martedì 13 maggio 2025

DAVVERO UNA “GRANDE MERAVIGLIA”?

Il romanzo “Grande Meraviglia” di Viola Ardone, uscito nel 2023, che ha riscosso un grande successo di vendite è davvero, come suggerisce il titolo, una “grande meraviglia”?

Per l’impatto sul pubblico, certamente. 

Ma può bastare questo parametro, ovviamente fondamentale e che non intendo certo snobbare, per decretare la comparsa di un grande romanzo?

E se è un grande romanzo perché lo è?

Che sia scritto bene e con arguzia, non lo nego.

Che la lettura delle sue pagine scorra via veloce, pure.

Che le tematiche trattate siano anche serie, vero.

Che i personaggi del romanzo, a cominciare da Elba e da Fausto, funzionino, è sicuro.

Che la narrazione qua e là strappi perfino qualche lacrima, va ammesso.

Insomma che la storia prenda il lettore e soprattutto le lettrici, è una certezza certificabile, di cui la casa editrice Einaudi è ben lieta. Ma in fondo anche i bibliotecari, lo sono. Ci mancherebbe.

Ma allora, che cos’è che non mi convince?

La perfezione della macchina narrativa, direi. Una storia senza sbavature. Spianata. Si, con qualche contraccolpo e un po' di sorprese, ma tutto scontato dall’inizio alla fine. Con un ritmo e un sapore che però non trovo naturale. Direi che è “pastorizzato”. Si tratta insomma di una di quelle storie che definisco storie fumetto (senza offesa per i fumetti, ovviamente), dove tutto si tiene e tutto si chiude positivamente (a parte qualche inevitabile piccolo problema). Anche nelle situazioni tragiche. Dove i personaggi assomigliano ai loro avatar. Non a protagonisti verosimili. Si tratta di storie scritte con personaggi pensati già come attori cinematografici o inseriti in serie televisive; storie popolate da protagonisti costruiti o scelti per piacere al pubblico e per vendere copie. Sia chiaro: non c’è niente di male nei filoni Liala e nello scrivere per piacere al pubblico. L’intrattenimento è un mestiere e forse un’arte di sicuro nobile. E catturare i lettori è un obiettivo "sacro" non solo per gli editori, ma anche per me. Ma oltre che l’intrattenimento di qualità (sul modello dei serial televisivi) alla narrativa, o almeno ad una parte della narrativa, credo si debba chiedere di più. Sarà una mia fissa, ma per me la lettura dovrebbe farci scoprire pezzi di vita e punti di vista che non si conoscono o a cui non si sarebbe pensato, ma secondo una verosimiglianza storica.

E il piccolo Basaglia partenopeo della Ardone mi suona troppo simpatico (perfino nei suoi difetti) e quindi poco credibile. Poco verosimile. Un personaggio dannatamente simile all’avvocato napoletano che di cognome (nei romanzi) fa Malinconico ed è stato inventato dallo scrittore Diego Da Silva. 

E, come direbbe Fausto, non dico bugie e neppure “palle”. Sono solo le mie idee. Forse prese a prestito dalle mie giovanili letture semiologiche di Umberto Eco (quelle di “apocalittici e integrati", per intenderci), ma ormai mie. Ma il fatto è che leggendo l’Ardone avverto una differenza tra narrativa di consumo e letteratura. Due realtà entrambe meritevoli, ma diverse. E per me l’Ardone si colloca nell’ambito della narrativa di consumo.

Sul carattere “fumettistico” di Elba, che trovo particolarmente ovvio, non sento neppure la necessità di spendere troppe parole. Aggiungo solo che  il personaggio mi pare parecchio tecnicamente irrisolto.

Così come trovo un po' pacchiane le ironie costruite sul cognome Meraviglia e altri giochi di parole presenti nella narrazione. Ma so bene che il pacchiano funziona bene e che battute come “Peccerè, la memoria è una cosa molto sopravvalutata” oppure “l’amore è una cosa sopravvalutata” o ancora “non proiettare!” funzionano: in un mondo che guarda al fumetto, certo, e che proprio per questi suoi caratteri stereotipati e ironici alleggerisce e appassiona. 

Insomma si tratta di una narrazione gestita bene. Senza sbavature. Che ha una sua piacevolezza estetica (oltre che una giusta ragione economica che non disprezzo affatto). Ma che genera un rapporto con la realtà che io percepisco come "dissonante".

E per provare a spiegarmi vi suggerirei di leggere qualche pagina dei racconti che Tobino (un conservatore credo antibasagliano convinto e dichiarato in fatto di manicomi e di matti) mette su, con la sua competenza del medico, partendo dalle vicende dei suoi malati di mente e soprattutto delle sue matte. Mi riferisco alle “Libere donne di Magliano” e altri racconti e romanzi che seguiranno su quel filone.

Letteratura anni 50/80 si dirà. Vero.

Più faticosa da leggere delle storie dell’Ardone. Certamente.

Scritta da un occhio e con un cervello leggermente aristocratico e conservatore, ma che sento più vero, autentico, realistico.

Non parlo naturalmente di superiorità dell’uno rispetto all'altra o di graduatorie di merito tra autori e testi, ma di una narrativa quella di Tobino più vera, più autentica, dire più genuina, meno costruita.

Non so se ho ragione, ma questa distanza e questa differenza per me esistono e mentre colloco  Mario Tobino (al di là della posizione cronologica e delle sue idee) in una certa casella della letteratura italiana, inserisco Viola Ardone in un’altra. Forse quest’ultima più leggibile, ma meno densa. Meno significativa. Più artefatta.

Non proiettate!



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