Ci sono state tre cose interessanti nello spettacolo liberamente tratto dall’Iliade rappresentato in questi giorni al Teatro Era:
la prima, il fatto che le due serate fossero piene di spettatori paganti. Quasi mille spettatori a Pontedera sono la riprova che il teatro è vivo e lotta insieme a noi. In assoluto questo è il risultato maggiore. Che mi fa pensare a quali soddisfazioni potrebbe darci una struttura così, se solo la si aprisse di più e se se ne aumentasse l'offerta (e le collaborazioni). Di qualità, certo. Ma anche sperimentale. E formativa. Che straordinario strumento culturale diventerebbe per la città, per il circondario e forse tornare ad essere qualcosa anche di più.
La seconda, è che si può sempre rappresentare, con qualche accorgimento, una grande storia, inventata tremila anni fa, ma ancora attualizzabile e comprensibile ai più. È una cosa scontata per gli addetti ai lavori. Ma non sempre queste operazioni funzionano. In questo caso, si.
La terza, è che Alessio Boni sa stare in scena, ed è stato un punto di forza e di equilibrio dello spettacolo, inclusi gli stacchetti musicali un po’ televisivi. Forse con qualche strillo e qualche fulmine di troppo. E comunque, tutti bravi, ma Boni (nei panni di Zeus e di Achille) di più.
E poi molto ha voluto dire il tempo della recita. Un’ora e un quarto. Sufficiente per sintetizzare gran parte della mitologia greca classica e l’Iliade, senza fare calare l’attenzione. Complimenti agli sceneggiatori e alla regia.
Per il resto ho trovato il gigioneggiamento tra i personaggi olimpici perfettamente aderente ai tempi culturali che corrono, mentre l’incipiente demenza di Zeus è risultata una trovata perfetta per sostenere la performance anche in chiave comica.
Aggiungo solo che non mi sono né annoiato, né divertito e neppure emozionato. Che ho sorriso appena appena alle giunoniche battute di Iaia Forte e ho pensato che se gli dei avessero usato il romanesco per parlare tra loro sarebbero stati ancora più divertenti. Forse quasi perfetti. Il romanesco li avrebbe umanizzati fino a renderli indistinguibili da noi, che come suggerisce Yuval Harari siamo dei per ciò che sappiamo e ciò che possiamo e animali sentimentali per come ci comportiamo.
Insomma ho seguito con attenzione la recita, che a tratti m’è parsa costruita, stavo per dire bignamizzata, soprattutto per un pubblico giovanile, per non dire scolastico, comunque acculturato, a cui sembrava giustamente voler strizzare l’occhio. Un pubblico giovanile che però appariva (nonostante le promozioni a loro favore. Ma sono arrivate a bersaglio?) una ristrettissima minoranza in sala. Del resto temo serva ben altro per strappare i giovani ai cellulari e ai loro giri e avvicinarli al teatro, anche quando si propongono eventi che in poco più di un’ora (e con un sapiente uso di parolacce, atteggiamenti e ritmi) riassumono leggende, miti ed etica del mondo antico. Un mondo stramaledettamente ancora troppo attuale. Soprattutto per le guerre.
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