Da almeno 200 anni Pontedera è immersa nelle trasformazioni economiche e sociali che caratterizzano molte piccole e grandi città del pianeta. Commercio, traffici, innovazioni tecnologiche, industria e spostamento di popolazione hanno cambiato e cambiano continuamente lo skyline e il volto dei centri urbani, rimodellandoli, secondo esigenze e scelte che si succedono, obbedendo a logiche diverse, ma tutte destinate ad incidere sugli stessi spazi. La stessa cosa vale anche per Pisa, la città dove il pittore Francesco Barbieri è cresciuto. Anche Pisa negli ultimi 200 anni ha subito trasformazioni economiche profonde e processi di destrutturazione e ricostruzione, indotte anche dalla guerra e da pesanti bombardamenti. Città di industrie tessili e meccaniche dall'800 alla prima metà del '900, non a caso definita "città proletaria", oggi delle grandi fabbriche di quel periodo e delle loro scarne architetture Pisa vede resistere solo la Saint Gobain. Tutto il resto è storia e memoria, quest'ultima per altro in via di dissolvimento. Ma le tracce di questa storia incidono le anime, hanno prodotto cultura e consentono di leggere il cambiamento.
Ed è proprio il clima di frenetico mutamento urbano quello che si respira nelle opere di Francesco Barbieri esposte fino a luglio al Museo Piaggio di Pontedera. E' un'aria di trasformazione caotica e tuttavia razionale, che i cambiamenti incessanti della società globalizzata impongono alla faccia delle città. O almeno questo è ciò che vedo uscire dalle tele di Barbieri e mi colpisce. Ma quello che provo non è il dolore di un cazzotto nello stomaco, bensì un sentimento più complicato dove si mescolano nostalgia, critica sociale, bisogno di ordine e ineluttabilita' del procedere delle cose. Questo sento mentre attraverso la galleria del Museo e osservo i suoi dipinti, disposti secondo una spazialità ideata, con amore e grande attenzione, dall'architetto Carlo Alberto Arzela'.
I paesaggi urbani che Barbieri ha prodotto, influenzato, credo, anche dal recente soggiorno in Cina e dall'impatto con la faccia che la globalizzazione ha assunto in Asia, raccontano di città come enormi cantieri e grandi laboratori, dove la vita arriva attraverso le ferrovie e i porti, si inerpica su grattacieli e su gru, e poi si intreccia, fluisce, cola, si perde, e ancora si colora ed assume luce.
Le tele trasmettono un senso di caos, ma anche tanta energia, forza e dinamicità. Non dicono che stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, ma neppure inquietano e deprimono. Semmai sollecitano a fissare i dettagli, ad andare oltre la paura dell'ignoto e ad affrontare le complicanze del mondo, grazie anche a macchie di colore che conferiscono alle tele, insieme ad una certa malizia, gioia e vitalità.
Per un attimo osservo che in queste opere mancano gli uomini (e anche la vegetazione). Ma sono gli uomini che abitano le città trasformate in cantieri permanenti. E allora? Allora ne ricavo l'idea che forse viviamo un'epoca di cantieri in cui l'uomo è a sua volta un piccolo cantiere e un laboratorio. E l'intera nostra vita non è che progetto ed avventura e le città in perenne trasformazione sono sia il luogo del nostro divenire che il riflesso di questo errare.
La mostra ha anche un finale onirico che non vale la pena di svelare, ma che contribuisce a fare di questo evento una degnissima continuazione della mostra dedicata al futurismo, allestita sia al Palp che al Museo Piaggio fino allo scorso maggio. E probabilmente una mostra come quella di Barbieri sarebbe piaciuta anche a Marinetti.
La speranza però è che ora le opere di Francesco Barbieri esposte al Museo Piaggio vengano viste ed apprezzate da un pubblico più vasto possibile. Perché di sicuro meritano. E molto.



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