La storia è uno strumento complicato da maneggiare. A volte è perfino pericolosa. Per questo dovrebbe essere gestita da studiosi seri, da ricercatori accreditati e da eruditi assennati.
L’imparzialità e l’oggettività storica non si possono pretendere, ma uno scavo scientifico delle fonti documentarie, la conoscenza di ciò che è stato pubblicato e una ricostruzione onesta degli eventi, queste cose sì.
Quando è ben fatta, la storia non è consolatoria, ma problematica, sfaccettata e di solito individua e sottolinea le magagne e i limiti di tutti. Storici inclusi.
Ma le forze politiche si inventano ricostruzioni storiche autoreferenziali e non vogliono affatto mostrare i propri limiti. Per questo manipolano la storia con tre finalità principali:
1 giustificare le proprie idee;
2 attaccare le posizioni degli avversari;
3 influenzare la retorica pubblica se sono al governo e orientare le scelte statali.
L’uso distorto e “partigiano” della storia è connaturato a tutte le forze politiche e non può essere evitato in nessuna società di massa, a qualunque orientamento politico/religioso la società faccia riferimento. Neppure le migliori democrazie possono evitarlo. Perciò bisogna sperare che la politica non esageri troppo con la partigianeria e rispetti, almeno all’ingrosso, la pluralità socio-culturale che la circonda, lasciando spazio anche agli storici indipendenti e scientificamente seri.
Nelle autocrazie e nelle dittature la falsificazione della storia la gestiscono i governi. Orwell docet.
D’altra parte nessuna Nazione può rinunciare a credere (e a propagandare l’idea) di avere una propria specifica identità e a definire un proprio modo di stare tra le altre Nazioni. Questa identità (per altro mutevole) è il frutto dello scontro e del compromesso tra le forze politiche in campo. Questo nelle democrazie.
Ogni Stato tende a costruire una retorica per giustificare, con l’aiuto della storia, i propri comportamenti nel passato e delineare le proprie ambizioni verso il futuro.
Si tratta di una retorica pubblica (di fatto una specie di mitologia) che si accompagna a una ritualità civile, con tanto di festività, cerimonie e mausolei.
La storia (nata anche per smontare l’artificiosità dei miti e dei riti) deve così contribuire a consolidarli entrambi.
D’altra parte un po' di retorica pubblica non fa troppi danni. E fino ad un certo livello va accettata. Basta che non si trasformi in una mitologia pericolosa per la popolazione autoctona e per le nazioni vicine e non giustifichi in alcun modo logiche di potenza, sentimenti razzisti e pratiche neocolonialiste.
Certo, meglio sarebbe un uso ecologico e sostenibile della storia. Un uso ragionato e non urlato. Ma nell’era del diluvio comunicativo questa sarebbe una pretesa assurda.
Perciò dobbiamo rassegnarci ad una storia come campo di battaglia culturale tra partiti e fazioni contrapposte: un campo dove le forze politiche si disputano qualcosa che assomiglia alla gramsciana “egemonia”, oggi apprezzata anche a destra. Giuli docet.
Più prosaicamente un luogo dove imparare a discernere (speriamo senza pagare tributi troppo salati) gli argomenti migliori da quelli fasulli e pericolosi. Essendo i confini tra questi mondi, purtroppo, molto labili.
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