L'articolo
di Tommaso Montanari sul destino degli archivi pubblici italiani, apparso sul
"Fatto Quotidiano" del 22 giugno, fotografa una situazione
vera, ma propone, a mio avviso, una ricetta inadeguata alle caratteristiche della Nazione.
Certamente in quel microsegmento
dei beni culturali che sono gli archivi pubblici (archivi di stato,
archivi storici di enti locali e istituti simili) il numero degli archivisti occupati sotto i sessanta anni sono pochissimi e quelli
sopra i sessanta, pure. Per cui la memoria documentaria del Paese è ormai affidata a pochi vecchi, il grosso dei quali, ci
scommetterei, in quota 100.
La
storia va avanti così almeno dalla fine degli anni '90, quando si è
smesso di fare assunzioni o se ne sono fatte col contagocce
e spesso con ricorsi e contro ricorsi e risultati non sempre
confortanti.
Il
settore si è notevolmente asciugato dal punto di vista del personale e ne ha risentito anche il sistema della ricerca
storica che è entrata (anche per altre ragioni, non ultima
l'evoluzione dei corsi universitari) in una fase molto statica.
Ma il peggio del peggio è la pratica delle direzioni degli archivi a scavalco, pratica che vede numerosi archivi di stato
(anche di importanti capoluoghi di regione) gestiti in modalità di reggenza da
direttori di altri archivi di altre città capoluoghi di provincia o
che operano come dirigenti presso il Ministero dei Beni culturali. Un po' come se il direttore degli Uffizi di Firenze
fosse anche il direttore, a scavalco e reggente, della Galleria di
Arte Moderna di Roma. O viceversa.
Queste reggenze sono particolarmente devastanti per il ruolo
antirelazionale che hanno o meglio per il ruolo relazionale che non
svolgono. Il direttore di un archivio di stato di un importante
capoluogo, che magari è anche sede universitaria, il quale, a
causa della reggenza, non sia ad es. in grado di collegarsi per
familiarità e conoscenza con il mondo degli storici
dell'Università nella cui città l'archivio si trova,
contribuisce a rinchiudere l'archivio in un ghetto e a farne, quando
va bene, un immenso deposito di carte ben custodito. Ma certo non è
in grado di muovere foglia per valorizzarlo e farne uno dei motori
della cultura della città, come invece, per ricchezza, vastità di
documentazione e memorie, potrebbe accadere. Per non parlare dei rapporti tra
un reggente e il personale di ruolo. Un disastro, spesso, anche organizzativo.
Detto
questo, bando alla retorica. Nemmeno quando i nostri archivi erano
animati da diversi giovani archivisti (e negli anni '70 e '80, per
quanto la cosa possa parere incredibile, questo è realmente
accaduto) e i direttori erano di ruolo e non reggenti, anche allora,
dicevo, la memoria storica del paese non se la passava troppo bene.
Certo si pubblicava molto di storia, ma per lo più con un taglio
piuttosto ideologico. La storia era uno strumento usato dalla retorica e
dalla discussione politica. Prassi poi quasi completamente abbandonata, dopo il completo rinnovamento delle forze politiche italiane che, diciamocelo, non solo non hanno una loro storia, ma avvertono poco anche il bisogno di confrontarsi con una storia nazionale difficile. Che non consente ricostruzioni spiritose o istrioniche. Oggi (come ieri) la storia è uno strumento
culturale complesso. Di lenta costruzione. Poco sintetizzabile e poco malleabile per un dibattito politico che invece si svolge a
colpi di tweet. Senza citazioni, senza fonti, senza critica testuale. Ma nessuna nostalgia di quel passato ce lo restituirà
(e forse è perfino un bene che sia così).
Nel
mezzo c'è stata e c'è la digitalizzazione delle carte che pure, diciamocelo, ha
proceduto con scarso vigore. La modernizzazione degli archivi, diversamente dalle biblioteche, è in gran parte di là da venire.
E
qui si arriva a quella che mi pare la ricetta inadeguata.
Il
ragionamento di Montanari, corretto sul piano dell'analisi, lo porta a sostenere come soluzione l'esigenza di un
grande piano di assunzioni pubbliche nei nostri archivi. Ecco io
invece sosterrei un mega piano sì, ma di appalti fatti dallo Stato,
attraverso le Sovrintendenze regionali, per gestire e valorizzare gli archivi. Insomma elaborerei un meccanismo per
affidare la gestione di un centinaio di archivi di stato a energie
fresche con forti e dimostrabili capacità non solo archivistiche ma anche relazionali e imprenditoriali. Un'imprenditorialità e una relazionalità orientate alla comunicazione degli archivi verso il pubblico specialistico e non. E dico questo non
perché si possa pensare di fare cassa con gli archivi. No. Niente concessioni. Si parla di appalti di servizi pubblici. Dove gli aspetti relazionali e i
collegamenti con i partner locali però debbono essere particolarmente curati. Anzi parecchio.
La
mia idea è che negli Archivi di Stato (e anche negli archivi storici
degli enti locali) ci sia bisogno non solo di giovani, ma anche di
capacità relazionali e imprenditoriali e che queste ultime qualità non
siano spesso appannaggio dei neo-assunti (e a dire il vero neppure dei
vecchi ormai alla soglie della pensione), ma possano esserlo da parte di organizzazioni presenti sul mercato privato dei beni culturali, orientate sia al processo di conservazione dei beni che alla fruizione. L'attitudine alla apertura verso il mondo che circonda i nostri beni culturali è lontana mille miglia della visione burocratica dei nostri operatori pubblici e occorre trovare il modo di importarla nel sistema. I concorsi non sono stati e non saranno la strada giusta.
Per
questo più che una strategia di assunzioni (che, oltre tutto, richiederebbe anni per essere completata e quando fosse terminate comincerebbe
subito la richiesta di avvicinamento alla sede di residenza e questo
disfarebbe rapidamente la trama faticosamente tessuta) proporrei una
strategia di appalti, regione per regione, per affidare alle imprese
culturali migliori e più dinamiche, secondo capitolati ben studiati
ma non machiavellici, parti importanti del nostro sistema culturale
archivistico. Tutte cose che si possono fare abbastanza rapidamente. E gestite su scala regionale.
Non
sono certo che il privato e gli appalti possano aiutare a deborbonizzare
la nostra arcaica e demotiva burocrazia pubblica e a modernizzare i
nostri archivi. Ma non è inserendo col contagocce un po' di
nuove energie in quelle case di riposo per anziani, come ormai sono
la maggior parte dei nostri archivi, che si potrà
invertire la situazione. Servono piccole squadre efficienti con obiettivi chiari per smuovere sensibilmente la situazione. O almeno per provarci.
Servono
non solo energie fresche e abbondanti, ma soggetti organizzati, con forti motivazioni, orientati agli obiettivi e con capacità relazionali spendibili. Dotati di fantasia e di un'immensa voglia di fare. Per ottenere qualcosa del genere
non ci fa gioco una visione a trazione statalista, ma un patto di gestione tra pubblico e privato, in cui ciascuno sappia fare la sua parte a vantaggio del Paese.
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