Troppi magistrati uccisi. I criminali aiutati dallo Stato?
La tesi che se si sono uccisi molti giudici in Italia negli ultimi 40 anni è perché i criminali hanno trovato sponde negli apparati statali non si può escludere in via assoluta. È vero che meriterebbe di essere suffragata da dati precisi, ma è anche del tutto evidente che dati incontrovertibili e inoppugnsbili per sostenerla non ne saranno portati. Si tratta insomma di una classica tesi d'opinione che piace tanto all'opinione pubblica anche perché l'assolve dalle proprie pesantissime responsabilità.
Costiuisce infatti uno sport nazionale pensare che se qualcosa non va in questo m paese, il demerito va tutto allo stato e al suo apparato amministrativo. Oppure che è tutta colpa della Casta politica. Così l'italiano medio incolpa lo stato di tutto ciò che non va e un attimo dopo si sente in pace con se stesso, anche se questo italiano medio è un truffatore, non paga le tasse, è un costruttore abusivo e pretende condoni a tutto spiano, non rilascia scontrini e fatture e mente come Pinocchio in ogni occasione.
Ma il sentimento antistatalista è talmente radicato nella nostra popolazione che non solo sta diventando una macchietta, ma ha contagiato anche le menti migliori.
Per quanto mi riguarda però io credo alla tesi esattamente opposta e speculare.
Se abbiamo ammazzato troppi giudici e poliziotti in Italia è perché la nostra società civile ha un alto tasso di criminalità e scarso senso civico.
È stato sopratutto il tasso di criminalità presente nella società civile a fare la differenza e a innalzare il numero dei morti tra magistrati e poliziotti.
Questo non significa che non abbiamo uno Stato poco in grado di difendersi. Lo Stato è debole in certe terre avamposto di questo paese. Ma lo Stato è debole perché la nostra società civile è particolarmenfe permeata dalla violenza criminale che, come dimostra anche il successo del libro Gomorra di Saviano e ora anche degli sceneggiati televisivi trafti da questo libro, funziona bene e appassiona il grande pubblico.
Insomma è nella fragilità della società civile che si annidano i nostri guai. Ma se questo è vero anche la soluzione dei problemi sarà più lenta e difficile. E sarà affidata alla lenta crescita della società civile più che alle capacità salvifiche e taumaturgiche degli apparati statali.
Ormai questo paese è diventato adulto e non può più credere alle favole.
domenica 29 maggio 2016
Perchè vorrei chiamarmi Giovanni e soprattutto essere coraggioso come lui
Ho appena finito di leggere, su consiglio di Manola Franceschini, il libro di Luigi Garlando, "Per questo mi chiamo Giovanni" (Rizzoli, 2005), libro bellissimo e straordinario che consiglio a tutti di leggere. Si tratta non solo di un modo eccellente di raccontare ai ragazzi la vicenda e l'impegno civile, il coraggio e la forza, del giudice Giovanni Falcone, assassinato dalla mafia siciliana. No, il libro è molto di più. È un testo utilissimo di educazione civica. Un libro che mancava in questo paese e ora invece c'è. Un libro che attraverso la biografia di Falcone e della sua lotta senza quartiere contro la mafia aiuta i ragazzi a crescere e a prendere coscienza dei propri diritti e dei propri doveri. Un libro che spiega con parole semplici perché la libertà, come cantava anche Giorgio Gaber, è partecipazione. Ovvero è vedere, sentire e parlare. Tutto il contrario delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano. Un libro che spiega perché raccontare quello che si è visto e che si sa non è fare la spia ma guadagnarsi la propria libertà. Un libro che, sull'esempio dell'impegno del giudice Falcone, ci dice che libertà e coraggio non ce li regalano gli altri e non ce li può garantire neppure lo Stato, ma che solo noi, solo l'impegno di ciascuno di noi, permette alla libertà di esistere e di avere un senso. Insomma è un bel racconto sulla qualità delle persone che sono poi quelle che fanno la qualità di una città e più in generale di un paese. Per questo spero di essere all'altezza, un'altezza impegnativa, del racconto di Garlando. E per questo ringrazio Manola di avere insistito garbatamente perché lo leggessi.
Ho appena finito di leggere, su consiglio di Manola Franceschini, il libro di Luigi Garlando, "Per questo mi chiamo Giovanni" (Rizzoli, 2005), libro bellissimo e straordinario che consiglio a tutti di leggere. Si tratta non solo di un modo eccellente di raccontare ai ragazzi la vicenda e l'impegno civile, il coraggio e la forza, del giudice Giovanni Falcone, assassinato dalla mafia siciliana. No, il libro è molto di più. È un testo utilissimo di educazione civica. Un libro che mancava in questo paese e ora invece c'è. Un libro che attraverso la biografia di Falcone e della sua lotta senza quartiere contro la mafia aiuta i ragazzi a crescere e a prendere coscienza dei propri diritti e dei propri doveri. Un libro che spiega con parole semplici perché la libertà, come cantava anche Giorgio Gaber, è partecipazione. Ovvero è vedere, sentire e parlare. Tutto il contrario delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano. Un libro che spiega perché raccontare quello che si è visto e che si sa non è fare la spia ma guadagnarsi la propria libertà. Un libro che, sull'esempio dell'impegno del giudice Falcone, ci dice che libertà e coraggio non ce li regalano gli altri e non ce li può garantire neppure lo Stato, ma che solo noi, solo l'impegno di ciascuno di noi, permette alla libertà di esistere e di avere un senso. Insomma è un bel racconto sulla qualità delle persone che sono poi quelle che fanno la qualità di una città e più in generale di un paese. Per questo spero di essere all'altezza, un'altezza impegnativa, del racconto di Garlando. E per questo ringrazio Manola di avere insistito garbatamente perché lo leggessi.
sabato 28 maggio 2016
Strepitosa giornata di letture e di premiazione di ragazzi che leggono parecchio oggi pomeriggio a Volterra (28 maggio 2016)
Già bisognava esserci per vedere sepolto il luogo comune che spesso i bambini e i giovani leggono poco. Bastava essere oggi a Volterra e osservare i volti dei bambini e dei ragazzi per rendersi conto che LORO leggono. Di più: molti di loro erano perfino contenti di aver letto i libri e qualcuno perfino di aver fatto la fatica di leggerli. Sì, uno dei ragazzi, emozionato, ha detto: è stata dura aver letto un mucchio di libri, ma sono proprio felice che la nostra classe ne abbia letti tanti. E un altro, con la faccia birichina, ha aggiunto: beh, siamo arrivati solo terzi tra le classi premiate, ma l'hanno prossimo faremo meglio. Leggeremo di più. E tra una premiazione e l'altra il gruppo Montag del Liceo Carducci di Volterra ci ha regalato una lettura breve ma intensa sul coraggio di stare a scuola e di fare scuola. E una bambina straordinaria, Paola Lushnjani, ci ha letto alcune pagine del diario che scrive e che è stato pubblicato col titolo "Sulle tue orme". Ma lo spettacolo più bello resta la marea di ragazzi che amano leggere e che una parte dei loro insegnanti e una striminzita ma motivata pattuglia di bibliotecari acrobati incoraggia a leggere. Sembra tutta retorica, ma non lo è. Bimbi e ragazzi hanno letto come matti. Se non tutti, beh, quasi tutti. E questo è davvero tanto. E l'abbraccio del Teatro Persio Flacco a tanti giovani lettori è stata di sicuro una ciliegina sulla torta.
Tanto per aggiungere due o tre numeri caldi caldi diciamo che tutte le attività di promozione della lettura hanno coinvolto nell'anno scolastico 2015/2016 circa 12.000 studenti nella Provincia di Pisa e che in media molti di loro hanno letto almeno 5 o 6 testi di narrativa a testa. Ho perfino orecchiato una mamma che commentava che non aveva mai visto leggere tanto sua figlia come in questa primavera. Confesso che conoscendo il lavoro che stanno facendo i bibliotecari la cosa non mi meraviglia. E la giornata di Volterra certifica proprio che questo costante impegno della Rete e dei Comuni per incoraggiare i giovani a leggere funziona e offre risultati. Basta vedere la platea gremita e i palchi. Dietro il tavolo la giuria che ha premiato i lettori più forti.
Già bisognava esserci per vedere sepolto il luogo comune che spesso i bambini e i giovani leggono poco. Bastava essere oggi a Volterra e osservare i volti dei bambini e dei ragazzi per rendersi conto che LORO leggono. Di più: molti di loro erano perfino contenti di aver letto i libri e qualcuno perfino di aver fatto la fatica di leggerli. Sì, uno dei ragazzi, emozionato, ha detto: è stata dura aver letto un mucchio di libri, ma sono proprio felice che la nostra classe ne abbia letti tanti. E un altro, con la faccia birichina, ha aggiunto: beh, siamo arrivati solo terzi tra le classi premiate, ma l'hanno prossimo faremo meglio. Leggeremo di più. E tra una premiazione e l'altra il gruppo Montag del Liceo Carducci di Volterra ci ha regalato una lettura breve ma intensa sul coraggio di stare a scuola e di fare scuola. E una bambina straordinaria, Paola Lushnjani, ci ha letto alcune pagine del diario che scrive e che è stato pubblicato col titolo "Sulle tue orme". Ma lo spettacolo più bello resta la marea di ragazzi che amano leggere e che una parte dei loro insegnanti e una striminzita ma motivata pattuglia di bibliotecari acrobati incoraggia a leggere. Sembra tutta retorica, ma non lo è. Bimbi e ragazzi hanno letto come matti. Se non tutti, beh, quasi tutti. E questo è davvero tanto. E l'abbraccio del Teatro Persio Flacco a tanti giovani lettori è stata di sicuro una ciliegina sulla torta.
Tanto per aggiungere due o tre numeri caldi caldi diciamo che tutte le attività di promozione della lettura hanno coinvolto nell'anno scolastico 2015/2016 circa 12.000 studenti nella Provincia di Pisa e che in media molti di loro hanno letto almeno 5 o 6 testi di narrativa a testa. Ho perfino orecchiato una mamma che commentava che non aveva mai visto leggere tanto sua figlia come in questa primavera. Confesso che conoscendo il lavoro che stanno facendo i bibliotecari la cosa non mi meraviglia. E la giornata di Volterra certifica proprio che questo costante impegno della Rete e dei Comuni per incoraggiare i giovani a leggere funziona e offre risultati. Basta vedere la platea gremita e i palchi. Dietro il tavolo la giuria che ha premiato i lettori più forti.
giovedì 26 maggio 2016
Fabio GEDA, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari (Baldini & Castoldi), 2010
Ci sono libri che ti chiamano. E lo dico pensando di non essermi bevuto il cervello. Il racconto di Enaiatollah Akbari, raccolto e trascritto da Fabio Geda, intitolato "Nel mare ci sono i coccodrilli" (Baldini & Castoldi 2010), è uno di questi. Un libro che vuole che tu lo legga e che ti inchioda alle sue pagine e pretende che tu pianga sulle vicende di Enaiatollah. Perchè non si può fare altro che comprendere l'immenso dolore che porta con sé la vicenda di questo bambino/ragazzo e imparare. Se tutto quello che si legge a scuola non diventasse ipso facto una pizza, proporrei di aggiungere i coccodrilli di Enaiatollah alle letture obbligatorie. Magari insieme a "La Notte" di Elie Wiesel. La vicenda che ci racconta è la fuga di un bambino/ragazzino di etnia hazera dall'orrore e dalla morte certa che l'aspetta in Afghanistan verso la libertà. Una libertà che alla fine trova casa in Italia. Una fuga però che dura 7 o 8 anni, durante i quali Enaia diventa adulto. Sembra la storia di Marco Polo solo nella direzione opposta e senza il fascino dell'Oriente e della Cina. Le descrizioni di quel viaggio, del lavoro, delle fatiche, del dolore, dalla morte, della miseria sono impressionanti e commoventi. Ma il tono delle scrittura è lieve per i contenuti che tratta e a volte perfino ironico. Il libro viene proposto come lettura per i ragazzi delle medie, ma credo sia perfetto per tutti. Adulti compresi. Perchè quella che ha raccolto e confezionato Geda è una specie di moderna odissea. Un'odissea che però non affonda le sue radici nel mito ma, purtroppo, nella tragica realtà quotidiana. Un'odissea che fornisce una voce, un nome e una storia ai mille volti dei disperati che si muovono come formiche sui nostri schermi e le cui facce riempiono le prime pagine dei giornali. Un'odissea piena di dettagli sulla stupidità e la cattiveria degli uomini e al contempo sulla loro immensa forza d'animo e sul loro infinito coraggio. Un testo che possiamo leggere ed usare come vaccino per arginare le brutture del mondo e i nostri numerosi personali difetti.
Ci sono libri che ti chiamano. E lo dico pensando di non essermi bevuto il cervello. Il racconto di Enaiatollah Akbari, raccolto e trascritto da Fabio Geda, intitolato "Nel mare ci sono i coccodrilli" (Baldini & Castoldi 2010), è uno di questi. Un libro che vuole che tu lo legga e che ti inchioda alle sue pagine e pretende che tu pianga sulle vicende di Enaiatollah. Perchè non si può fare altro che comprendere l'immenso dolore che porta con sé la vicenda di questo bambino/ragazzo e imparare. Se tutto quello che si legge a scuola non diventasse ipso facto una pizza, proporrei di aggiungere i coccodrilli di Enaiatollah alle letture obbligatorie. Magari insieme a "La Notte" di Elie Wiesel. La vicenda che ci racconta è la fuga di un bambino/ragazzino di etnia hazera dall'orrore e dalla morte certa che l'aspetta in Afghanistan verso la libertà. Una libertà che alla fine trova casa in Italia. Una fuga però che dura 7 o 8 anni, durante i quali Enaia diventa adulto. Sembra la storia di Marco Polo solo nella direzione opposta e senza il fascino dell'Oriente e della Cina. Le descrizioni di quel viaggio, del lavoro, delle fatiche, del dolore, dalla morte, della miseria sono impressionanti e commoventi. Ma il tono delle scrittura è lieve per i contenuti che tratta e a volte perfino ironico. Il libro viene proposto come lettura per i ragazzi delle medie, ma credo sia perfetto per tutti. Adulti compresi. Perchè quella che ha raccolto e confezionato Geda è una specie di moderna odissea. Un'odissea che però non affonda le sue radici nel mito ma, purtroppo, nella tragica realtà quotidiana. Un'odissea che fornisce una voce, un nome e una storia ai mille volti dei disperati che si muovono come formiche sui nostri schermi e le cui facce riempiono le prime pagine dei giornali. Un'odissea piena di dettagli sulla stupidità e la cattiveria degli uomini e al contempo sulla loro immensa forza d'animo e sul loro infinito coraggio. Un testo che possiamo leggere ed usare come vaccino per arginare le brutture del mondo e i nostri numerosi personali difetti.
mercoledì 25 maggio 2016
SIAMO TUTTI INTELLETTUALI
Grosso modo, dalla rivoluzione francese in poi, si forma in Europa e negli Usa una specie di relazione tra idee generali (dottrina o qualcosa di simile), intellettuali che ne discutono per influenzare qualcosa che vagamente potremmo definire "opinione pubblica" in cui poi i partiti politici pescano il consenso per gestire il potere politico. Bene dagli anni '80 in poi del '900 la rivoluzione neoliberale e la globalizzazione hanno spappolato le idee generali, gli intellettuali si sono trovati immersi in un mondo che più che liquido definirei gassoso, l'opinione pubblica ha dovuto smettere di sognare e ha dovuto riprendere a fare i conti con gli affanni di tutti i giorni che si sono moltiplicati e la politica ha dovuto e deve galleggiare su tutto questo popo' di ginepraio. I beni comuni e l'interesse generale esistono sempre e se he parla tutti i giorni, ma il modo come possono essere declinati e usati non cambia più la vita a nessuno di noi. Almeno, non in maniera significativa. Inoltre gli intellettuali hanno subito una trasformazione tecnologica come è accaduto ai fotografi e ai giornalisti. Ormai tutti scattano milioni di foto e tutti scrivono su giornali di carta e soprattutto elettronici. Che cos'è facebook se non un grande datzebao tecnomaoista su cui tutti possono sparare le loro bischerate senza che questo abbia una chiara influenza sulle dinamiche del consenso e quindi del potere? Questo fa si che tutti siano potenzialmente intellettuali, ma fa anche si che ciascuno conti intellettualmente parlando sempre meno. È in questa specie di labirinto che ci troviamo. E non ne usciremo tanto facilmente.
Grosso modo, dalla rivoluzione francese in poi, si forma in Europa e negli Usa una specie di relazione tra idee generali (dottrina o qualcosa di simile), intellettuali che ne discutono per influenzare qualcosa che vagamente potremmo definire "opinione pubblica" in cui poi i partiti politici pescano il consenso per gestire il potere politico. Bene dagli anni '80 in poi del '900 la rivoluzione neoliberale e la globalizzazione hanno spappolato le idee generali, gli intellettuali si sono trovati immersi in un mondo che più che liquido definirei gassoso, l'opinione pubblica ha dovuto smettere di sognare e ha dovuto riprendere a fare i conti con gli affanni di tutti i giorni che si sono moltiplicati e la politica ha dovuto e deve galleggiare su tutto questo popo' di ginepraio. I beni comuni e l'interesse generale esistono sempre e se he parla tutti i giorni, ma il modo come possono essere declinati e usati non cambia più la vita a nessuno di noi. Almeno, non in maniera significativa. Inoltre gli intellettuali hanno subito una trasformazione tecnologica come è accaduto ai fotografi e ai giornalisti. Ormai tutti scattano milioni di foto e tutti scrivono su giornali di carta e soprattutto elettronici. Che cos'è facebook se non un grande datzebao tecnomaoista su cui tutti possono sparare le loro bischerate senza che questo abbia una chiara influenza sulle dinamiche del consenso e quindi del potere? Questo fa si che tutti siano potenzialmente intellettuali, ma fa anche si che ciascuno conti intellettualmente parlando sempre meno. È in questa specie di labirinto che ci troviamo. E non ne usciremo tanto facilmente.
lunedì 23 maggio 2016
Romano Luperini presenta "La rancura" al cinema Agorà a Pontedera
Mi contraddico. Avevo promesso di non segnalare un libro e un autore che non avessi letto personalmente. Invece dico che mercoledi 25 maggio alle ore 17,45 al Cinema Agorà/Sala Carpi in via Valtriani sarà presentato l'ultimo romanzo fortemente autobiografico di Romano Luperini: "La rancura". La presenza di Romano Luperini in città è un evento culturale importante che mi auguro possa incontrare un successo di pubblico e di ascolti. Insomma si tratta di un evento che non potevo non segnalare. Letto o meno che avessi il libro (e ad oggi l'ho solo sfogliato).
Romano Luperini è cresciuto culturalmente in Pontedera almeno fino verso i venti anni. Meta anni '60. E il' figlio di un maestro elementare di fede socialista riformista, Gino Luperini, che, a sua volta, è stato un personaggio noto in città e in alcune aree della Jugoslavia, dove Gino partecipò per un anno e mezzo alla guerra partigiana contro i nazisti e alla liberazione di quel paese.
Romano ha attraversato da intellettuale impegnato il sessantotto, militando in formazioni della sinistra extraparlamentare. Ha stretto una forte amicizia con Franco Fortini ed è stato docente universitario di materie letterarie all'Università di Siena. Ha scritto e pubblicato molto su alcuni temi e autori della letteratura italiana (dell'800 e del '900 in particolare). Verga resta, per quanto ne so io, uno dei suoi cavalli di battaglia. E' autore di manuali scolastici per le superiori e nell'ultima parte del suo percorso culturale ha scritto (e probabilmente continuerà a scrivere) anche romanzi.
Bene ha fatto l'AICC ad organizzare quindi la presentazione a Pontedera della "Rancura" e bene faranno coloro che troveranno il tempo per andarlo ad ascoltare e per leggere il libro e rifletterci sopra.
Nei giorni scorsi mi è capitato di parlare di Romano e del suo libro con due noti personaggi politici pontaderesi. Entrambi buoni lettori, entrambi ex comunisti, entrambi reduci da cariche importanti nell'amministrazione pubblica e nella politica locale (e oggi entrambi iscritti al pd), mi hanno detto, senza che la cosa in vero mi sorprendesse, di aver letto "La rancura" di Romano Luperini e di aver apprezzato il testo. Soprattutto per la qualità della scrittura e anche per i contenuti. La riscoperta del padre. Pare. Purtroppo non posso entrare nel merito della cosa, nè valutare la portata dei loro giudizi, di cui, però, sostanzialmente, mi fido. Che Romano Luperini scriva bene è largamente noto e sul fatto che valga la pena di leggerlo non nutro dubbi.
Mi contraddico. Avevo promesso di non segnalare un libro e un autore che non avessi letto personalmente. Invece dico che mercoledi 25 maggio alle ore 17,45 al Cinema Agorà/Sala Carpi in via Valtriani sarà presentato l'ultimo romanzo fortemente autobiografico di Romano Luperini: "La rancura". La presenza di Romano Luperini in città è un evento culturale importante che mi auguro possa incontrare un successo di pubblico e di ascolti. Insomma si tratta di un evento che non potevo non segnalare. Letto o meno che avessi il libro (e ad oggi l'ho solo sfogliato).
Romano Luperini è cresciuto culturalmente in Pontedera almeno fino verso i venti anni. Meta anni '60. E il' figlio di un maestro elementare di fede socialista riformista, Gino Luperini, che, a sua volta, è stato un personaggio noto in città e in alcune aree della Jugoslavia, dove Gino partecipò per un anno e mezzo alla guerra partigiana contro i nazisti e alla liberazione di quel paese.
Romano ha attraversato da intellettuale impegnato il sessantotto, militando in formazioni della sinistra extraparlamentare. Ha stretto una forte amicizia con Franco Fortini ed è stato docente universitario di materie letterarie all'Università di Siena. Ha scritto e pubblicato molto su alcuni temi e autori della letteratura italiana (dell'800 e del '900 in particolare). Verga resta, per quanto ne so io, uno dei suoi cavalli di battaglia. E' autore di manuali scolastici per le superiori e nell'ultima parte del suo percorso culturale ha scritto (e probabilmente continuerà a scrivere) anche romanzi.
Bene ha fatto l'AICC ad organizzare quindi la presentazione a Pontedera della "Rancura" e bene faranno coloro che troveranno il tempo per andarlo ad ascoltare e per leggere il libro e rifletterci sopra.
Nei giorni scorsi mi è capitato di parlare di Romano e del suo libro con due noti personaggi politici pontaderesi. Entrambi buoni lettori, entrambi ex comunisti, entrambi reduci da cariche importanti nell'amministrazione pubblica e nella politica locale (e oggi entrambi iscritti al pd), mi hanno detto, senza che la cosa in vero mi sorprendesse, di aver letto "La rancura" di Romano Luperini e di aver apprezzato il testo. Soprattutto per la qualità della scrittura e anche per i contenuti. La riscoperta del padre. Pare. Purtroppo non posso entrare nel merito della cosa, nè valutare la portata dei loro giudizi, di cui, però, sostanzialmente, mi fido. Che Romano Luperini scriva bene è largamente noto e sul fatto che valga la pena di leggerlo non nutro dubbi.
domenica 22 maggio 2016
LA POLITICA LOCALE NON E' MORTA, HA SOLO CAMBIATO PELLE
Se uno incontra per caso sul corso l’ex sindaco ed ex onorevole Giacomo Maccheroni e si ferma a fare due chiacchiere con lui, una delle lamentazioni che ascolterà dalla sua voce a tratti ancora tonante è che la politica ha perso la bussola e la testa. Un argomento analogo è stato riproposto qualche mese fa sulla stampa locale da un altro personaggio illustre, anche lui ex sindaco della nostra ridente cittadina, il quale si è lagnato dell'assenza del dibattito politico nella vita pubblica locale e dell'assenza della politica in generale. Che dire? Per non smentire la mia fama di bastian contrario, sosterrò che la politica non ha perso nè la bussola, nè la testa, nè tanto meno è scomparsa dalla vita pubblica locale. Ha solo cambiato pelle ed è diventata più complicata da decifrarsi perché il conflitto sociale e quello tra le élite che lo cavalcano si è fatto più complicato, più tecnico e soprattutto più opaco. La politica locale si intreccia in forme diverse rispetto a quelle novecentesche con l'andamento dell'amministrazione locale. Ad essere scomparsi, e da un pezzo, sono i partiti nella forma che si era affermata negli anni del dopoguerra, sostanzialmente fino agli anni '80. Dopo di allora i partiti sono diventati leggeri, liquidi, opachi, non più vincolati ad un dottrina politica chiara, nè ad un corpus culturale sufficientemente uniforme, nè ad un blocco sociale facilmente descrivibile, nè a una tradizione politica radicata nella storia. Gli iscritti si sono ridotti di numero e quindi sono diventati sempre più importanti gli elettori e la comunicazione disintermediata (il marketing). Il controllo sui pochi iscritti e sui simboli politici si è ristretto a pochissime persone, che spesso costruiscono molteplici reti di relazioni e di potere (magari collegate con le raccolte fondi per le loro campagne elettorali) al di fuori dello stesso partito a cui sono iscritti e che cercano di controllare per fini spesso molto soggettivi. Su scala locale il fenomeno è abbastanza vistoso, ovviamente per chi segua le cose. La stessa stampa locale, cartacea ed elettronica, è coinvolta in questo ginepraio e quindi non aiuta a capire una mazza. La fine della militanza, la fine di qualunque vita di sezione, la fine di una vera discussione interna alle sezioni e anche alle direzioni e alle segreterie, ha trasferito il potere politico locale nelle stanze dei palazzi comunali dove i sindaci sono diventati almeno per gli anni del loro mandato amministrativo, in maniera ufficiosa ma sostanziale (per quanto non codificata) anche "segretari di fatto" del partito politico che esprime la maggioranza amministrativa. Questo mortifica e avvelena ulteriormente il dibattito politico locale, trasformandolo o in fiancheggiamento amministrativo o in attacco aperto all'amministrazione in carica. E soprattutto inibisce una discussione che abbia un minimo di orizzonte che vada oltre il destino del sindaco pro tempore e che abbia la possibilità di ragionare sugli interessi locali a prescindere dalle sorti del sindaco in carica. A rafforzare tutto questo gran caos c'è il fatto che spesso le opposizioni esistono solo dentro le amministrazioni locali (nei consigli comunali), ma non hanno alcuna vita politica autonoma, nemmeno sussurrata. E a peggiorare questo andazzo c'è che alcuni sindaci hanno a volte una visione padronale sia dell'amministrazione che del partito di riferimento e legano in maniera impropria (e per diversi anni) questa visione coi loro interessi personali (magari per garantirsi un futuro dopo la loro uscita dalla carica, non avendo un mestiere a cui tornare). Ma una simile ingarbugliatissima situazione non rappresenta affatto la morte della politica (bensì solo quella della politica partecipata e trasparente), nè è incompatibile con buone scelte amministrative. Costituisce una riduzione a forme elitarie o un po' oligarchiche di una tardademocrazia che in sede locale vede quasi azzerato il livello di partecipazione alle scelte. Di solito questo fenomeno si accompagna con un certo sfrangiamento della cultura politica, con la tecnica che prende il sopravvento e con un dibattito pubblico faticoso, molto fazioso e spesso poco comprensibile. Quindi riemergono con ancora più forza i localismi, i voti dei quartieri, delle frazioni, delle aree con piccole identità che possono fornire voti in cambio di piccoli vantaggi. Ma esiste una ricetta per guarire da questo andazzo? Il mio amico Antonio dice di no. Io spero che sì sbagli. Ma devo aggiungere che purtroppo non conosco il rimedio, se non il ritorno ad una improbabile partecipazione pubblica. Mi dispiace.
Se uno incontra per caso sul corso l’ex sindaco ed ex onorevole Giacomo Maccheroni e si ferma a fare due chiacchiere con lui, una delle lamentazioni che ascolterà dalla sua voce a tratti ancora tonante è che la politica ha perso la bussola e la testa. Un argomento analogo è stato riproposto qualche mese fa sulla stampa locale da un altro personaggio illustre, anche lui ex sindaco della nostra ridente cittadina, il quale si è lagnato dell'assenza del dibattito politico nella vita pubblica locale e dell'assenza della politica in generale. Che dire? Per non smentire la mia fama di bastian contrario, sosterrò che la politica non ha perso nè la bussola, nè la testa, nè tanto meno è scomparsa dalla vita pubblica locale. Ha solo cambiato pelle ed è diventata più complicata da decifrarsi perché il conflitto sociale e quello tra le élite che lo cavalcano si è fatto più complicato, più tecnico e soprattutto più opaco. La politica locale si intreccia in forme diverse rispetto a quelle novecentesche con l'andamento dell'amministrazione locale. Ad essere scomparsi, e da un pezzo, sono i partiti nella forma che si era affermata negli anni del dopoguerra, sostanzialmente fino agli anni '80. Dopo di allora i partiti sono diventati leggeri, liquidi, opachi, non più vincolati ad un dottrina politica chiara, nè ad un corpus culturale sufficientemente uniforme, nè ad un blocco sociale facilmente descrivibile, nè a una tradizione politica radicata nella storia. Gli iscritti si sono ridotti di numero e quindi sono diventati sempre più importanti gli elettori e la comunicazione disintermediata (il marketing). Il controllo sui pochi iscritti e sui simboli politici si è ristretto a pochissime persone, che spesso costruiscono molteplici reti di relazioni e di potere (magari collegate con le raccolte fondi per le loro campagne elettorali) al di fuori dello stesso partito a cui sono iscritti e che cercano di controllare per fini spesso molto soggettivi. Su scala locale il fenomeno è abbastanza vistoso, ovviamente per chi segua le cose. La stessa stampa locale, cartacea ed elettronica, è coinvolta in questo ginepraio e quindi non aiuta a capire una mazza. La fine della militanza, la fine di qualunque vita di sezione, la fine di una vera discussione interna alle sezioni e anche alle direzioni e alle segreterie, ha trasferito il potere politico locale nelle stanze dei palazzi comunali dove i sindaci sono diventati almeno per gli anni del loro mandato amministrativo, in maniera ufficiosa ma sostanziale (per quanto non codificata) anche "segretari di fatto" del partito politico che esprime la maggioranza amministrativa. Questo mortifica e avvelena ulteriormente il dibattito politico locale, trasformandolo o in fiancheggiamento amministrativo o in attacco aperto all'amministrazione in carica. E soprattutto inibisce una discussione che abbia un minimo di orizzonte che vada oltre il destino del sindaco pro tempore e che abbia la possibilità di ragionare sugli interessi locali a prescindere dalle sorti del sindaco in carica. A rafforzare tutto questo gran caos c'è il fatto che spesso le opposizioni esistono solo dentro le amministrazioni locali (nei consigli comunali), ma non hanno alcuna vita politica autonoma, nemmeno sussurrata. E a peggiorare questo andazzo c'è che alcuni sindaci hanno a volte una visione padronale sia dell'amministrazione che del partito di riferimento e legano in maniera impropria (e per diversi anni) questa visione coi loro interessi personali (magari per garantirsi un futuro dopo la loro uscita dalla carica, non avendo un mestiere a cui tornare). Ma una simile ingarbugliatissima situazione non rappresenta affatto la morte della politica (bensì solo quella della politica partecipata e trasparente), nè è incompatibile con buone scelte amministrative. Costituisce una riduzione a forme elitarie o un po' oligarchiche di una tardademocrazia che in sede locale vede quasi azzerato il livello di partecipazione alle scelte. Di solito questo fenomeno si accompagna con un certo sfrangiamento della cultura politica, con la tecnica che prende il sopravvento e con un dibattito pubblico faticoso, molto fazioso e spesso poco comprensibile. Quindi riemergono con ancora più forza i localismi, i voti dei quartieri, delle frazioni, delle aree con piccole identità che possono fornire voti in cambio di piccoli vantaggi. Ma esiste una ricetta per guarire da questo andazzo? Il mio amico Antonio dice di no. Io spero che sì sbagli. Ma devo aggiungere che purtroppo non conosco il rimedio, se non il ritorno ad una improbabile partecipazione pubblica. Mi dispiace.
Pannella e i tanti italiani che non si rendono conto
La morte rende tutti migliori e fa versare lacrime di coccodrillo a chi resta e scrivere cose stravaganti alla categoria dei dissennatori di professione.
Certo, Marco ha contribuito ad allargare l'orizzonte delle libertà individuali. E per farlo l'uomo dalle 3 elle (liberale, liberista e libertario) ha combattuto contro tre istituzioni in particolare: i partiti, lo stato e la chiesa.
Tutto legittimo, ma non originale nè molto innovativo. Almeno non da queste parti. È dall'unità d'italia che la maggior parte degli italiani odia lo stato (e se può lo frega, magari mentendo e non pagando le tasse e allo stesso tempo cercando di prendere dallo stato più di quello a cui avrebbe diritto).
È sempre dal 1860 che il grosso degli italioti odia i partiti politici. È un'usanza antica anche questa. Roma è ladrona da prima che i bersaglieri entrassero a Porta Pia.
La partitocrazia, antesignana della "casta", era già usata come concetto spregiativo prima della grande guerra, la prima. Contro la partitocrazia si era scagliato anche il fascismo, che, molto più spicciativo, aveva abolito tutti i partiti, tranne quello fascista. Per fortuna a Marco la cosa non era riuscita.
Grillo e i suoi dell'odio antipartiti e antistato e quindi del confuso libertarismo pannelliano sono eredi indiretti e anche se le colpe dei figli non ricadono sui padri, le bischerate dei padri qualcuno può riuscire a realizzarle meglio dei padri e qualcun altro a pagarle.
Soprattutto se i padri coltivano idee profondamente radicate nella società civile di un paese.
Quanto all'antipatia verso la Chiesa, di questo sentimento col passare del tempo non era rimasto quasi più nulla. Così anche Marco era andato ad allargare le fila di quel partito informale di atei devoti e dialoganti con santa madre chiesa che rappresenta un'altra delle caratteristiche di fondo e di lunga durata di questo ameno paese.
Ma non c'è dubbio che la sua spasmodica e parecchio narcisistica esaltazione dell'io (e dell'ego) ha contribuito a frantumare quell'etica del noi che era uscita invece rafforzata invece dalla resistenza e dalla lotta politica antifascita e che avevano dato vita ad una costituzione e una democrazia che avevano ed hanno il loro perno proprio nei partiti, nello stato e in un rapporto concordato con la chiesa.
Certo la tarda democrazia moderna deve saper conciliare le libertà desideranti dell'io con le virtù collettive che si incarnano nel noi.
Ma non è pensabile che le virtù del noi si incarnino nel rapporto diretto tra tante singole individualità e il narcisismo politico dei leader; in uno stato troppo sottile e ridotto al lumicino, nè in una Chiesa infinitamente misericordiosa, tanto da non saper più predicare le altre virtù e quelle della temperanza in particolare.
Del resto che a suon di battere su antipartitismo e antistatalismo il Marco nazionale non abbia costruito molto è chiaro a tutti.. La storia del partito radicale e degli uomini e delle donne che lo hanno animato stanno li a ricordarcelo. Almeno a chi vuole ricordare e riflettere. Perché quello di riflettere sulla propria storia politica e di farlo in maniera critica e seria è un'altra usanza che non ha mai attecchito da noi, travolta e spesso sostituita dalle capacità affabulatorie dell'istrione e imbonitore di turno, di cui anche il nostro, sia pure con successi via via decrescenti, è stato un discreto campione.
La morte rende tutti migliori e fa versare lacrime di coccodrillo a chi resta e scrivere cose stravaganti alla categoria dei dissennatori di professione.
Certo, Marco ha contribuito ad allargare l'orizzonte delle libertà individuali. E per farlo l'uomo dalle 3 elle (liberale, liberista e libertario) ha combattuto contro tre istituzioni in particolare: i partiti, lo stato e la chiesa.
Tutto legittimo, ma non originale nè molto innovativo. Almeno non da queste parti. È dall'unità d'italia che la maggior parte degli italiani odia lo stato (e se può lo frega, magari mentendo e non pagando le tasse e allo stesso tempo cercando di prendere dallo stato più di quello a cui avrebbe diritto).
È sempre dal 1860 che il grosso degli italioti odia i partiti politici. È un'usanza antica anche questa. Roma è ladrona da prima che i bersaglieri entrassero a Porta Pia.
La partitocrazia, antesignana della "casta", era già usata come concetto spregiativo prima della grande guerra, la prima. Contro la partitocrazia si era scagliato anche il fascismo, che, molto più spicciativo, aveva abolito tutti i partiti, tranne quello fascista. Per fortuna a Marco la cosa non era riuscita.
Grillo e i suoi dell'odio antipartiti e antistato e quindi del confuso libertarismo pannelliano sono eredi indiretti e anche se le colpe dei figli non ricadono sui padri, le bischerate dei padri qualcuno può riuscire a realizzarle meglio dei padri e qualcun altro a pagarle.
Soprattutto se i padri coltivano idee profondamente radicate nella società civile di un paese.
Quanto all'antipatia verso la Chiesa, di questo sentimento col passare del tempo non era rimasto quasi più nulla. Così anche Marco era andato ad allargare le fila di quel partito informale di atei devoti e dialoganti con santa madre chiesa che rappresenta un'altra delle caratteristiche di fondo e di lunga durata di questo ameno paese.
Ma non c'è dubbio che la sua spasmodica e parecchio narcisistica esaltazione dell'io (e dell'ego) ha contribuito a frantumare quell'etica del noi che era uscita invece rafforzata invece dalla resistenza e dalla lotta politica antifascita e che avevano dato vita ad una costituzione e una democrazia che avevano ed hanno il loro perno proprio nei partiti, nello stato e in un rapporto concordato con la chiesa.
Certo la tarda democrazia moderna deve saper conciliare le libertà desideranti dell'io con le virtù collettive che si incarnano nel noi.
Ma non è pensabile che le virtù del noi si incarnino nel rapporto diretto tra tante singole individualità e il narcisismo politico dei leader; in uno stato troppo sottile e ridotto al lumicino, nè in una Chiesa infinitamente misericordiosa, tanto da non saper più predicare le altre virtù e quelle della temperanza in particolare.
Del resto che a suon di battere su antipartitismo e antistatalismo il Marco nazionale non abbia costruito molto è chiaro a tutti.. La storia del partito radicale e degli uomini e delle donne che lo hanno animato stanno li a ricordarcelo. Almeno a chi vuole ricordare e riflettere. Perché quello di riflettere sulla propria storia politica e di farlo in maniera critica e seria è un'altra usanza che non ha mai attecchito da noi, travolta e spesso sostituita dalle capacità affabulatorie dell'istrione e imbonitore di turno, di cui anche il nostro, sia pure con successi via via decrescenti, è stato un discreto campione.
domenica 8 maggio 2016
Bella presentazione a Palaia del libro di Roberto Boldrini sul rapporto tra Marti e il capoluogo ad inizio '900
I libri servono eccome per parlare di politica e di cultura, anche quando trattano di argomenti di cento anni fa. Così in una sala consiliare gremita e attenta, il sindaco di Palaia e la prof. Simonetta Soldani (Università di Firenze) hanno presentato e commentato stamani il testo che Boldrini ha faticosamente dedicato alle vicende politiche amministrative che hanno legato Marti (la frazione) e Palaia (il capoluogo) ad inizio novecento. Così ecco uscire fuori dalle pagine del libro il governo e la logica amministrativa della borghesia agraria toscana, che trovava nei rapporti mezzadrili il suo perno. Ecco le figure intermedie, la borghesia delle professioni, con personalità come quella del medico Gregorio Soldani; ecco i cattolici, i socialisti e molti altri. Ecco le vicende di due borghi rurali della Toscana sospesi tra Pisa e Firenze con i loro affanni, le loro piccinerie, ma anche le grandezze e le speranze. È una storia di provincia quella che ci racconta Boldrini, ma ricca e vivace, per chi è curioso di sapere e di capire e dunque per chi avrà la voglia e la forza di leggere le 150 pagine fitte che Boldrini ha scritto con pazienza certosina. Che il pubblico gliene renda merito.
Ma tra le diverse osservazioni che sono venute dal pubblico, ne riprendo una che ha proposto l'ex sindaco di Pontedera ed ex deputato alla Camera, il socialista Giacomo Maccheroni. Quella della trasmissione della memoria. Senza un lavoro svolto insieme dalle scuole e dalle amministrazioni locali, la memoria civile inevitabilmente si perde. Libri come quelli di Boldrini possono invece servire non solo a consevarla, ma anche ad arricchirla. A patto però che si costruisca una vera strategia di comunicazione e che si mettano in piedi buone relazioni tra scuola, amministrazione, famiglie, ragazzi. Solo in questo modo infatti questa storia densa, complessa, formicolante, arriverà ragazzi e forse loro ci rifletteranno sopra e si sentiranno parte di una lunga vicenda.
Ma comunque vada a finire, onore a Roberto Boldrini che ha tolto dall'oblio molti martigiani e tanti palaiesi destinati altrimenti a rimanere sconosciuti e che invece da oggi vivono nelle belle pagine di Boldrini, che si leggono bene anche sui tablet e sugli ereader e che possono viaggiare veloci nel mondo del web e perfino atterrare, veri colpi di fortuna, sui telefonini dei ragazzi.
I libri servono eccome per parlare di politica e di cultura, anche quando trattano di argomenti di cento anni fa. Così in una sala consiliare gremita e attenta, il sindaco di Palaia e la prof. Simonetta Soldani (Università di Firenze) hanno presentato e commentato stamani il testo che Boldrini ha faticosamente dedicato alle vicende politiche amministrative che hanno legato Marti (la frazione) e Palaia (il capoluogo) ad inizio novecento. Così ecco uscire fuori dalle pagine del libro il governo e la logica amministrativa della borghesia agraria toscana, che trovava nei rapporti mezzadrili il suo perno. Ecco le figure intermedie, la borghesia delle professioni, con personalità come quella del medico Gregorio Soldani; ecco i cattolici, i socialisti e molti altri. Ecco le vicende di due borghi rurali della Toscana sospesi tra Pisa e Firenze con i loro affanni, le loro piccinerie, ma anche le grandezze e le speranze. È una storia di provincia quella che ci racconta Boldrini, ma ricca e vivace, per chi è curioso di sapere e di capire e dunque per chi avrà la voglia e la forza di leggere le 150 pagine fitte che Boldrini ha scritto con pazienza certosina. Che il pubblico gliene renda merito.
Ma tra le diverse osservazioni che sono venute dal pubblico, ne riprendo una che ha proposto l'ex sindaco di Pontedera ed ex deputato alla Camera, il socialista Giacomo Maccheroni. Quella della trasmissione della memoria. Senza un lavoro svolto insieme dalle scuole e dalle amministrazioni locali, la memoria civile inevitabilmente si perde. Libri come quelli di Boldrini possono invece servire non solo a consevarla, ma anche ad arricchirla. A patto però che si costruisca una vera strategia di comunicazione e che si mettano in piedi buone relazioni tra scuola, amministrazione, famiglie, ragazzi. Solo in questo modo infatti questa storia densa, complessa, formicolante, arriverà ragazzi e forse loro ci rifletteranno sopra e si sentiranno parte di una lunga vicenda.
Ma comunque vada a finire, onore a Roberto Boldrini che ha tolto dall'oblio molti martigiani e tanti palaiesi destinati altrimenti a rimanere sconosciuti e che invece da oggi vivono nelle belle pagine di Boldrini, che si leggono bene anche sui tablet e sugli ereader e che possono viaggiare veloci nel mondo del web e perfino atterrare, veri colpi di fortuna, sui telefonini dei ragazzi.
giovedì 5 maggio 2016
20 MAGGIO RACCOLTA STRAORDINARIA DI FIRME A PISA PER TENERE APERTA LA BIBLIOTECA PROVINCIALE
Carissimi
voi tutti sapete delle difficoltà della Biblioteca Provinciale di Pisa e della petizione che la nostra Rete Bibliolandia ha lanciato con l'obiettivo di non farla chiudere!".
La mobilitazione è stata forte in provincia ed oltre e ad oggi sono state raccolte circa 3.000 (TREMILA) firme di cittadine e cittadini che riconoscono alla Biblioteca Provinciale di Pisa una significativa rilevanza culturale che la
rende unica e irrinunciabile: un patrimonio importante, specializzato nelle scienze sociali e giuridico-economiche e un'emeroteca facilmente fruibile, la più vasta della costa toscana.
Alla petizione hanno aderito importanti personalità della cultura tra cui l'ex Ministro Maria Chiara Carrozza, scrittori come Andrea Camilleri e Maurizio Maggiani, docenti universitari e studiosi come Luciano Canfora e Michela Marzano.
Alla petizione hanno aderito anche Amministrazioni locali come Calcinaia, Vicopisano e Montopoli v.a.
Ad oggi però non esiste un accordo definito e ratificato tra Università di Pisa e Provincia di Pisa che garantisca la continuità di questo importante servizio pubblico e presidio culturale. La biblioteca è ancora in bilico.
Per questo è necessario fare di più. L'apertura della biblioteca è stata prorogata fino al 30 giugno, ma non si sa che cosa accadrà dopo.
Così abbiamo deciso di tenere aperta la campagna di raccolta firme con lo scopo di superare quota 5.000 e se possibile andare anche oltre, segnalando in questa maniera una forte sensibilità da parte dei cittadini.
Per questo invitiamo tutti a continuare le sottoscrizioni presso le sedi delle nostre biblioteche e a PARTECIPARE COME BIBLIOTECARI RACCOGLITORI al pomeriggio di raccolta firme che organizzeremo a Pisa, sul Corso Italia, VENERDI 20 MAGGIO DALLE 15 ALLE 20.
PER QUEL GIORNO E QUELL'ORA INVITIAMO TUTTI GLI AMICI DELLA RETE BIBLIOLANDIA, I BIBLIOTECARI DELLA RETE E DI ALTRE RETI, I LETTORI SIMPATIZZANTI CHE MAGARI HANNO GIA' FIRMATO, A DARCI UNA MANO NEL CENTRO DI PISA PER RACCOGLIERE ALTRE FIRME.
Il futuro della biblioteca dipende anche da noi e per questo chiediamo a tutti coloro che potranno di essere con noi a Pisa e di darci una mano a sensibilizzare l'opinione pubblica e gli enti preposti a prendere le decisioni giuste.
Cordiali saluti
Roberto Cerri
Coordinatore Rete Bibliolandia
Per aggiornamenti e informazioni
https://www.facebook.com/Retebibliolandia/?fref=ts
Carissimi
voi tutti sapete delle difficoltà della Biblioteca Provinciale di Pisa e della petizione che la nostra Rete Bibliolandia ha lanciato con l'obiettivo di non farla chiudere!".
La mobilitazione è stata forte in provincia ed oltre e ad oggi sono state raccolte circa 3.000 (TREMILA) firme di cittadine e cittadini che riconoscono alla Biblioteca Provinciale di Pisa una significativa rilevanza culturale che la
rende unica e irrinunciabile: un patrimonio importante, specializzato nelle scienze sociali e giuridico-economiche e un'emeroteca facilmente fruibile, la più vasta della costa toscana.
Alla petizione hanno aderito importanti personalità della cultura tra cui l'ex Ministro Maria Chiara Carrozza, scrittori come Andrea Camilleri e Maurizio Maggiani, docenti universitari e studiosi come Luciano Canfora e Michela Marzano.
Alla petizione hanno aderito anche Amministrazioni locali come Calcinaia, Vicopisano e Montopoli v.a.
Ad oggi però non esiste un accordo definito e ratificato tra Università di Pisa e Provincia di Pisa che garantisca la continuità di questo importante servizio pubblico e presidio culturale. La biblioteca è ancora in bilico.
Per questo è necessario fare di più. L'apertura della biblioteca è stata prorogata fino al 30 giugno, ma non si sa che cosa accadrà dopo.
Così abbiamo deciso di tenere aperta la campagna di raccolta firme con lo scopo di superare quota 5.000 e se possibile andare anche oltre, segnalando in questa maniera una forte sensibilità da parte dei cittadini.
Per questo invitiamo tutti a continuare le sottoscrizioni presso le sedi delle nostre biblioteche e a PARTECIPARE COME BIBLIOTECARI RACCOGLITORI al pomeriggio di raccolta firme che organizzeremo a Pisa, sul Corso Italia, VENERDI 20 MAGGIO DALLE 15 ALLE 20.
PER QUEL GIORNO E QUELL'ORA INVITIAMO TUTTI GLI AMICI DELLA RETE BIBLIOLANDIA, I BIBLIOTECARI DELLA RETE E DI ALTRE RETI, I LETTORI SIMPATIZZANTI CHE MAGARI HANNO GIA' FIRMATO, A DARCI UNA MANO NEL CENTRO DI PISA PER RACCOGLIERE ALTRE FIRME.
Il futuro della biblioteca dipende anche da noi e per questo chiediamo a tutti coloro che potranno di essere con noi a Pisa e di darci una mano a sensibilizzare l'opinione pubblica e gli enti preposti a prendere le decisioni giuste.
Cordiali saluti
Roberto Cerri
Coordinatore Rete Bibliolandia
Per aggiornamenti e informazioni
https://www.facebook.com/Retebibliolandia/?fref=ts
lunedì 2 maggio 2016
Già raccolte 2.500 firme per tenere aperta la Biblioteca Provinciale di Pisa... e tante altre ne stanno arrivando
BIBLIOTECA PROVINCIALE. Oltre 2.500 lettori ed utenti delle biblioteche della Rete Bibliolandia, in provincia di PIsa, hanno sottoscritto fino ad ora l'appello a tenere aperta la Biblioteca Provinciale e a salvaguardare i suoi servizi, in special modo l'emeroteca. E' stato ed è un bell'esempio di sensibilizzazione quello che tutti i giorni da un mese a questa parte fanno i cento e passa bibliotecari della Rete. E la risposta che stanno ricevendo è buona. Ma non basta. Come bibliotecari stiamo pensando di effettuare una giornata di sensibilizzazione direttamente in centro a Pisa, in Corso Italia, tra il 20 o il 21 maggio oppure il 27 maggio, per raccogliere altre firme. L'obiettivo è arrivare a 5.000 firme: pari al 25 percento di tutti i lettori che utilizzano i nostri servizi di prestito. Gli utenti hanno bisogno che le biblioteche siano aperte e funzionino bene. Per questo cerchiamo persone che possano darci una mano a raccogliere firme sulla petizione che alleghiamo di nuovo. Chi può essere con noi e sostenere la giornata di sensibilizzazione su Pisa ci mandi un messaggio a questa pagina. Lasci una mail, così da poterlo/la tenere informato/a. Le biblioteche pubbliche sono presidi strategici per una comunità. Aiutateci a farle funzionare al meglio. Alcune amministrazioni comunali, come Calcinaia, Montopoli v.a., Vicopisano si sono schierate coi loro sindaci e assessori a favore del mantenimento in vita della Biblioteca. Ma è davvero importante l'impegno di ciascuno. Per questo vi invito a recarvi presso la vostra biblioteca di riferimento e a chiedere di firmare la petizione a sostegno della Biblioteca Provinciale. Se il vostro bibliotecario non la trova, ditegli che è in Rete e che la scarichi e ve la faccia firmare. E' un gesto importante di partecipazione e di cultura.
BIBLIOTECA PROVINCIALE. Oltre 2.500 lettori ed utenti delle biblioteche della Rete Bibliolandia, in provincia di PIsa, hanno sottoscritto fino ad ora l'appello a tenere aperta la Biblioteca Provinciale e a salvaguardare i suoi servizi, in special modo l'emeroteca. E' stato ed è un bell'esempio di sensibilizzazione quello che tutti i giorni da un mese a questa parte fanno i cento e passa bibliotecari della Rete. E la risposta che stanno ricevendo è buona. Ma non basta. Come bibliotecari stiamo pensando di effettuare una giornata di sensibilizzazione direttamente in centro a Pisa, in Corso Italia, tra il 20 o il 21 maggio oppure il 27 maggio, per raccogliere altre firme. L'obiettivo è arrivare a 5.000 firme: pari al 25 percento di tutti i lettori che utilizzano i nostri servizi di prestito. Gli utenti hanno bisogno che le biblioteche siano aperte e funzionino bene. Per questo cerchiamo persone che possano darci una mano a raccogliere firme sulla petizione che alleghiamo di nuovo. Chi può essere con noi e sostenere la giornata di sensibilizzazione su Pisa ci mandi un messaggio a questa pagina. Lasci una mail, così da poterlo/la tenere informato/a. Le biblioteche pubbliche sono presidi strategici per una comunità. Aiutateci a farle funzionare al meglio. Alcune amministrazioni comunali, come Calcinaia, Montopoli v.a., Vicopisano si sono schierate coi loro sindaci e assessori a favore del mantenimento in vita della Biblioteca. Ma è davvero importante l'impegno di ciascuno. Per questo vi invito a recarvi presso la vostra biblioteca di riferimento e a chiedere di firmare la petizione a sostegno della Biblioteca Provinciale. Se il vostro bibliotecario non la trova, ditegli che è in Rete e che la scarichi e ve la faccia firmare. E' un gesto importante di partecipazione e di cultura.
domenica 1 maggio 2016
Tra Marti e Palaia dal 1898 al 1915. Un piccolo volume di Roberto Boldrini pieno di sorprese.
Roberto Boldrini è una garanzia e anche questo nuovo volume che ha dedicato al suo borgo natio, Marti, incrociandone le vicende con Palaia, è un'autentica chicca per buongustai della storia e della lettura. Le vicende che ci racconta sono quelle che si intrecciano tra il piccolo borgo di Marti e quell'importante comune rurale che era Palaia alla fine dell'Ottocento e prima dalla Grande Guerra. Con passione certosina e amore per i fantasmi che sicuramente aleggiano ancora attorno a questi due piccoli paesi, Roberto ci narra, documenti alla mano, di come andassero le vicende politiche e amministrative, gli affari locali e alcuni scontri personali tra i moti del 1898 e il maggio del 1915. Ecco allora la borghesia agraria e quella delle professioni, liberale e monarchica, che controlla lo stato, la politica e l'amministrazione locale alle prese con la gestione della cosa pubblica. Ecco i preti di Marti, dalla tempra forte, sostenuti dalla Curia vescovile di San Miniato, che si contrappongono ai massoni e stringono alleanze coi liberali disponibili. Ecco il movimento radicale, quello repubblicano e alla fine i socialisti prendere forma e volti, per cimentarsi coi liberali nelle elezioni politiche del 1909 e del 1913. E ancora ecco i cattolici, ancora ingessati dal Non expedit, con il loro desiderio di autonomia politica e il giovane Gronchi che sbuca fuori nelle amministrative del 1910.
E tutt'intorno un corteggio denso di personaggi pieni di vitalità, che entrano ed escono di scena e ci danno l'idea della vita dura che si conduceva 100 anni fa (basta leggere le parti che riguardano i servizi scolastici, le "aule" dove si faceva scuola all'inizio del '900).
E' un microcosmo dipinto a pennellate forti quello che Boldrini ricostruisce attorno a vicende politiche e amministrative, purtroppo, temo, quasi incomprensibili per molti nostri contemporanei. Ma per i buongustai, le 150 pagine di Boldrini risulteranno una lettura semplicemente deliziosa, degna di un epigono (anche se Boldrini ha studiato a Pisa) di Ernesto Ragionieri, che una storia simile e per un periodo in parte simile aveva dedicato al comune di Sesto Fiorentino.
Aggiungo che mi sono letteralmente emozionato quando dalle pagine del libro è sbucato fuori quel gattaccio rosso, quella specie di diavolo massonico dall'eloquio forbito ed intrigante, che fu l'avvocato Eraldo Andrea Bellincioni, candidato socialista al collegio di Pontedera, competitore, purtroppo sconfitto, del liberale Nello Toscanelli e più volte autore di comizi nel piccolo borgo di Marti, dove sia alle elezioni del 1909 che a quelle del 1913 raccolse comunque un mare di voti, segno di una forza socialista e comunque democratica non indifferente in quella piccola terra. Ma soprattutto mi sono commosso quando a balzare fuori è stato il sindacalista Rodoero e con lui si sono manifestati i legami tra la Camera del Lavoro di Livorno, la camera del Lavoro di Pontedera e la Lega degli Operai di Marti. Qui ho capito il senso profondo di un'altra storia dolorosa che Boldrini qui non racconta ma che si svolse a Marti nell'aprile del 1922: l'assassinio per mano fascista del segretario della camera del lavoro di Pontedera, Alvaro Fantozzi. Avendo un po' studiato la figura di Fantozzi ed avendolo commemorato alcuni anni fa in piazza a Marti, mi sono spesso chiesto quali furono le motivazioni profonde e dove quel ragazzo di ventinove anni trovò il coraggio per muoversi da Pontedera verso Marti, solo e disarmato, sapendo che avrebbe potuto incappare in qualche squadraccia fascista. Beh. Dopo la lettura del libro di Boldrini tutto mi è più chiaro. C'era nella primavera del '22 una vertenza che opponeva braccianti e proprietari terrieri, C'era la Lega di Marti che aveva chiesto il suo aiuto. C'erano compagni socialisti da sostenere nella loro causa. C'era una fratellanza sociale da difendere. Comuni sentimenti di emancipazione da portare avanti. Il coraggio a Fantozzi venne da queste cose semplici, di cui Boldrini ricostruisce la fase di faticosa e lenta incubazione.
Sì, davvero una lettura piacevole e a tratti emozionante. Mi auguro che il libro circoli e che soprattutto venga letto.
Roberto Boldrini è una garanzia e anche questo nuovo volume che ha dedicato al suo borgo natio, Marti, incrociandone le vicende con Palaia, è un'autentica chicca per buongustai della storia e della lettura. Le vicende che ci racconta sono quelle che si intrecciano tra il piccolo borgo di Marti e quell'importante comune rurale che era Palaia alla fine dell'Ottocento e prima dalla Grande Guerra. Con passione certosina e amore per i fantasmi che sicuramente aleggiano ancora attorno a questi due piccoli paesi, Roberto ci narra, documenti alla mano, di come andassero le vicende politiche e amministrative, gli affari locali e alcuni scontri personali tra i moti del 1898 e il maggio del 1915. Ecco allora la borghesia agraria e quella delle professioni, liberale e monarchica, che controlla lo stato, la politica e l'amministrazione locale alle prese con la gestione della cosa pubblica. Ecco i preti di Marti, dalla tempra forte, sostenuti dalla Curia vescovile di San Miniato, che si contrappongono ai massoni e stringono alleanze coi liberali disponibili. Ecco il movimento radicale, quello repubblicano e alla fine i socialisti prendere forma e volti, per cimentarsi coi liberali nelle elezioni politiche del 1909 e del 1913. E ancora ecco i cattolici, ancora ingessati dal Non expedit, con il loro desiderio di autonomia politica e il giovane Gronchi che sbuca fuori nelle amministrative del 1910.
E tutt'intorno un corteggio denso di personaggi pieni di vitalità, che entrano ed escono di scena e ci danno l'idea della vita dura che si conduceva 100 anni fa (basta leggere le parti che riguardano i servizi scolastici, le "aule" dove si faceva scuola all'inizio del '900).
E' un microcosmo dipinto a pennellate forti quello che Boldrini ricostruisce attorno a vicende politiche e amministrative, purtroppo, temo, quasi incomprensibili per molti nostri contemporanei. Ma per i buongustai, le 150 pagine di Boldrini risulteranno una lettura semplicemente deliziosa, degna di un epigono (anche se Boldrini ha studiato a Pisa) di Ernesto Ragionieri, che una storia simile e per un periodo in parte simile aveva dedicato al comune di Sesto Fiorentino.
Aggiungo che mi sono letteralmente emozionato quando dalle pagine del libro è sbucato fuori quel gattaccio rosso, quella specie di diavolo massonico dall'eloquio forbito ed intrigante, che fu l'avvocato Eraldo Andrea Bellincioni, candidato socialista al collegio di Pontedera, competitore, purtroppo sconfitto, del liberale Nello Toscanelli e più volte autore di comizi nel piccolo borgo di Marti, dove sia alle elezioni del 1909 che a quelle del 1913 raccolse comunque un mare di voti, segno di una forza socialista e comunque democratica non indifferente in quella piccola terra. Ma soprattutto mi sono commosso quando a balzare fuori è stato il sindacalista Rodoero e con lui si sono manifestati i legami tra la Camera del Lavoro di Livorno, la camera del Lavoro di Pontedera e la Lega degli Operai di Marti. Qui ho capito il senso profondo di un'altra storia dolorosa che Boldrini qui non racconta ma che si svolse a Marti nell'aprile del 1922: l'assassinio per mano fascista del segretario della camera del lavoro di Pontedera, Alvaro Fantozzi. Avendo un po' studiato la figura di Fantozzi ed avendolo commemorato alcuni anni fa in piazza a Marti, mi sono spesso chiesto quali furono le motivazioni profonde e dove quel ragazzo di ventinove anni trovò il coraggio per muoversi da Pontedera verso Marti, solo e disarmato, sapendo che avrebbe potuto incappare in qualche squadraccia fascista. Beh. Dopo la lettura del libro di Boldrini tutto mi è più chiaro. C'era nella primavera del '22 una vertenza che opponeva braccianti e proprietari terrieri, C'era la Lega di Marti che aveva chiesto il suo aiuto. C'erano compagni socialisti da sostenere nella loro causa. C'era una fratellanza sociale da difendere. Comuni sentimenti di emancipazione da portare avanti. Il coraggio a Fantozzi venne da queste cose semplici, di cui Boldrini ricostruisce la fase di faticosa e lenta incubazione.
Sì, davvero una lettura piacevole e a tratti emozionante. Mi auguro che il libro circoli e che soprattutto venga letto.
Manola Guazzini dovrebbe tornare al suo posto e il pd di San Miniato dovrebbe chiedere al sindaco di ridarle le deleghe.
Io credo che gli uomini e le donne del pd di San Miniato che nel 2014 fecero l'accordo con le forze che allora si raccoglievano attorno al sindaco dovrebbero chiedere il rispetto dei patti e la riassegnazione delle deleghe a Manola Guazzini. Se non lo fanno, accetteranno che non solo l'amministrazione fagociti la politica, ma che l'amministrazione buchi per motivi "personali" ed in parte incomprensibili gli obiettivi che la politica e gli elettori gli hanno assegnato. Perchè nessun nuovo assessore, privo di esperienza amministrativa, potrà entrare in corsa sulle deleghe tolte alla Guazzini (e soprattutto sui Lavori Pubblici) e portare a forma il lavoro avviato. Non nei tempi giusti.
Oltre tutto non tocca all'amministrazione dettare i tempi e gli indirizzi della politica, sul piano locale come su quello nazionale. La politica ha una sua necessaria autonomia, a cui non può abdicare. Anche quando a fare politica e in un solo vero partito, che da queste parti è il pd, il resto essendo un'autentica penosa paccotiglia, anche quando in questo unico partito rimasto sulla scena sono poche centinaia gli iscritti e ancor meno i "militanti". Condivido molti dei ragionamenti di Massimo Baldacci su questa ennesima "crisi sanminiatese", ma non mi convince il suo atteggiamento fatalista. E mi dispiace anche che Manola Guazzini, che pure ha deciso di aprire un profilo facebook e si è rifugiata nelle sue roccaforti elettorali per riorganizzare le truppe, intenzionata a condurre una civilissima battaglia per sè e per la tutela della "cosa pubblica" sanminiatese, abbia alla fine rilasciato un comunicato blando, rinviando la battaglia politica alla primavera del 2018 o 19 quando si tornerà a votare per le amministrative.
Peccato. In primis per San Miniato, che dovrà restare in stand by ancora tre anni. Non poco, coi tempi che corrono. E poi per la politica locale, che se vuole rinascere dove rivendicare il proprio ruolo e la propria autonomia anche rispetto al livello amministrativo. Ma non solo a parole. Coi fatti. Ovviamente il sindaco non può essere il burattino del segretario del partito di maggioranza che pure lo porta alla guida della città. Ma neppure il segretario del partito di maggioranza può essere la marionetta del sindaco, come purtroppo accade da diverso tempo in tanti comunelli anche della nostra amena regione. La due figure debbono dialogare con intelligenza e buon senso. Perchè il sindaco rappresenta i cittadini che lo hanno eletto, ma il segretario politico l'orientamento e il senso profondo delle scelte di quella parte politica vincente che ha portato all'individuazione di un programma per il comune e l'uomo giusto per attuarlo. Senza questa corretta dialettica, non c'è democrazia su scale locale, ma solo una opaca e appiccicosa politica, incomprensibile alla maggioranza dei cittadini che ovviamente finiranno per vivere la cosa come estranea. Una roba per furbi o interessati. Che non fa per loro.
E che l'opacità e la viscosità della politica anche locale aumentino, anziché diminuire, lo dimostra la stessa posizione espressa, su questa vicenda, dai Giovani Democratici, il cui comunicato sulla vicenda che include anche le dimissioni di Lupi , letto da un esterno all'organizzazione, mi pare molto vecchio, barocco, arzigogolato. Insomma, sul caso San Miniato i Giovani Democratici si riconoscono nelle posizioni del sindaco-padrone che può licenziare un assessore senza giusta causa o pretendono che si chiariscano le ragioni del ritiro delle deleghe o che altrimenti le deleghe vengano riconsegnate? Dal loro comunicato sembra che abbiano tutti ragione. Può essere? E come si chiama una politica che dà ragione a tutti?
Lo stesso sentimento mi suscita anche il comunicato della Sinistra Dem. Certo la politica è il regno delle ambiguità. Dove si dicono delle cose pensandone altre, alcune delle quali contrarie a quelle che si affermano. Ma se si pensa che si possano mantenere buoni livelli di democrazia anche su base locale con atteggiamenti estremanente prudenti e abbottonati, dicendo e non dicendo, e soprattutto non facendo nulla, beh si va poco lontano.
E se Sinistra Dem non è d'accordo con le decisioni del sindaco deve non solo dirlo chiaro e forte, ma trarne le conseguenze e fare una battaglia politica, ritirare il suo consenso ad un amministratore che non rispetta i patti e via proseguendo. Altrimenti che cosa vuol dire fare politica? Se invece tutto si piega alle logiche della compatibilità, allora...
Gli assessori non sono birilli. Rappresentano ed incarnano scelte e strategie politiche. Illuminano anche rapporti di forza in campo. Equilibri sociali e politici di una città, di una maggioranza politica. Se vengono presi a calci nel culo, ci devono essere delle ragioni forti e chiare. Perchè vuol dire che si sono rotti equilibri, assetti politici, accordi fra forze sociali. Se poi tutto finisce a tarallucci e vino, anche in casa pd, ovvero nell'ultimo vero partito politico di questa Italia tardodemocratica, allora davvero tutto diventa possibile oltre che incomprensibile.
Io credo che gli uomini e le donne del pd di San Miniato che nel 2014 fecero l'accordo con le forze che allora si raccoglievano attorno al sindaco dovrebbero chiedere il rispetto dei patti e la riassegnazione delle deleghe a Manola Guazzini. Se non lo fanno, accetteranno che non solo l'amministrazione fagociti la politica, ma che l'amministrazione buchi per motivi "personali" ed in parte incomprensibili gli obiettivi che la politica e gli elettori gli hanno assegnato. Perchè nessun nuovo assessore, privo di esperienza amministrativa, potrà entrare in corsa sulle deleghe tolte alla Guazzini (e soprattutto sui Lavori Pubblici) e portare a forma il lavoro avviato. Non nei tempi giusti.
Oltre tutto non tocca all'amministrazione dettare i tempi e gli indirizzi della politica, sul piano locale come su quello nazionale. La politica ha una sua necessaria autonomia, a cui non può abdicare. Anche quando a fare politica e in un solo vero partito, che da queste parti è il pd, il resto essendo un'autentica penosa paccotiglia, anche quando in questo unico partito rimasto sulla scena sono poche centinaia gli iscritti e ancor meno i "militanti". Condivido molti dei ragionamenti di Massimo Baldacci su questa ennesima "crisi sanminiatese", ma non mi convince il suo atteggiamento fatalista. E mi dispiace anche che Manola Guazzini, che pure ha deciso di aprire un profilo facebook e si è rifugiata nelle sue roccaforti elettorali per riorganizzare le truppe, intenzionata a condurre una civilissima battaglia per sè e per la tutela della "cosa pubblica" sanminiatese, abbia alla fine rilasciato un comunicato blando, rinviando la battaglia politica alla primavera del 2018 o 19 quando si tornerà a votare per le amministrative.
Peccato. In primis per San Miniato, che dovrà restare in stand by ancora tre anni. Non poco, coi tempi che corrono. E poi per la politica locale, che se vuole rinascere dove rivendicare il proprio ruolo e la propria autonomia anche rispetto al livello amministrativo. Ma non solo a parole. Coi fatti. Ovviamente il sindaco non può essere il burattino del segretario del partito di maggioranza che pure lo porta alla guida della città. Ma neppure il segretario del partito di maggioranza può essere la marionetta del sindaco, come purtroppo accade da diverso tempo in tanti comunelli anche della nostra amena regione. La due figure debbono dialogare con intelligenza e buon senso. Perchè il sindaco rappresenta i cittadini che lo hanno eletto, ma il segretario politico l'orientamento e il senso profondo delle scelte di quella parte politica vincente che ha portato all'individuazione di un programma per il comune e l'uomo giusto per attuarlo. Senza questa corretta dialettica, non c'è democrazia su scale locale, ma solo una opaca e appiccicosa politica, incomprensibile alla maggioranza dei cittadini che ovviamente finiranno per vivere la cosa come estranea. Una roba per furbi o interessati. Che non fa per loro.
E che l'opacità e la viscosità della politica anche locale aumentino, anziché diminuire, lo dimostra la stessa posizione espressa, su questa vicenda, dai Giovani Democratici, il cui comunicato sulla vicenda che include anche le dimissioni di Lupi , letto da un esterno all'organizzazione, mi pare molto vecchio, barocco, arzigogolato. Insomma, sul caso San Miniato i Giovani Democratici si riconoscono nelle posizioni del sindaco-padrone che può licenziare un assessore senza giusta causa o pretendono che si chiariscano le ragioni del ritiro delle deleghe o che altrimenti le deleghe vengano riconsegnate? Dal loro comunicato sembra che abbiano tutti ragione. Può essere? E come si chiama una politica che dà ragione a tutti?
Lo stesso sentimento mi suscita anche il comunicato della Sinistra Dem. Certo la politica è il regno delle ambiguità. Dove si dicono delle cose pensandone altre, alcune delle quali contrarie a quelle che si affermano. Ma se si pensa che si possano mantenere buoni livelli di democrazia anche su base locale con atteggiamenti estremanente prudenti e abbottonati, dicendo e non dicendo, e soprattutto non facendo nulla, beh si va poco lontano.
E se Sinistra Dem non è d'accordo con le decisioni del sindaco deve non solo dirlo chiaro e forte, ma trarne le conseguenze e fare una battaglia politica, ritirare il suo consenso ad un amministratore che non rispetta i patti e via proseguendo. Altrimenti che cosa vuol dire fare politica? Se invece tutto si piega alle logiche della compatibilità, allora...
Gli assessori non sono birilli. Rappresentano ed incarnano scelte e strategie politiche. Illuminano anche rapporti di forza in campo. Equilibri sociali e politici di una città, di una maggioranza politica. Se vengono presi a calci nel culo, ci devono essere delle ragioni forti e chiare. Perchè vuol dire che si sono rotti equilibri, assetti politici, accordi fra forze sociali. Se poi tutto finisce a tarallucci e vino, anche in casa pd, ovvero nell'ultimo vero partito politico di questa Italia tardodemocratica, allora davvero tutto diventa possibile oltre che incomprensibile.
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