Si, Germano ha una voce incantevole, che usa con grande maestria. Ma per dirci cosa? Quello infatti che non ho capito bene del “Sogno di una cosa” da lui rappresentato venerdì sera al Teatro Era di Pontedera è quale sia il senso della selezione dei testi operata da Germano e cosa intenda dirci sull’oggi riprendendo un lavoro scritto tra il ‘48 e il 52 e pubblicato nel ‘62 da quel grande vate di sinistra che è stato ed è tuttora Pasolini.
Perché chiedere a 400 abitanti della provincia di Pisa e dell’empolese di mettersi in macchina, venire a Pontedera in una serata umida e pagare un biglietto? Per incuriosirli a riflettere su cosa, esattamente?
Su alcune storie di gioventù del poverissimo Friuli dell’immediato secondo dopoguerra?
Sulle speranze e le illusioni di quegli anni che inevitabilmente travolsero anche il giovane scrittore di Casarsa?
Su un Pasolini che non pare, almeno dai brani letti, poi tanto diverso da un Pratolini o da un Cassola?
Era davvero così Pasolini in quel 1948 o è Germano che un po’ lo appiattisce?
Francamente non saprei rispondere. Non ho letto quel testo di Pasolini. Né lo spettacolo mi stimola a cercarlo.
Aggiungo che non ho trovato Germano noioso (anche se un paio di amiche mi hanno detto di essersi assopite), neppure oscuro. Semmai l’ho percepito privo di forza, un po' amorfo, senza un’ anima riconoscibile. Senza un nocciolo, a parte il vitalismo giovanile, la critica sociale e una qualche insofferenza che torneranno in tutte le successive opere di Pasolini. Ma non è troppo poco per montarci su uno spettacolo di un’oretta scarsa? Che poi spettacolo vero non è, essendo alla fine una lettura statica fatta dal solo Germano con qualche inserto sonoro e un po' di musica.
Tuttavia m’è sorto un dubbio. Che sia stato io a non capirci niente? Magari gli altri lo hanno trovato intenso e affascinante, come suggeriva, non richiesta, un’esuberante livornese di mezz’età, con una mise da teen ager degli anni ‘80, seduta proprio accanto a me.
Boh!
Così ho lanciato un'indagine tra una decina di amiche e amici presenti in teatro. Spiace dirlo, ma la maggioranza di loro non ha apprezzato molto la recita.
Sia chiaro, l’arte non è e non deve essere democratica e non va sottoposta al voto dei professori. Il consenso in questo campo non è necessario. L’opera può essere anche provocatoria. Spiazzante. Urticante. Pesante. Pensata per allargare la mente degli altri. Ma in questa lettura pasoliniana di provocatorio non c’era un bel nulla.
Un tempo gli spettacoli così, se si era pagato il biglietto, si aveva il diritto di fischiarli. E almeno qualche loggionista incontentabile questo diritto se lo sarebbe preso.
Ieri sera l’Umarel che è in me non ha fischiato, ma avrebbe tanto voluto farlo. Per dire a Germano, puoi fare di meglio. Anzi, se ti cimenti con Pasolini, dovresti fare di meglio. Se vuoi che il pubblico ti venga a sentire, devi donare qualcosa di più della tua voce.
Per altro l’interpretazione che Germano portò nella scorsa stagione del 33esimo canto del Paradiso di Dante (pur senza essere stata entusiasmante) era stata di ben altro spessore. Più impegnativa per lo spettatore, ma almeno aveva forza comunicativa, mostrava coraggio, capacità scenica, qualche trovata, anche sonora. Qui, nonostante Teardo, niente di tutto quello. Neppure dal punto di vista sonoro. Uno spettacolo tutto al risparmio. Un discreto piattume perfettamente esemplificato dalla postazione fissa dietro cui i due performer si sono esibiti.
Si, uno spettacolo che meritava i fischi.
Ma per sfortuna del Teatro oggi il pubblico è buonista e ingoia di tutto.
Certo il tiepido applauso finale dei molti presenti venerdi sera è stato tardivo, incerto e breve e il sipario è stato chiuso quasi subito, senza riaprirsi più.
Ed essendo Umarel' seduto proprio sotto il palco non gli pare di aver intravisto nel volto di Germano una grande soddisfazione per come era andata la recita. No, “il sogno di una cosa” non ha funzionato, almeno venerdì sera a Pontedera.
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