martedì 23 giugno 2020

Archivi pubblici: un'analisi corretta e una proposta innovativa


L'articolo di Tommaso Montanari sul destino degli archivi pubblici italiani, apparso sul "Fatto Quotidiano" del 22 giugno, fotografa una situazione vera, ma propone, a mio avviso, una ricetta inadeguata alle caratteristiche della Nazione.
Certamente in quel microsegmento dei beni culturali che sono gli archivi pubblici (archivi di stato, archivi storici di enti locali e istituti simili) il numero degli archivisti occupati sotto i sessanta anni sono pochissimi e quelli sopra i sessanta, pure. Per cui la memoria documentaria del Paese è ormai affidata a pochi vecchi, il grosso dei quali, ci scommetterei, in quota 100.
La storia va avanti così almeno dalla fine degli anni '90, quando si è smesso di fare assunzioni o se ne sono fatte col contagocce e spesso con ricorsi e contro ricorsi e risultati non sempre confortanti.
Il settore si è notevolmente asciugato dal punto di vista del personale e ne ha risentito anche il sistema della ricerca storica che è entrata (anche per altre ragioni, non ultima l'evoluzione dei corsi universitari) in una fase molto statica.
Ma il peggio del peggio è la pratica delle direzioni degli archivi a scavalco, pratica che vede numerosi archivi di stato (anche di importanti capoluoghi di regione) gestiti in modalità di reggenza da direttori di altri archivi di altre città capoluoghi di provincia o che operano come dirigenti presso il Ministero dei Beni culturali. Un po' come se il direttore degli Uffizi di Firenze fosse anche il direttore, a scavalco e reggente, della Galleria di Arte Moderna di Roma. O viceversa.
Queste reggenze sono particolarmente devastanti per il ruolo antirelazionale che hanno o meglio per il ruolo relazionale che non svolgono. Il direttore di un archivio di stato di un importante capoluogo, che magari è anche sede universitaria, il quale, a causa della reggenza, non sia ad es. in grado di collegarsi per familiarità e conoscenza con il mondo degli storici dell'Università nella cui città l'archivio si trova, contribuisce a rinchiudere l'archivio in un ghetto e a farne, quando va bene, un immenso deposito di carte ben custodito. Ma certo non è in grado di muovere foglia per valorizzarlo e farne uno dei motori della cultura della città, come invece, per ricchezza, vastità di documentazione e memorie, potrebbe accadere. Per non parlare dei rapporti tra un reggente e il personale di ruolo. Un disastro, spesso, anche organizzativo.
Detto questo, bando alla retorica. Nemmeno quando i nostri archivi erano animati da diversi giovani archivisti (e negli anni '70 e '80, per quanto la cosa possa parere incredibile, questo è realmente accaduto) e i direttori erano di ruolo e non reggenti, anche allora, dicevo, la memoria storica del paese non se la passava troppo bene. Certo si pubblicava molto di storia, ma per lo più con un taglio piuttosto ideologico. La storia era uno strumento usato dalla retorica e dalla discussione politica. Prassi poi quasi completamente abbandonata, dopo il completo rinnovamento delle forze politiche italiane che, diciamocelo, non solo non hanno una loro storia, ma avvertono poco anche il bisogno di confrontarsi con una storia nazionale difficile. Che non consente ricostruzioni spiritose o istrioniche. Oggi (come ieri) la storia è uno strumento culturale complesso. Di lenta costruzione. Poco sintetizzabile e poco malleabile per un dibattito politico che invece si svolge a colpi di tweet. Senza citazioni, senza fonti, senza critica testuale. Ma nessuna nostalgia di quel passato ce lo restituirà (e forse è perfino un bene che sia così).
Nel mezzo c'è stata e c'è la digitalizzazione delle carte che pure, diciamocelo, ha proceduto con scarso vigore. La modernizzazione degli archivi, diversamente dalle biblioteche, è in gran parte di là da venire.
E qui si arriva a quella che mi pare la ricetta inadeguata.
Il ragionamento di Montanari, corretto sul piano dell'analisi, lo porta a sostenere come soluzione l'esigenza di un grande piano di assunzioni pubbliche nei nostri archivi. Ecco io invece sosterrei un mega piano sì, ma di appalti fatti dallo Stato, attraverso le Sovrintendenze regionali, per gestire e valorizzare gli archivi. Insomma elaborerei un meccanismo per affidare la gestione di un centinaio di archivi di stato a energie fresche con forti e dimostrabili capacità non solo archivistiche ma anche relazionali e imprenditoriali. Un'imprenditorialità e una relazionalità orientate alla comunicazione degli archivi verso il pubblico specialistico e non. E dico questo non perché si possa pensare di fare cassa con gli archivi. No. Niente concessioni. Si parla di appalti di servizi pubblici. Dove gli aspetti relazionali e i collegamenti con i partner locali però debbono essere particolarmente curati. Anzi parecchio.
La mia idea è che negli Archivi di Stato (e anche negli archivi storici degli enti locali) ci sia bisogno non solo di giovani, ma anche di capacità relazionali e imprenditoriali e che queste ultime qualità non siano spesso appannaggio dei neo-assunti (e a dire il vero neppure dei vecchi ormai alla soglie della pensione), ma possano esserlo da parte di organizzazioni presenti sul mercato privato dei beni culturali, orientate sia al processo di conservazione dei beni che alla fruizione. L'attitudine alla apertura verso il mondo che circonda i nostri beni culturali è lontana mille miglia della visione burocratica dei nostri operatori pubblici e occorre trovare il modo di importarla nel sistema. I concorsi non sono stati e non saranno la strada giusta.
Per questo più che una strategia di assunzioni (che, oltre tutto, richiederebbe anni per essere completata e quando fosse terminate comincerebbe subito la richiesta di avvicinamento alla sede di residenza e questo disfarebbe rapidamente la trama faticosamente tessuta) proporrei una strategia di appalti, regione per regione, per affidare alle imprese culturali migliori e più dinamiche, secondo capitolati ben studiati ma non machiavellici, parti importanti del nostro sistema culturale archivistico. Tutte cose che si possono fare abbastanza rapidamente. E gestite su scala regionale.
Non sono certo che il privato e gli appalti possano aiutare a deborbonizzare la nostra arcaica e demotiva burocrazia pubblica e a modernizzare i nostri archivi. Ma non è inserendo col contagocce un po' di nuove energie in quelle case di riposo per anziani, come ormai sono la maggior parte dei nostri archivi, che si potrà invertire la situazione. Servono piccole squadre efficienti con obiettivi chiari per smuovere sensibilmente la situazione. O almeno per provarci.
Servono non solo energie fresche e abbondanti, ma soggetti organizzati, con forti motivazioni, orientati agli obiettivi e con capacità relazionali spendibili. Dotati di fantasia e di un'immensa voglia di fare. Per ottenere qualcosa del genere non ci fa gioco una visione a trazione statalista, ma un patto di gestione tra pubblico e privato, in cui ciascuno sappia fare la sua parte a vantaggio del Paese.

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