domenica 29 ottobre 2017

Manola Guazzini ha lasciato il PD di San Miniato senza definire una chiara scelta di campo. Perchè?

L'uscita di Manola, smentita da lei fino a pochi giorni fa, era invece data dai bookmaker per altamente probabile dopo la sua defenestrazione dalla Giunta Gabbanini e dopo che la sinistra dem, che via Baldacci e Lupi l'aveva fatta entrare in Giunta, era uscita dal PD sanminiatese, senza sbattere troppo la porta, ma con coerenza rispetto alle scelte nazionali del gruppo che fa capo all'ex segretario Bersani e a Enrico Rossi.
La cosa meno scontata era che Manola, che ha meditato a lungo sulla scelta, decidesse di non aderire a MDP e di lasciarsi invece le mani libere per vagliare diverse ipotesi (lista civica, appoggio ad una formazione amica, o altro ancora).
Per chi conosce Manola questa è forse la decisione più inaspettata e per questo ancora più significativa, soprattutto per quello che la "mossa" ci dice rispetto alla militanza "politica" in generale e alle sue declinazioni a livello locale.
Già, ma cosa ci dice?
Che Manola Guazzini non ritiene particolarmente forte e abbastanza "chiara" la costruzione politica che si va aggregando attorno a MDP (almeno nel comprensorio del Cuoio o almeno nel sanminiatese). Anche se tutta la sua storia politica avrebbe dovuto portarla verso questo approdo. E invece no.
Che, forse, la politica locale dovrà essere ricostruita (e governata) attraverso la costituzione di una nuova forza politica che magari nascerà dopo l'esito di una lunga tornata di elezioni significative (prima quelle regionali di Sicilia, poi le elezioni politiche nazionali ed infine, su scala locale e molto importante, il voto amministrativo per la città di Pisa).
Che le dinamiche amministrative locali potranno prendere forma solo dopo che il polverone e gli scossoni, gli accorpamenti e gli scontri che le summenzionate tornate elettorali, simili a terremoti, provocheranno, si saranno alla fine ricomposti e sedimentati. Come? Impossibile prevederlo. Per questo, almeno da quello che presumo di capire, un politico di razza come Manola prende tempo.
E ancora. La "mossa" di Manola ci conferma che non esistono più contesti politico-culturali che possano vincolare le strategie delle élite politiche (di cui lei indubbiamente fa parte) e che quindi ogni attore può muoversi con maggiore libertà. Fin troppa? Vedremo.
Quel che è certo è che il legame con "il partito", per quanto sbandierato e usato con molta nostalgia e spesso con tanta enfasi, ha un valore prevalentemente tattico, ma non designa più una vera appartenenza, come gli studi di Mario Caciagli su quest'area della provincia rossa hanno ben dimostrato.
Da tutto questo sembra voler nascere un legame diretto tra l'elite politica e la "gente", "il popolo", dove entità come gente e popolo non sono però più riconducibili a una militanza politica chiara, ma piuttosto a luoghi geografici, a piccole comunità, ad associazioni benemerite, sportive e ricreative, a frequentazioni prevalentemente emotive.
Ho la sensazione che tutto questo farà crescere, come sottoprodotto, una discreta entropia politica che finirà per rendere sempre più complicato capire qualcosa della lotta civile e politica sia a livello nazionale che locale. Finirà per dilatare lo spazio delle singole personalità e poi per generare, inevitabilmente, il bisogno di semplificatori mediatici, ma in un crogiolo di forze, movimenti, partiti via via sempre più confuso e complicato da decifrare, almeno per i non addetti ai lavori.
Quello che mi pare di cogliere dietro tutto questo sbriciolarsi e riaggregarsi di forze e attori della politica è l'impossibilità di delineare linee culturali e sociali del conflitto che abbiano stabilità e ancoraggi sicuri e continui. Ma in effetti capisco bene che la pretesa che la politica resti ancorata a valori e sentimenti chiari e quindi produca mosse e scelte conseguenti è via via sempre più difficile. Ad una società liquida (per dirla con Bauman) e democratica, non può che corrispondere una politica liquida. L'Europa e l'Italia non sono la granitica e monopartitica comunista Cina.
Impossibile dire dove tutto questo ci porterà. Anche se è certo che da qualche parte ci porterà. Auguri Manola.

ESTATE DI SAN MARTINO

E' cominciata quest'anno la 22a straordinaria rassegna di teatro amatoriale di San Miniato (PI). E' una settimana di full immersion nel teatro che quest'anno offre una discreta varietà di nuovi autori che non è assolutamente facile vedere rappresentati nel nostro paese. In più va aggiunto che quello di San Miniato è un teatro amatoriale per modo di dire, perchè spesso le compagnie che salgono sul palco della chiesa di San Martino sono tutt'altro che amatoriali e non hanno niente da invidiare al teatro professionale (a parte, di sicuro, i cachet). Tra i prossimi spettacoli segnalo "La signorina Papillon" di Stefano Benni (stasera) e "Fiori d'acciaio" di Robert Harling.
Per il programma completo organizzato dagli amici del Gruppo Teatrale Four Red Roses rimando al sito:

sabato 28 ottobre 2017

Alternanza scuola lavoro. I risultati della proficua collaborazione tra l'Itis Marconi di Pontedera, il Liceo classico di Pontedera e la biblioteca Gronchi di Pontedera.

Come hanno sottolineato dirigenti scolastici, insegnanti, la bibliotecaria Delia Giannini che ha seguito tutti i progetti ASL e una decina di ragazzi dei due istituti superiori che hanno concretamente dato vita all'alternanza, la collaborazione tra scuole e biblioteca comunale ha funzionato bene. Stamani è stato presentato il bilancio del progetto di alternanza. E i ragazzi hanno sostenuto di aver fatto un'esperienza operativa, contribuendo perfino a scrivere un breve manuale del giovane bibliotecario, che sarà molto utile ai ragazzi che nei prossimi anni ripeteranno questa loro esperienza. Il preside dell'ITIS prof. Robino ha parlato di buona pratica da imitare e per quello che mi riguarda posso dire che gli studenti delle superiori sono entrati nel vivo del nostro lavoro alla Gronchi realizzando anche un interessante monitoraggio sulla soddisfazione dei nostri utenti. Ovviamente non sono diventati bibliotecari. Ma forse hanno capito come funziona una biblioteca e che vale la pena di frequentarla e di farne uno dei punti di riferimento della loro vita culturale. O almeno così mi auguro. Nella foto la sede rinnovata della biblioteca dell'Itis Marconi.


venerdì 20 ottobre 2017

Un comunista al servizio della gente. Settant'anni di impegno politico / Adriano Sartini (a cura di Valentina Filidei), Tagete ed. 2017, pp. 100 e molte illustrazioni.

Il piccolo volume molto ben illustrato racconta la storia di un "soldatino" del PCI di Montecastello (Pontedera/Pisa), che poi ha aderito alle formazioni politiche che dal PCI sono discese per LA COSA-PDS-DS-PD.
Non si tratta di un saggio di memorie che riflettono sulla militanza politica di un comunista, ma  di un omaggio editoriale alla lunga militanza di una persona che da sempre è stata attiva in politica sia pure in un contesto particolare e se si vuole in una specie di meraviglioso microcosmo tra le campagne a est di Pontedera e il piccolo centro medievale di Montecastello.
La storia raccontata da Adriano (con l'aiuto di Valentina Filidei) elude quasi tutti i momenti importanti della storia politica cittadina e nazionale a cui sembrano alludere i settanta anni del titolo. Non è per parlare di queste cose che gli infaticabili amici di Tagete hanno curato e pubblicato il volumetto di Adriano.
Il breve testo costituisce soprattutto una botta di nostalgia per le generazioni più anziane, legate all'antica fede comunista. E l'oggetto stampato è soprattutto e per fortuna un album, ricco di fotografie, a cui il bianco e nero aggiunge un tocco di leggerezza e simpatia. Fotografie in gran parte collegate alle Feste dell'Unità, al lavoro di allestimento della manifestazione estiva e alle attività connesse alla ristorazione che di quella festa furono uno punto cardine ed un elemento di affratellamento tra i partecipanti.
Ma consumata la nostalgia, non si può dimenticare che se i compagni di Adriano (e anche miei) avessero conquistato il potere centrale (lo Stato) nel secondo dopoguerra e se l'Italia fosse finita nell'orbita dell'URSS (insomma se i carri armati di Baffone fossero arrivati anche a Pontedera e a Montecastello, come molti compagni di Sartini e lui stesso almeno fino al 1956, avevano desiderato che accadesse), magari sarebbe stata abolita la democrazia, si sarebbe instaurato un regime totalitario, con un solo partito al potere, quello comunista, e l'Italia si sarebbe  trasformata in qualcosa di simile all'Ungheria, alla Bulgaria, alla Polonia o alla Corea del Nord.
Per questo adesso penso che se i comunisti italiani ci fanno nostalgia è perché hanno (abbiamo) perso  politicamente la loro (la nostra) partita. Perché sono stati politicamente sconfitti. E quindi possiamo vederli (ci) come brave persone. Ma così ci appaiono solo perchè sono stati neutralizzati e alla fine disinnescati fino a scomparire, senza neppure riuscire a trasformarsi in socialdemocratici.
Ma per capire come li (ci) avrebbero visto gli italiani se questo paese fosse diventato simile alla Polonia o all'Ungheria, per comprendere come sarebbero diventati i comunisti italiani se avessero conquistato il governo centrale, basta pensare a come polacchi e ungheresi oggi vedono Gomulka o Kadar. Vale a dire più o meno come i protagonisti di un grande "Arcipelag Gulag" o di "Buio a mezzogiorno".
Lo so, lo so: i comunisti italiani erano un'altra cosa, sostiene una schiera di estimatori di Togliatti, Longo, Berlinguer, Ingrao e Napolitano.
Può darsi che sia così. E forse il mio argomento è semplicistico e impietoso. Ma, col senno del sessantenne, non credo che Togliatti e Secchia, se nel '48 avessero vinto le elezioni, ci avrebbero regalato un Paese migliore di quello che ha ritirato su la DC. Perciò, pur riconoscendo i difetti di una democrazia liberale e cattolica, sono contento che le cose siano andate così a noi italiani. E penso che abbiamo avuto davvero molta fortuna.


giovedì 19 ottobre 2017


Alcuni bibliotecari sono persone davvero superfurbe.

La Rete Bibliolandia è un soggetto collettivo molto ampio. Associa 26 biblioteche comunali articolare su una trentina di sedi, sparse per la provincia di Pisa. Una quindicina di biblioteche scolastiche. Una decina di altre biblioteche private o sanitarie. Oltre 500.000 volumi disponibili. Circa 150 operatori bibliotecari (tra quelli di ruolo, di cooperative, volontari, servizio civile, ecc.). E tutti i giorni se ne scopre una. Ad es. si scopre che ci sono bibliotecari che non rispettano le regole del gioco e forzano l'uso dell'opzione "novità locali" applicandola anche per libri che trattano di globalizzazione. Classificando un libro su questo argomento come "novità locale" il libro possono cuccarlo e leggerlo solo i propri concittadini, quelli che gironzolano attorno alla loro biblioteca, che sono utenti più cari e con più diritti di quelli del comune vicino o anche lontano ma che sta sempre in Rete. E magari si scopre pure che quegli stessi concittadini di quel comune si cuccano e leggono anche la stessa copia del libro che un'altra biblioteca di un altro comune che rispetta le regole del gioco ha messo disponibile al prestito. In sintesi ci sono tre cittadini di un comune che leggono le 3 copie di un libro e le leggono proprio loro, una perchè il bibliotecario del loro comune gliel'ha riservata sottraendola arbitrariamente ai residenti degli altri comuni e le altre due copie perchè i bibliotecari hanno fatto il loro dovere e i primi a prenotarla sono stati concittadini del bibliotecario furbastro. Ma c'è di più e di peggio, perchè frugando nei big data della Rete Bibliolandia si scopre che ci sono bibliotecari che non indicano che il libro (sempre quello sulla globalizzazione di cui sopra) deve essere visibile a catalogo. Così questi bibliotecari superurbacchioni comprano la novità, la catalogano, ma per evitare di prestarla fuori della mura del loro comune e per evitare di essere biasimati per uso improprio della classificazione come "Novità locale", la trasformano in un libro fantasma, la cui esistenza, se non se ne dimenticano, è nota solo a loro. In questo modo ottengo lo stesso risultato di prestare la novità ad uso e consumo dei loro utenti locali, nascondendo la copia a tutte le altre biblioteche e a tutti gli utenti della Rete. E che si tratti proprio di superfurbacchioni è dimostrato dal fatto che ogni catalogazione di libro prevede una pubblicazione automatica nel catalogo e per togliere visibilità al volume catalogato (e quindi nasconderlo e non renderlo prenotabile) è necessario rientrare due volte nella catalogazione e togliere consapevolmente la visibilità. Insomma, come ha commentato un nostro giovane collaboratore, alcuni dei nostri bibliotecari sono molto furbi ed ingegnosi. E coltivano i loro comunardi. Mentre sono meno propensi a socializzare e a pensarsi come parte di una Rete più ampia. O meglio dalla Rete vorrebbero prendere solo i vantaggi e scaricare sugli altri gli svantaggi. E poi dice che il municipalismo medievale è finito e che se il Paese va male è tutta colpa dei politici!

domenica 15 ottobre 2017

Pontedera ed Enrico Piaggio: a 52 anni dalla sua morte

La Piaggio non sbarcò a Pontedera nel 1924 per merito di Enrico Piaggio. Gli investimenti della famiglia genovese su Pontedera furono probabilmente decisi dal padre Rinaldo, a cui il comune di Pontedera dedicò, dopo la morte, il viale lungo il quale era cresciuta la grande fabbrica, dai primi capannoni a ridosso di via Roma, fino a perdersi nelle lontane Curigliane, bel oltre la nuova stazione ferroviaria, ben oltre l'hangar che originariamente aveva ospitato i dirigibili.
Ma dal 1938 in poi Enrico Piaggio recitò un ruolo importante nelle sorti dello stabilimento di Pontedera che produceva motori per aerei da guerra e che durante il conflitto bellico, fu prima pesantemente bombardato e poi in parte trasferito a Biella e in parte sparpagliato in piccole strutture ed officine nei dintorni di Pontedera.
Il ruolo strategico di Enrico Piaggio, la sua importanza assoluta per il nostro territorio, le ragioni per le quali tutti i nostri concittadini dovrebbero conoscere la sua biografia (con le sue luci e le sue ombre), sono da ricondurre, indissolubilmente, alla creazione e alla commercializzazione della Vespa (e poi dell'Ape) e alla rinascita degli stabilimenti di Pontedera e al loro decollo internazionale negli anni '50 del '900.
Se Pontedera è quella che è oggi, in larga misura ciò si deve ad una serie di scelte compiute tra il 1944 e il 1945 da Enrico Piaggio, il quale nel mezzo di una guerra che aveva assunto anche i caratteri di una lotta fratricida, capì che di aerei non gliene avrebbero più fatti fare, che bisognava inventarsi qualcosa di assolutamente originale e che doveva essere un prodotto per le masse.
E se a noi oggi pare quasi scontato pensare che da queste premesse non potesse che uscire fuori la "Vespa", chiunque abbia qualche nozione storica sa che questo non è affatto vero.
Genio e fortuna, insieme ad una solida capacità tecnica e ad abilità  progettuali e organizzative di primordine, si mescolarono allora per tirar fuori il "papero" e poi la Vespa. Così come capacità organizzativa e abilità tecniche consentirono il lancio e poi il successo della innovativa due ruote.
Il resto fu una corsa durata quasi vent'anni che vide Enrico Piaggio cavalcare con le sue aziende il boom italiano, anzi esserne un protagonista e contribuire a costruire la prima motorizzazione dei massa dell'Italia, sia pure su due ruote.
Per Pontedera la rinascita e il successo della Piaggio nel secondo dopoguerra furono un'autentica manna, che dette lavoro e garanti' stipendi dignitosi ad alcune migliaia di famiglie, consentendo loro (soprattutto se anche la moglie lavorava) di traghettare da una vita di "miseria e comunque di povertà" ad una vita dignitosa, che poteva includere anche quattro settimane di ferie all'anno, da trascorrere coi figli in qualche località balneare della costa e poi di comprarsi una utilitaria e pagare il mutuo per un piccolo appartamento, magari in cooperativa. Un balzo enorme rispetto a tutte le generazioni precedenti. Enorme.
Per Pontedera e la Valdera fu una manna, perchè gli stipendi dei dipendenti dello stabilimento Piaggio sostennero anche gran parte delle attività economiche e commerciali del territorio, raggiungendo le tasche di molti che vivevano qui.
Per contro va detto che ciò avvenne mentre tanti pontederesi di sinistra negli anni '40 e '50 sognavano la pianificazione sovietica e negli stabilimenti di Enrico Piaggio vedevano un luogo per lo più infernale e semmai una palestra politica dove irrobustire il loro antagonismo e provare a costruire una società anticapitalistica, che allora sembrava il sole dell'avvenire.
E siccome i pontederesi di sinistra costituivano la maggioranza degli elettori del comune, Enrico Piaggio rimase per loro solo "il padrone", "il capitalista", "il fascista" e la città, che orgogliosamente e politicamente non voleva considerarsi "Piaggiopoli", non trovò mai il modo di relazionarsi in maniera adeguata con uno degli uomini a cui pure doveva buona parte della sua fortuna e della sua sorte. Un uomo certamente non facile, l'opposto ad esempio di un imprenditore dal volto umano come Adriano Olivetti.
Poi, il 16 ottobre 1965 di 52 anni fa, Enrico Piaggio morì. Improvvisamente. Il suo posto fu preso da Umberto Agnelli e dopo di lui, fino agli anni '90, da altri rappresentanti o da altri membri della famiglia Agnelli (come Giovannino). Ma nè gli Agnelli, nè chi acquistò la società dopo di loro, se si esclude le breve eccezionale parentesi di Giovannino Agnelli, trovò il modo di definire rapporti di reciproco riconoscimento e di fiducia con la città e con i suoi amministratori. Nè la città e le sue elite politiche ed amministrative riuscirono a riflettere sulla storia recente di Pontedera, con capacità alte e con profonda comprensione degli accadimenti, nel rispetto dei reciproci compiti e vincoli. Ma non parlo di memorie retoricamente condivise. La lotta sociale esiste e i conflitti di classe e lo scontro tra interessi diversi pure. Mi riferisco al riconoscimento dei rispettivi ruoli e dei meriti. Meriti veri. Di chi sta in piedi nelle tempeste del mercato mondiale. Con azioni ed effetti misurabili. Nel caso di Enrico Piaggio, eccezionali.
Invece per ragioni squisatamente ideologiche, per sentimenti che affondano le radici in visioni distorte della realtà e del mondo, la città di Pontedera, pur dovendogli moltissimo, ad Enrico Piaggio non ha riconosciuto quasi nulla. E perfino parlare del ruolo di Enrico Piaggio nella rinascita di Pontedera resta in città un mezzo tabù.
Eppure chiunque cerchi di pensare a qualche personaggio le cui scelte e le cui risorse personali abbiano avuto un ruolo decisivo e positivo non solo sulla storia e sullo sviluppo della città, ma su migliaia e migliaia di suoi cittadini e su decine di imprese locali (con un impatto che si è propagato su un lungo arco di anni), chiunque pensi alle dinamiche di questa città e alla sua fama nel mondo, sì, proprio nel mondo, non può che pensare ad Enrico Piaggio ed alle decisioni drammatiche e lungimiranti assunte da questo coriaceo imprenditore genovese, morto ciquantadue anni fa.

sabato 14 ottobre 2017

Diario di guerra. 16 luglio - 1 settembre 1944. Una storia di pontederesi in un rifugio di Montecalvoli / Faliero Fantozzi (ma a cura di Michele Quirici) e con un racconto di Anna Vanni Lupi, Tagete Edizioni, 2017, pp.84

Michele Quirici fa un lavoro straordinario e meritorio di recupero e pubblicazione di memorie locali, paragonabile, per mole, agli annali muratoriani, ovviamente tenuto conto delle debite proporzioni. Anche in questo caso, grazie ad un ritrovamento nell'archivio di casa Vanni-Lupi, la Tagete edizioni tira fuori e consegna ai lettori pontederesi (ma non solo) la quotianità del vissuto di un manipolo di Pontederesi che coll'avanzare degli eserciti alleati verso l'Arno, anzichè sfollare a sud (ovvero andando ad incontrare gli alleati e liberarsi prima) si trasferì a Nord e quindi volontariamente allungò la propria agonia.
Certo nessuna delle famiglie sfollate a nord dell'Arno aveva, tra i propri ranghi, esperti militari che avrebbero potuto suggerire che il grande fiume, una volta distrutti i punti, avrebbe potuto trasformarsi in una barriera difficile da superare anche per l'attrezzatissimo esercito alleato.
E poi c'era la propaganda fascista che, per quanto in crisi, spingeva le persone a nord; e poi c'erano le voci, il passaparola, l'incertezza della vita quotidiana, la paura, e mille altre cose.
Così il Diario di Faliero Fantozzi ci fa conoscere i dettagli di 19 famiglie formate da 71 persone costrette alla coabitazione coatta in un rifugio a Montecalvoli sotto le cannonate americane e con le vessazioni dei tedeschi tra il luglio e l'agosto 1944
E si scopre o si ritrova (per chi, come me, ha ascoltato storie analoghe dai propri genitori) la storia di tutte le difficoltà della vita quotidiana forzata, a cominciare dall'espletamento delle esigenze corporali per continuare con i rastrellamenti, le tante violenze, la rabbia, la paura, lo stordimento, il coraggio. E i morti per i cannoneggiamenti. E la fame. Tanta fame. Quasi più della paura.
Devo dire che essendo figlio di due "rifugiati" tra Montecalvoli e Santa Maria a Monte, il racconto di Fantozzi non aggiunge quasi niente a quello che già sapevo. Semmai rinnova il dolore dei racconti che le famiglie Cerri, Marrucci, Guidi  Marconcini mi hanno tramandato per oltre settanta anni.
Mio nonno, Giordano, fu colpito da una scheggia poco fuori dal suo rifugio di Santa Maria a Monte e trasferito a Firenze, a piedi, su un carretto da barrocciaio, dove morì pochi giorni dopo, per un'infezione che non si potè curare.
Mentre l'altro mio nonno paterno, Attilio, fu rastrellato dai tedeschi e come il protagonista del diario di Faliero riuscì fortunosamente a fuggire e a tornare al rifugio.
Ma per un mitico giovane di oggi (sperando di riuscire a fargli leggere a scuola qualcosa del genere), per un bambino della primaria, a cui Anna Vanni Lupi aveva pensato di far conoscere questa storia (ma oggi, alla primaria, si studiano solo i romani antichi se va bene, altrimenti ci si ferma alle favole sugli egizi e i babilonesi), una vicenda come quella di Faliero risulterà quasi sconosciuta, a meno che non ci sia ancora in giro un qualche bisnonno che la storia dei rifugi a nord dell'Arno l'abbia vissuta e che sia ancora lucido e abbia ancora voglia di raccontarla (senza omettere troppi particolari).
Comunque, la cosa importante è che Michele Quirici abbia scovato e quindi pubblicato questo straordinario diario, che ci racconta, in presa diretta, i due mesi del '44 di permanenza nel rifugio delle 19 famiglie pontederesi; e ci ripropone la memoria di Anna Vanni Lupi, che sintetizza e riassume, a posteriori, la stessa storia con gli occhi di una bambina.
Il libro resterà a disposizione dei buoni lettori e delle brave lettrici, che magari decideranno di leggerne qualche pagina ai loro nipotini. Resterà a disposizione delle tante maestre e prof delle medie che magari non hanno mai sentito parlare della loro straordinaria collega Anna, che su questi materiali fece lavorare i suoi bambini. Il libro e la testimonianza di Fantozzi, letti o non letti, rimarranno per i posteri. E nessuno potrà dire, senza sentirsi in colpa, di fronte ad avvenimenti di questo tipo, io non sapevo. Io non c'ero. Io non credevo. I libri infatti ci sono. E raccontano. Sono custoditi nelle case e nelle biblioteche, oggi sempre più accessibili. E come chi ha preso la patente di guida non può dire di non conoscere il codice della strada, chi ha imparato a leggere non può dire che non sa le cose perchè semplicemente non vuole leggere o non vuole arrivare in biblioteca a prendere un libro.
I libri infatti hanno tra i tanti meriti quello di conservare la memoria e di trasmetterla. E i contemporanei hanno l'obbligo morale di leggerli e di conoscerli.E se non lo fanno è un demerito ed una responsabilità dei contemporanei. I quali, tra tutte le scuse che possono accampare, non possono tirare fuori quella di non sapere.
Il libro è disponibile nelle librerie, nelle cartolibrerie ed in alcune edicole, oltre che, gratuitamente, presso la Biblioteca Gronchi.



giovedì 12 ottobre 2017

Presentazione dei testi di Gennaro Strazzullo alla Biblioteca Gronchi.

Domani, venerdi 13 ottobre, alle ore 17, alcuni amici ed estimatori di Gennaro Strazzullo commenteranno un volume che contiene i versi e le prose, le riflessioni, che l'artista ha prodotto dal 1964 a oggi e che ora rende pubbliche. 
So poco d'arte e conosco Gennaro Strazzullo solo attraverso le sue opere che sono in alcuni spazi pubblici, tra cui la Biblioteca di Villa Crastan, attraverso i cataloghi che ha pubblicato e quello che ne hanno scritto critici d'arte e amici comuni.
Di lui mi colpiscono il pessimismo, la sofferenza e il male di vivere. Ma anche la forza salvifica con cui, tutto sommato, riesce a sopportare questa visione dolorosa del mondo e a raccontarla.
Domani pomeriggio a parlare di lui, in biblioteca, interverranno Ilario Luperini, Claudio Gonnelli e Domenico Antonacci.



Il Teatro Era di Pontedera è una grande risorsa per la città e presenta una stagione straordinaria

Ho partecipato con molto piacere alla presentazione della prossima stagione del Teatro Era di Pontedera, che da tre anni, a tutti gli effetti, è una componente importante del Teatro della Toscana (una joint-venture tra il Teatro La Pergola di Firenze e il Teatro Era di Pontedera col sostegno economico, fondamentale, della Regione Toscana e del Ministero per la Cultura). Una fortuna per la Toscana e soprattutto per Pontedera.
E se la stagione sarà all'altezza della presentazione di martedi 10 ottobre, sarà un successone, perché anche l'annuncio (a cominciare dal curatissimo video promozionale sparato all'inizio) è stato strepitoso e da tanti punti di vista.
Per le cose dette. Per le molteplici interlocuzioni. Per le cose a cui mi ha fatto pensare.
Intanto Luca Dini, direttore, ha fatto un bilancio del triennio che si è appena concluso e insieme ad Antonio Chelli, vice presidente del Teatro della Toscana, ha fornito numeri e diversi spunti, senza nascondersi le difficoltà che in questi anni la nuova organizzazione (che pure si è avvalsa di cospicui finanziamenti) ha dovuto affrontare e superare.
Dini soprattutto ha anche annunciato una volontà di aprirsi ancora di più al territorio. Un lavoro di conquista importante, che va perseguito con maggiore metodo. In particolare quello verso le scuole. E verso gli insegnanti.
Poi è seguita una breve ma intensa performance di Gabriele Lavia, direttore artistico della Pergola, sull'immortalità del teatro e sulla sua importanza nella vita umana. Una performance che si è conclusa con l'appello a non misurare tutto sulla base dei soldi e dei costi e con un incoraggiamento, imperioso, al consiglio di amministrazione del Teatro a tirare fuori più quattrini. Un invito che ha fatto arrossire il povero Chelli.
A seguire, il neopensionato, ma sempre attivo al centro del palcoscenico, Roberto Bacci che ha rivendicato la storia del CSRT, gli incontri con Grotowski e con altri straordinari artisti italiani ed internazionali che hanno reso celebre il decentrato "teatro pontederese". Presentate le produzioni della prossima stagione, Bacci ha quindi suggerito come l'anima del "suo" teatro andasse ricondotta all'idea di una Pontedera città dell'accoglienza, degli esuli (in questo caso teatrali, come Grotowski), e delle sfide impossibili, che però si radicano e alla fine sopravvivono e danno frutti molto interessanti. Tutti concetti che condivido. Uno per uno. A cui aggiungerei solo la mercantile abilità pontederese di sapersi adattare al mutamento.
Poi il microfono è passato a Giorgetti, direttore amministrativo del TdT. La sincerità sulla faticosa costruzione delle stagioni teatrali. La sottolineatura delle dinamiche conflittuali interne al nuovo complesso teatrale, chiamato ad amalgamarsi in una rapida esperienza triennale. E la capacità di prendere il toro per le corna e sottolineare anche differenze di vedute, scontri e negoziati sulle soluzioni. L'ammissione, in alcuni casi, di essersi sbagliati. Tutto ciò che Giorgetti ha raccontato ha dato la sensazione di un teatro vivo, complicato nel farsi, ma consapevole di sè e attento alla contemporaneità.
Insomma è stata una bella presentazione. Forte. Poco retorica. Originale, credo.
Mi ha confermato che il Teatro Era costituisce davvero una risorsa strategica per Pontedera. Strategica come la Piaggio, come il Sant'Anna, l'Ospedale Lotti e il sistema scolastico superiore.
Rispetto al Teatro mi permetterei di sottolineare solo un obiettivo da perfezionare: quello di far crescere il pubblico locale. Lo so, Roberto Bacci potrebbe replicarmi che vale più uno spettatore che viene da Tokyo a vedere uno spettacolo per 50 spettatori prodotto e realizzato a Pontedera dal CSRT, che i 49 spettatori che abitano tra Palaia e Calcinaia o nel resto delle campagne pisane e che frequentano il Teatro senza capire molto di quello che vedono (soprattutto per la parte di sperimentazione). Replicherei che, certo, fino a tre o quattro anni fa, aveva ragione lui. Ma, oggi, il gigantismo della nuova struttura (e i costi connessi), i mutamenti di sensibilità politica (e i nuovi assetti che potrebbero prendere corpo), la mutazione dell'offerta teatrale in atto, ho l'impressione che abbiano cambiato la situazione.
Senza importanti numeri sarà più difficile sostenere i costi complessivi (e i posti di lavoro collegati), soprattutto in una fase politica complicata come è quella i cui ci siamo infilati. Perciò, a maggior ragione, serve un equilibrio tra ricerca teatrale e offerta di spettacoli che vada incontro ai desiderata del pubblico, il quale è bene non solo che riempia sempre le belle e comode poltrone del Teatro, ma che funzioni come supporto consensuale alla grande struttura teatrale.
E poi oltre i numeri, c'è anche la qualità degli spettatori da far crescere.
Su questo versante l'idea di sostenere e incoraggiare la presenza a teatro degli insegnanti è strategica, come quella di costruire una rete di alleanze, di promoter e di supporter del proprio lavoro. Tutte cose però che chi lavora al Teatro Era sa bene.
Ovviamente, e qui concordo fino in fondo con Bacci, tutto questo va fatto senza smarrire anima e originalità del CSRT.
Infine il problema del nuovo pubblico si ricollega anche alla capacità di rinnovare il rapporto con le elite politiche del territorio. Un rapporto che non può più essere di collateralità ideologico-culturale. Perchè i tempi stanno cambiando, canterebbe il vecchio Dylan.
Qui la soluzione teatrale che Gabriele Lavia ha straordinariamente suggerito, attraverso l'invocazione ad un mecenatismo generoso, dovrà trovare soluzioni in classi dirigenti locali (e nazionali) che da una parte conoscano e amino di più la cultura e dall'altra sappiano allargare il mecenatismo ad una borghesia "generosa" che in terre come questa dovrebbe essere abbastanza presente. Ma che va coltivato.
Sottolineo infine, pur non essendo un esperto di Teatro, ma solo uno spettatore curioso (e amante soprattutto del teatro classico) che la babelica e per certi aspetti bulimica offerta della prossima stagione mi stordisce, ma allo stesso aspetto mi fa molto piacere, perché indubbiamente, pur essendo il frutto di una negoziazione assai complicata, mi sembra andare nelle giusta direzione.
Certo saranno solo i biglietti staccati a fine stagione e i giudizi valutativi del pubblico che avrà visto gli spettacoli a raccontarci, con chiarezza, se il progetto del Teatro Era che sta per prendere il via avrà funzionato e avuto successo.

In bocca al lupo.


mercoledì 11 ottobre 2017

San Faustino, a Pontedera, ai tempi dell'innovazione

I tempi cambiano. E anche le città festeggiano santi e patroni in un'altra maniera. San Faustino poi è un santo paziente e i pontederesi l'hanno gia abituato ad un culto cangiante. Prima della stagione delle vacanze estive, la ricorrenza si celebrava d'agosto, ma a fronte di una città spopolata la stessa chiesa decise di rimandarlo ad ottobre poco prima della fiera di San Luca, santo e festività più vicini allo spirito dei pontederesi. Comunque sia, anche quest'anno, per San Faustino, Pontedera ha deciso di mostrare le proprie innovazioni, la propria voglia di stare al passo col mondo, la grinta che ha per affrontare le nuove sfide che la contemporaneità le pone. D'altra parte per un città che affonda le proprie radici soprattutto nel commercio, nell'industria e nei servizi di qualità, non ci sono tante alternative. Il futuro, che cambia continuamente e ad una velocità francamente eccessiva, ci spiazza continuamente. Ci costringe a stare sempre sul chi va là, a non sederci sugli allori. E allora anche per San Faustino, anziché coltivare una maggiore spiritualità interiore di cui forse ci sarebbe altrettanto bisogno, le nuove "botteghe del sapere" si mettono in mostra e si aprono. Suggeriscono a famiglie e giovani ipotesi di futuro. Raccontano storie e danno voce e volto a speranze nuove. C'è solo bisogno che i messaggi vengano ascoltati e, poi, messi in pratica. La vitalità della Pontedera del XXI secolo dipenderà da come i suoi cittadini sapranno rispondere ai cambiamenti, conservando e innovando anche le loro tradizioni. I pontederesi sono certi che anche stavolta San Faustino capirà.



martedì 10 ottobre 2017

Carlo Nesti, operaio Piaggio (Pontedera), 1950-2017

E' morto Carlo Nesti. Era un operaio della Piaggio di Pontedera (anche se da ragazzo credo avesse lavorato alla Pistoni Asso). Un uomo alto, ben piantato, capigliatura folta. Con baffi e pizzetto (almeno per un certo tempo della sua vita). Era un uomo che poteva essere uscito dal film "La classe operaia va in Paradiso", anche se era pontederese e ironicamente toscano.
Già, credo di averlo conosciuto... tra il 1969 e il '70. Lavorava già, mentre io studiavo. Era uno dei pochi operai che bazzicavano le riunioni di quella specie di circolo esoterico che dichiarava di credere in una vulgata rivoluzionaria del marxismo-leninismo. Una cosa che a ripensarci oggi mi viene da ridere, ma allora era una fede.
Carlo, a Pontedera, era una mosca bianca, perché alla Piaggio gli operai di solito erano iscritti al PCI o alla DC o al PSI e qualcuno, già allora (parlo della fine degli anni '60) al MSI, quelli che oggi potrebbero essere amici della Meloni.
Lui no. Lui era un operaista che credeva nella rivoluzione comunista e frequentava gli studenti che animavano i gruppuscoli di estrema sinistra.
Per me, nel 1970, Carlo era un mitico operaio della Piaggio. Una specie di titano. Un superuomo che apparteneva alla mitica classe operaia, la classe che prima o poi avrebbe fatto la rivoluzione e rivoltato come un calzino questo paese. E a queste favole, allora, ci credeva anche Carlo. Ma con meno enfasi. Almeno così mi pare di ricordare.
Con questa credenza esoterica siamo andati avanti diversi anni. Almeno fino alla metà degli anni '70. Poi, più io che lui, siamo cominciati a cambiare.
Carlo restava sempre un portatore di istanze rivoluzionarie sia pure in un mondo in cui si riconosceva sempre meno, mentre io mi facevo sempre più un dubbioso e maturavo la convinzione che erano state le nostre primitive idee esoteriche ad averci fregato, facendoci prendere lucciole per lanterne.
Alla fine andai militare e quando tornai, ricordo che discutemmo a lungo della legnata che la "classe operaia" aveva preso tra l'80 e l'81 alla FIAT. Una legnata da cui la "Classe" non si sarebbe mai più ripresa. E nemmeno noi ex operaisti.
Ricordo che con Carlino, lo chiamavamo così, in barba alla sua stazza (di allora), commentammo a lungo la tentazione berlingueriana di occupare la fabbrica torinese. E a quel tempo ci sarebbe piaciuto,  forse,  che il povero Enrico desse davvero il via all'occupazione e alla rivoluzione. Ma Berlinguer, il PCI e la CGIL, per fortuna, avevano la testa sulle spalle e non fecero niente del genere. Dopo quel biennio, il comunismo cominciò a tramontare a passi da gigante anche nel nostro paese. Berliguer mori, si perse il referendum sulla scala mobile e alla fine il Pci cambiò nome e orizzonti.
Il mio operaismo si affievolì e si trasformò in qualcosa di nostalgico. Io smisi di cantare le canzoni di lotta e di protesta, Carlo invece continuò almeno per un po' in un coro di voci rosse.
Carlo inoltre patì in fabbrica i colpi della ristrutturazione della Piaggio e vide buttare fuori dagli stabilimenti di Pontedera 4.000 operai. Un salasso drammatico. Ma lui era un operaio qualificato e, da ragionatore quale era, aveva messo da parte le ultime velleità operaiste. Per cui, alla fine, gli Agnelli se lo tennero e così potè raggiungere, con qualche scivolamento, l'agognata pensione e dare sfogo ad una delle sue grandi passioni: pedalare in bicicletta.
Ma nei quasi quaranta anni che seguirono l'irreversibile sconfitta di Torino, tutte le volte che ci trovavamo ed inevitabilmente parlavamo di politica e di sindacato, lui con me recitava la parte del pessimista (la sua tesi era che la classe e il paese sarebbero andati sempre peggio), mentre io cercavo di sottolineare i lati positivi della situazione. Insomma a lui il ruolo del Titano sconfitto. A me, laureato in filosofia, quella di Candide che sosteneva che in fondo non ci era andata poi così male, anche se i nostri sogni non si erano avverati.
Poi c'eravamo visti sempre meno e i suoi malanni avevano preso il sopravvento. Ma anche un paio di anni fa, dopo che era riemerso da lunghe peripezie ospedaliere, più o meno alla fine del suo racconto, riprendemmo a recitare un pezzo della nostra umana commedia. Stessi ruoli. Stesse battute. Più o meno.
Ricordo che di sè Carlo diceva di essere una specie di Panda. Una tipologia di operaio in estinzione. Di quelli che conoscono il mestiere e sanno farsi valere. Ed in fondo era quello che di lui ho sempre pensato anch'io. Peccato che dagli anni '80 in poi queste abilità valessero sempre meno. E che il mondo si fosse fatto sempre più complicato.

lunedì 9 ottobre 2017

Carlo CASSOLA (1917-1987)
una mostra a Montecarlo di Lucca in occasione del centenario della nascita e a 30 anni dalla morte

Ho visitato ieri una interessante mostra dedicata allo scrittore e saggista, Carlo Cassola, a Montecarlo di Lucca, allestita nella ex chiesa della Misericordia (nel centro storico delle splendido paesino medievale).
La biografia umana, letteraria e politica di Cassola è ricostruita nella mostra in forma un po' densa e prevalentemente attraverso il filtro delle traduzioni e dei contatti internazionali dello scrittore. Così per apprezzare la mostra e l'evento documentario (ricco, ma di non facile lettura) è necessario conoscere l'autore almeno attraverso l'opera più fortunata e più tradotta nel mondo, vale a dire "La ragazza di Bube", premio Strega nel 1960 e subito trasposta in chiave cinematografica, dove la "ragazza" prende il volto bello ma accigliato di Claudia Cardinale.
Più che una riscoperta/rilancio dell'autore (che avrebbe richiesto il montaggio di una mostra in chiave più didattica e forse didascalica), l'esposizione propone il tema delle traduzioni dei libri di Cassola in tante lingue europee ed internazionali (giapponese, cinese e vietnamica inclusi), di sicuro pensando ad un pubblico di italiani all'estero; e soprattutto individuando gli istituti italiani di cultura all'estero quali luoghi privilegiati per la circolazione della mostra.
Immagino però che il pubblico giovanile e scolastico italiano, ma anche i lettori quarantenni, che spesso non conoscono Cassola faranno fatica ad orientarsi in questa mostra e a comprendere, sia pure all'ingrosso, la sua biografia intellettuale, piuttosto intricata nel panorama letterario italiano.
Per aiutarsi a leggere la mostra, consiglio chi voglia visitarla (la mostra starà aperta fino al 5 novembre a Montecarlo di Lucca e, ripeto, vale la pena di andarci) di stamparsi e leggersi la lunga scheda di wikipedia, versione italiana, dedicata a Carlo Cassola. Ciò consentirà ai visitatori di avere almeno una traccia biografica ed una cronologia per seguire l'evoluzione narrativa e saggistica dell'autore e apprezzare le chicche documentarie che la mostra contiene.







lunedì 2 ottobre 2017

Finale a sorpresa / Gloria Bardi e Stefano Stacchini (Bandecchi & Vivaldi, 2016)

Il bel libro che assembla le immaginifiche creazioni grafiche di Stefano Stacchini e i racconti di Gloria Bardi spiazza fino dalla sovraccoperta, con un titolo un po' alla Beckett e un'immagine che suggerisce viaggi in mondi possibili, ma non necessariamente reali.
Il depistaggio praticato sia dalla grafica che dalla scrittura contiene però un invito alla lettura pieno di serenità e mi trasmette un'idea di accoglienza. Un'accoglienza calda. Della serie: ti spiazzo ma non per turbarti, bensì per aiutarti a stare meglio. O almeno questa è la sensazione (il messaggio) globale che il volume mi fa arrivare mentro lo sfoglio, lo leggo, lo poso sul tavolo, infine me lo infilo nella borsa e lo porto a casa.
Poi ci sono le singole parti e i dettagli. Qui la cosa si fa più complicata.
I racconti di Gloria Bardi, brevi, spesso fulminanti, ironici e ammiccanti, sono ricchi di temi e situazioni che giocano a svelarsi solo nel finale. A volte perfino con l'ultima parola. L'ultimo nome. Si fanno leggere. Velocemente. Però obbligano a stare attenti, a riflettere. E alla fine, di solito, strappano un sorriso. In questo senso sono racconti accoglienti. Rassicuranti. Solo in alcuni casi (pochi a dire il vero) inquietano. Hanno bisogno di un lettore sveglio (come vispo deve essere l'osservatore delle immagini). Ma non sospettoso. Un lettore che abbia fiducia nel mondo. Che si lasci prendere per mano. Certo, Gloria Bardi pretende una lettura vigile, non distratta, perchè ogni parola è un tassello, una piastrella, un pezzetto di mosaico indispensabile per reggere e comprendere l'intera costruzione (anche quando il racconto è minuscolo). Colpiscono la fantasia e la versatilità che attraversano i testi; e da lettore un po' bambino quale sono, mi piace la trovata che precede il punto finale e svela, spesso rovesciandolo e ancora più spesso chiarendolo, non tanto il senso della storia quanto il vero volto del protagonista.
La narratrice gioca col suo lettore e solo in apparenza gli offre storie semplici. Ma, ripeto, non lo fa per ingannarlo. Semmai per stupirlo e per farlo amorosamente divertire.
Le produzioni visive di Stefano Stacchini si muovono sulla stessa lunghezza d'onda. Ma quelli di Stefano sono oggetti culturali diversi e più difficili da decifrare. Almeno per me. Gioco, ironia, manipolazioni, spiazzamenti, enigmi da risolvere, ok, anche questi ci sono tutti nelle sue creazioni grafiche e mi riportano alla mente i rebus o per meglio dire certi oggetti d'arte che contengono messaggi in codice che se correttamente decifrati potrebbero svelare mondi. Ecco... l'impressione è che ci sia in queste elaborazioni grafiche qualcosa di più che mi sfugge. Forse è un'idea sbagliata. Magari è solo una suggestione che collego all'attività di un artista che conosco da lungo tempo, al quale mi lega un rapporto di amicizia, ma che conserva intatto un suo fascino misterioso. Indecifrabile. Per uno che di arte e di cultura visiva, parlo di me, ne sa poco. Certo, che Stacchini giochi con la città di Finale Ligure e con i luoghi e gli elementi architettonici e paesaggistici di questo comune che lui ritiene più significativi, non ci sono dubbi. Che ci sia una esplicita volontà di manipolare, raccontare e perfino reinventare Finale come nessun altro aveva mai fatto prima, è altrettanto chiaro. Che ci sia perfino il desiderio di creare un legame tra Finale Ligure e Pontedera, questo si percepisce bene, almeno per un osservatore che sia nativo di Pontedera come il sottoscritto e che conosca l'importante lavoro grafico che Stacchini ha dedicato alla sua città natale. Del resto sia Pontedera che Finale da circa un secolo hanno in comune il fatto di aver ospitato (e di avere ancora sul proprio territorio) grandi capannoni industriali edificati dalla Società Piaggio.
Ma a parte questa condivisione di paesaggi industriali, ritrovo nelle immagini elaborate da Stacchini il suo gusto per gli assemblaggi visionari. E ancora uno stile e contenuti che, per quanto ammantati di mistero e densi di simboli un po' esoterici, esercitano su di me un effetto rassicurante, gioioso, gradevole, amichevole.
Ed è esattamente per questo che il volume mi sorprende …....piacevolmente.