo demenziali. Gentile, purtroppo insieme a tanti altri, non solo giustificò la prima guerra mondiale come "evento tragico ma necessario", ma soprattutto, con grande provincialismo e miopia, non riusci a guardare all'Europa come spazio e come bene comune da alimentare e condividere. Idealismo e nazionalismo impedirono a gran parte degli intellettuali italiani di guardare oltre i confini nazionali, di immaginarsi un diverso esito del Risorgimento da completare, di uscire dal loro penoso e provinciale isolamento. Così un'intera generazione di grandi e piccoli intellettuali e di uomini sicuramente colti finì (con la rilevante eccezione di Croce) per sostenere quel grande macello che fu la prima guerra mondiale e continuò per i venti anni successivi a sognare rivincite e imperialismi straccioni.
Quarto: da questa visione antiscientifica e metafisica, sorda agli argomenti degli altri, uscirono anche analisi e visioni politiche rozze, superficiali e partigiane, tutte sostanzialmente antidemocratiche e illiberali che non a caso nel dopoguerra sfociarono in una scomposta lotta politica e subito dopo nella dittatura fascista a cui Gentile dette un importante contribuito personale.
Da un certo punto di vista l'avventura umana di Gentile sembra quella di un iperattivo filosofo di provincia che armato di un suggestivo ma confuso bagaglio di idee, da una forte fiducia in se stesso e da una grande capacità comunicativa, decide di cambiare il mondo per conformarlo alla sua visione; e, grazie al contesto favorevole e alla sua abilità di scrittore e di comunicatore, questa cosa almeno in parte gli riesce. Ottiene così un forte ascendente su un pubblico vasto (gli italiani) a cui finalmente, in concorso con altri (nel caso della guerra i nazionalisti, la monarchia, gli irredentisti, ecc, successivamente i fascisti), può fare veramente male. Un male che arreca agli altri e alla fine anche a se stesso, in nome di nobili motivi (lo stato etico, erede dei valori della classicità e del risorgimento) e animato da buoni sentimenti (cercherà, ma senza riuscirci, ad esempio di non far finire in campo di concentramento le sorelle Bemporad, due ebree di cui aveva rilevato la casa editrice).
Il libro del prof. Turi, lo preciso, non ha questo taglio psicologico. Nè fruga più di tanto nel lato oscuro della mente del filosofo, cercando di spiegare quali pulsioni si celassero dietro i suoi scritti e le sue azioni. E quando lo fa, utilizza i giudizi che parenti, amici, collaboratori e solo in parte avversari dettero di lui, fissando sulla carta i propri pensieri. Lo sforzo maggiore del libro, davvero encomiabile e di notevole valore, è di cesellare e spiegare la figura di Gentile nei contesti che gli furono specificatamente propri: l'Università italiana (a cominciare dalla Scuola Normale Superiore di Pisa), le associazioni scolastiche che si batterono per la riforma della scuola italiana, le case editrici di cui Gentile si occupò e che diresse in prima persona o attraverso i figli, la produzione della Enciclopedia Italiana Treccani, le collaborazioni con giornali e riviste, la sua partecipazione politica (in particolare dal 1922 al 1924) e le relazioni con i principali esponenti del fascismo, a cominciare da Mussolini.
Il volume è veramente ricco di suggestioni, spunti, suggerimenti di lettura ed offre uno spaccato così realistico e vivo delle vicende culturali italiane del primo '900 che non si può che essere grati alla pazienza e all'abilità dello storico che ha saputo ricostruirle e porgercele con tanto garbo.
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