sabato 8 dicembre 2018

Mostra su Galileo CHINI al Palp di Pontedera

Eccellente mostra al Palp di Pontedera dedicata ad uno dei padri del Liberty italiano, Galileo Chini. Oltre un centinaio di opere, alcune anche di grande formato, di questo eclettico artista italiano (e toscano) che ha attraversato con i suoi cromatismo ed il suo disegno elegante ed accattivante 60 anni di arte italiana, confrontandosi anche con le principali correnti artistiche europee. Straordinarie le sale dedicate al viaggio di Chini in estremo oriente e suggestivi i disegni della scenografia dell'opera Turandot di Puccini. La mostra vale una visita attenta ed accurata. Raffinato il catalogo della mostra, che è curata da Maurizia Bonatti Bacchini e Filippo Bacci di Capaci.
Dimenticavo: un elogio sperticato alle splendide volontarie multitasking che collaborano alla buona riuscita della mostra




martedì 27 novembre 2018

68 x 15
Un'operazione di coscienza : piece teatrale 
con Maria Triggiano e Elena Franconi

Spettacolo gradevole quello dedicato al '68 che le due attrici, Maria Triggiano e Elena Franconi, di ViviTeatro, hanno messo in scena pochi giorni fa al Teatro di Capannoli. Il testo è di Elena Franconi, il coordinamento drammaturgico di Donatella Diamanti, la regia di Letizia Pardi. In una serata, quella del 24/11, contro la violenza sulle donne, ci stava proprio bene uno spettacolo pensato, scritto, allestito, recitato e diretto da donne, centrato su quell'anno denso di avvenimenti e affascinante quale fu appunto il '68. Anche le spettatrici, per altro, erano per lo più donne.
Il titolo, matematico, richiama, come già detto, il '68. Ma lo spunto drammaturgico parte da un'enciclopedia allora molto nota: la Quindici (15). Al centro dell'azione una mogliettina piccolo borghese (interpretata dalla Triggiano) che d'improvviso vede materializzarsi la propria coscienza (la Franconi). Una coscienza con le sembianze da figlia dei fiori. Rivoluzionaria e libertaria. E' lei a sconvolgere tutte le certezze della povera donna e a mettere in crisi l'identità di mogliettina, la sua cultura basata sull'Enciclopedia 15 e la devozione/subalternità al marito. Scossa falla propria coscienza "marcusiana", la donna "ad una dimensione" scopre improvvisamente che nella vita ci sono altri orizzonti rispetto al ruolo passivo della moglie. E questo la ingarbuglia.
Lo spettacolo, fornito di un giusto accompagnamento musicale, funziona piuttosto bene e la mogliettina esce sconvolta dall'impatto con una coscienza così "alternativa".
Il testo, abilmente costruito dalla Franconi, è fedele allo spirito di quell'epoca che vide proprio nell'emancipazione e nella liberazione delle donne da uno stato di subalternità alcune delle conquiste più qualificanti e significative dell'epoca. Conquiste che produssero cambiamenti destinati a durare nel tempo.
Testo e drammaturgia ricordano un po' le piece teatrali di Dario Fo e Franca Rame, segno di una lezione quest'ultima entrata in profondità nel modo di fare l'attore e lo scrittore di teatro.
La serata è trascorsa gradevole perché sia la Triggiano che la Franconi sono brave a recitare e costituiscono una coppia affiatata. Sia perchè scenografia e messa in scena erano valide. E infine perchè il testo sapeva muoversi con abilità e leggerezza lungo il percorso scelto.
L'unica cosa che, cinquant'anni dopo, forse si poteva aggiungere, è una valutazione dell'impatto di quella "rivoluzione" culturale. Forse sarebbe stato più "pungente" (e spiazzante?) per le anime assopite di oggi se a materializzarsi non fosse stata la coscienza "alternativa", ma il fantasma della mogliettina (magari ormai nonna) e fosse stata la piccola borghese a chiedere conto alla sua coscienza "libertaria" dell'esito di quei cambiamenti. Dei rapporti coi mariti diventati nonni, coi figli diventati padri, coi nipoti attaccati ai loro cellulari, con il tempo che passa. E tutto questo non per domandarsi se valesse davvero la pena di realizzare tutto quel caos che il '68 generò. No. Il punto non è questo. La domanda drammaturgica a cui mi sarebbe piaciuto sentir rispondere è dove sia finita tutta quella voglia di libertà che allora si espresse e soprattutto che tipo di società sia riuscita a costruire quella coscienza libertaria e autodeterminata.
Perchè che oggi si sia tutti più liberi e più capaci di autodeterminarsi (almeno in gran parte del mondo e pur con qualche limite) è, per me, un fatto assodato. Ma trovo anche che questa libertà, con l'apporto decisivo dell'emancipazione femminile, insieme a tante teoriche opportunità, ci presenti quotidianamente un conto molto salato e ci crei ansie, incertezze e insicurezze sempre maggiori. Forse perchè siamo invecchiati. E forse perchè un po' è davvero così. Capire perchè le cose siano andate in un certo modo potrebbe rivelarsi perfino utile.




venerdì 23 novembre 2018

Pieno sostegno alla richiesta degli AMICI di Biblio SMS di Pisa sul personale spostato


Esprimo la mia piena adesione alla lettera degli Amici della Biblioteca SMS di Pisa per la sospensione dello spostamento di alcuni bibliotecari da Biblio SMS ad altri uffici comunale. Esprimo la mia solidarietà ai colleghi bibliotecari che sono stati trasferiti ad altri uffici.
La scelta effettuata dall'Amministrazione comunale indebolisce una struttura culturale pubblica che offre un servizio lettura importante per i giovani e per l'intera città; un servizio che meriterebbe semmai un notevole potenziamento rispetto ai desiderata del pubblico.

martedì 20 novembre 2018

Il prof Ambrosio racconta Alessio Figalli

“Alessio Figalli e il trasporto ottimo di massa” questo è il tema dell’intervento che terrà il professor Luigi Ambrosio giovedì 22 novembre presso la Galleria della Coop della Stazione in via Brigate Partigiane, alle ore 14,30.
Alessio Figalli a soli 34 anni ha vinto il premio Fields 2018, che equivale al Nobel per la matematica e ha studiato matematica alla Scuola Normale di Pisa. Luigi Ambrosio, suo insegnante alla Scuola Normale di Pisa e grande matematico, racconterà come era Figalli da studente e il significato e le applicazioni delle sue scoperte scientifiche.
Tutto ciò accadrà nella Galleria della Coop, nel quartiere più internazionale e più aperto della città.
L’iniziativa è svolta in collaborazione con la Scuola Normale Superiore, con il patrocinio del Comune di Pontedera, con la partecipazione di studenti e insegnanti dell'ITIS
Marconi e il sostegno della sezione soci della Coop.
I cittadini sono invitati.




Il '68 raccontato dal Telegrafo

A 50 anni dal '68 è ancora difficile riassumere il significato di quei 365 giorni. Non parliamo poi di memorie condivise. Chiunque abbia vissuto quell'anno ha una sua esperienza e su questa ha appoggiato una sua memoria e una sua personale interpretazione dei fatti; e poi, secondo come è evoluto culturalmente e politicamente nei successivi 50 anni, ognuno ha riaggiustato costantemente i fatti e attraverso la rielaborazione della sua esperienza ha rimodellato la memoria e il giudizio sul '68.
Ma allora non si può parlare del '68? Certo che sì. Ma con un certo sapore di relatività e di approssimazione al vero. Perché è bene sapere che anche quando non siamo mentitori, siamo comunque aggiustatori di memorie, a cominciare dalla nostra (accordando a tutti, almeno fino a prova contraria, la buona fede).
Per l'ideatore della mostra, il '68 essenzialmente fu un moto antiautoritario. Di contestazione di qualunque autorità che come tale si imponesse e non fosse giustificata dal consenso della stragrande maggioranza. Tutti i sistemi di potere (politico, religioso, economico, familiare) risultarono toccati e scossi da questo moto. Partiti, sindacati, imprese, istituzioni scolastiche, assetti istituzionali internazionali, chiese e religioni, tutto fu radicalmente messo in discussione.
Si trattò di un sommovimento molto anarchico contro la globalizzazione ideologica che allora si cominciava a percepire (il famoso “Uomo a una dimensione” di cui scrisse H. Marcuse).
A livello globale si protestava contro gli accordi di Yalta e la divisione del mondo in due grandi blocchi guidati uno dagli Usa (l'Occidente democratico e capitalistico) e l'altro dall'URSS (il blocco comunista, a cui partecipava anche la Cina), così come erano usciti dall'immane flagello di sconquassi, morti e genocidi che chiamiamo seconda guerra mondiale.
Il '68 si espresse contro il colonialismo, alimentando il grande movimento di liberazione anticoloniale che era decollato già nel secondo dopoguerra, simboleggiato dall'indipendenza dell'India (1947).
A fianco dell'anticolonialismo, forte fu il sentimento contro la segregazione razziale, contro l'apartheid e contro gli stati che sostenevano le differenze razziali o che impedivano lo spostamento delle popolazioni e dei singoli individui.
Fu un moto contro la famiglia patriarcale, autoritaria e maschilista, spesso difesa anche da madri relegate in forme moderne di servitù. Contro la famiglia mononucleare e contro la famiglia poligama.
Fu un moto che dette voce al protagonismo femminile e al ruolo delle donne nella società, scuotendo sensibilità e sentimenti che avevano radici più nell'antropologia che nella storia. Mai infatti prima di allora le donne avevano rivendicato, in massa, un simile protagonismo in tutti i campi della vita di relazione, familiare, sociale e politica. In Italia la sentenza che abolì l'adulterio femminile ne fu un segnale fortissimo insieme alla diffusione della pillola contraccettiva e alla possibilità di una sessualità non legata alla procreazione.
Ma la protesta e la contestazione dilagarono soprattutto nelle scuole superiori e nelle Università, verso le quali per la prima volta affluivano milioni di studenti non solo di origine nobile o borghese, ma di condizione piccolo borghese e proletaria. E questi studenti volevano non solo sapere di più, ma contare di più e avere di più. Il loro protagonismo scosse tutte le università del mondo, mise in dubbio il potere dei docenti e delle facoltà, ne contestò idee e ruoli.
Il '68 criticò anche la conduzione degli stati democratici (Francia, Inghilterra, Germania, Italia, Usa, che in una certa misura erano e sono democrazie parlamentari). La Francia finì addirittura sull'orlo della guerra civile, o almeno così scrisse Il Telegrafo. Ovviamente la rivolta sessantottina criticò anche gli stati fascisti (come erano allora la Spagna, il Portogallo e la Grecia), né risparmiò gli stati comunisti (compresa l'allora misteriosa Cina). Nessuna idea politica uscì indenne da quella che allora veniva chiamata “la critica militante”.
Ovviamente il '68 contestò il capitalismo, il potere autocratico dei padroni, le imprese, rilanciando, almeno in parte, il mito operaista.
Più in generale venne radicalmente contestata la società dei consumi di cui però si apprezzavano tanto anche i vantaggi (tv, lavatrici, radio, automobili, ciclomotori, erano sì beni a cui si dichiarava di voler rinunciare, ma solo a parole: il neopauperismo comunitario fu un filone molto marginale della contestazione).
Ancora: la contestazione attaccò quasi tutte le istituzioni culturali, le rassegne cinematografiche, i premi letterari e, più timidamente, le gare canore.
Nell'insieme gli uomini e le donne che fecero il '68 espressero forti richieste di libertà, che marciavano parallelamente su due livelli: uno individuale e l'altro collettivo.
Così quell'anno e alcuni degli anni che seguirono furono eccezionali perchè ad una grande esplosione dell'io si accompagnò un altrettanto forte senso del noi.
La sensazione era che tante persone forti rivendicassero più potere per tutti.
Insomma nell'alveo del '68 si espressero sia un individualismo ed un bisogno di libertà individuale assoluti, sia un profondo bisogno di vivere insieme e lottare insieme per affermare un mondo migliore, più libero e più giusto. Per tutti. Indipendentemente dal colore della pelle o dal genere o dalla condizione familiare.
Tutti volevano contare di più e per farlo erano disposti a partecipare di più. A dare di più. Ad ascoltare di più.
Una delle grandi paure dell'epoca fu quella dalla mercificazione delle persone e questo spinse a chiedere una maggiore autonomia individuale ed un maggior valore per i singoli; e quindi più indipendenza dalla famiglia e dallo Stato; e quindi più diritti individuali; ma, contestualmente e senza avvertire alcuna contraddizione, anche più diritti collettivi (nelle scuole, nelle fabbriche, nei campi) in un rilancio continuo che sembrava, allora, non dover finire.
A simboleggiare tutto questo caos culturale, ecco i guerriglieri alla Che Guevara, i preti armati alla Camillo Torres, i preti operai come Don Mazzi dell'Isolotto di Firenze o i preti che stavano dalla parte degli ultimi come Don Lorenzo Milani e contestavano le gerarchie religiose reinventandosi un vangelo povero, genuino e partecipato. Ma nel pantheon dei nuovi miti finirono anche Mao Tse Tung (della cui rivoluzione culturale, allora, non si sapeva molto in Occidente) e la triade formata da Marx, Engels e Lenin, più una miriade di santi minori. Furono questi, insieme a Martin Luther King e a Bob Kennedy (entrambi assassinati nel '68) i miti e le divinità di un'acropoli policroma e confusa (i cui ritratti penzolavano sia dai muri delle sedi delle formazioni politiche, sia delle camere dei singoli militanti).
Naturalmente il '68 fu molto di più e soprattutto si scontrò con il forte attrito della realtà e rispetto alla dura realtà il moto di protesta si modellò, reagì, prese forma e poi … rifluì.

Perché la scelta de IL TELEGRAFO
La decisione di raccontare un insieme di eventi così complessi attraverso un quotidiano “locale” è legata ad alcuni fattori: il tipo di pubblico a cui ci si vuole rivolgere (il mondo degli studenti di scuola superiore da una parte e gli utenti dei circoli territoriali dall'altra); la necessità di partire da fonti sintetiche rispetto alla complessità del macrofenomeno da descrive; l'esigenza di collegare eventi locali, vicende nazionali e fatti internazionali nella stessa fonte.
Le prime pagine de Il Telegrafo (digitalizzate dalla Biblioteca Labronica di Livorno, che ringraziamo pubblicamente per avercele messe a disposizione, così come ringraziamo Il Tirreno per avercene consentito l'utilizzo) si prestano perfettamente a raggiungere i tre obiettivi indicati sopra.
Su circa 360 prime pagine è stata effettuata così una scelta degli avvenimenti più significativi e con un sistema di colori è stata impostata una lettura suggerita del corso degli eventi, accompagnata da note di integrazione e commento.

Utilizzo e circuitazione della mostra
Sono state selezionate circa 40 prime pagine e poi è stato effettuato un montaggio su base mensile producendo alla fine 20 roll-up autoportanti che costituiscono una mostra prêt-à-porter che in pochi minuti può essere montata e smontata e trasportata da una scuola o da un circolo all'altro, quindi presentata al pubblico.
Il materiale potrà essere portato nelle scuole per raccontare in 20 quadri di 1 metro per 2 la storia di un anno ricco di eventi e consentire ai ragazzi di abbracciare con un colpo d'occhio un insieme davvero molto variegato e complesso.
Il tutto con semplicità, ma senza alterare le caratteristiche della fonte documentaria che racconta dal punto di vista del cronista quell'anno straordinario.
La mostra è prodotta dalla Rete Bibliolandia (e dal gruppo di archivisti) in collaborazione con ARCI Valdera. Arci la farà circuitare nei suoi circoli, accompagnandola con dibattiti di approfondimento e discussioni introdotte dai curatori, mentre la Rete Bibliolandia la fornirà alle scuole superiori che potranno tenerla per brevi periodi.
La mostra nasce da un'idea progettuale e da una scelta di documenti di Roberto Cerri, che nell'elaborazione di testi e pannelli si è avvalso della collaborazione di Roberto Boldrini, Patrizia Marchetti, Andrea Brotini, Massimiliano Bertelli e Claudia Salvadori.
Maria Chiara Panesi dell'Arci Valdera ha deciso di sostenere la mostra, di presentarla presso l'Agorà/Sala Carpi e di farla circuitare presso i circoli Arci della Valdera, dove sarà accompagnata dai curatori.

venerdì 16 novembre 2018

Manola e l'invenzione della Biblioteca dei Ragazzi di Pontedera / Laura Martini, Tagete edizioni, 2018, pp. 96, ill.

Nel piccolo libro che la Tagete Edizioni ha stampato è concentrata la saggezza lavorativa di una straordinaria bibliotecaria per ragazzi che per trent'anni ha costruito e attivato il mestiere di bibliotecario per ragazzi. A Pontedera. Fino al 2010 nella Villa Crastan. Dal 2014 presso Biblio gronchi. Ci sono, nel testo, passo dopo passo, le avventure quotidiane di Manola, la costruzione delle collezioni di libri, le relazioni coi suoi giovani lettori, coi genitori, coi nonni e con gli insegnanti. Di più, sfogliando le pagine c'è tutto un enorme lavoro di promozione della lettura che Manola Franceschini ha messo in piedi in 30 anni, anche per conto della Rete Bibliolandia (dal 1999) scarrozzando per Pontedera e la Valdera, autrici di libri per ragazzi come Angela Nanetti, Domenica Luciani o Giusi Quarenghi, e autori del calibro di Guido Quarzo o di Roberto Piumini. Autrici e autori di bestseller per bambini e per ragazzi da cui Manola ha appreso l'arte del far leggere e ha dato preziose informazioni sul gusto dei giovani lettori.
Ma c'è anche di più. Ci sono molti dei trucchi del mestiere, soprattutto concentrati sull'arte di far crescere nei bambini e nei ragazzi l'amore della lettura e ci sono, preziosissimi, i suoi suggerimenti di lettura, articolati per fasce di età. E oltre ai suggerimenti si possono trovare i suoi cavalli di battaglia, in cima ai quali sta quel "Mostro peloso" che Manola ha letto, riletto, animato, recitato e stravolto, almeno mille volte davanti a classi di bambini estasiati.
Il libro è insomma il condensato di una lunga esperienza professionale che se Manola non si fosse lasciata convincere a riversare su queste pagine sarebbe rimasto nella memoria dei tantissimi bambini, genitori e insegnanti che in  questi trent'anni si sono abbeverati alla sua arte della lettura, ma poi sarebbe svanita, come spesso accade con le professionalità pubbliche.
Invece, in questo caso, grazie anche a Laura Martini che ha intervistato a lungo Manola e poi ha trascritto e risistemato quelle conversazioni, un concentrato dell'esperienza di bibliotecaria per ragazzi è stato trasferito su carta. Quell'hard disk prezioso per la professione di bibliotecario per ragazzi che porta il nome di Manola Franceschini è stato salvato, digitalizzato e messo a disposizione su vari supporti delle giovani bibliotecarie che già seguono le sue orme, delle famiglie e degli insegnanti che si affacciano sulla porta di Biblio Gronchi, sezione Ragazzi. No. L'esperienza professionale di Manola non se ne andrà con il suo pensionamento. E' salva. Almeno per la parte che Manola ha ritenuto essenziale. Agli altri resta solo l'onere e l'onore di leggere le 100 pagine del volume e di farne buon uso.

sabato 10 novembre 2018

Unità e solidarietà
La sfida che ci aspetta sia alle elezioni Europee che alle amministrative del '19 è molto complicata. 
I gelidi venti che soffiano ostili all'europeismo e le paure rispetto ai migranti nonchè gli egoismi locali solleticati soprattutto da quel camaleontico soggetto politico che è diventata la Lega di Salvini potrebbero travolgere il centro sinistra anche in realtà dove quest'ultimo appare storicamente
radicato. Il vento del cambiamento "a prescindere dai risultati" imperversa. Nè vale più molto che i salviniani o i grillini non dispongano di personalità riconoscibili e valide. Una parte dell'elettorato vota di pancia ed è di bocca buona.
I tempi sono cambiati. Nè la solidarietà cristiana, nè la fratellanza socialista paiono oggi far argine ad uno smottamento culturale e morale in senso egoistico e razzista (è una semplificazione, ma rende l'idea) che sta coinvolgendo anche i ceti popolari. Soprattutto (ma non solo) anziani. Alla base dello smottamento ci sono mutamenti  profondi e uno smarrimento esistenziale che investe larghi strati di popolazione.
Rispetto a questo il PD può rincorrere soluzioni autonome e personalistiche oppure provare a rimettere insieme uno schieramento ampio di centro sinistra ovviamente meno facile da gestire ma più capace di raccogliere consensi e forse di conservare alcune raccaforti.
Al centro-sinistra serve UNITA' e solidarietà. Servono gruppi dirigenti (su scala locale e nazionale) che sappiano non solo accettare le differenze interne, ma coltivare le pluralità e puntare alle condivisioni, consapevoli che questo limiterà i margini di manovra di ciascuno, ma allargherà il campo di azione della coalizione e aiuterà ad arginare i venti avversi, quelli leghisti in primis.
Se i molti laeder di cui il PD è ricco non sceglieranmo di condividere anche con gli altri il loro percorso politico, se andranno in cerca di improbabili rivincite e comunque di affermare le loro idee (costi quel che costi), ci faremo molto male. I nostri leader sono tutti troppo intelligenti e sensibili per non rendersene conto. Ma temo siano anche tutti troppo narcisi per fare un vero passo di lato e partecipare ad un gioco collettivo. Vedremo cosa decideranno.
Ovviamente il risultato sia in Europa che nei comuni italiani non dipende solo dalle mosse dei nostri piccoli e grandi leader. Ma se le loro mosse saranno sbagliate e divisive, anzichè accoglienti ed inclusive, l'esito sarà certamente la disfatta del centrosinistra in Europa e in molte città e paesi italiani. Toscana inclusa. Unità e collaborazione, ci servono.

martedì 6 novembre 2018

L'uomo planetario di Padre Balducci abita anche a Pontedera

Riflettendo sulle vicende di Pontedera, ho letto recentemente un testo scritto nella prima metà degli anni '80 dal sapore profetico. Mi riferisco all'Uomo planetario, di Padre Ernesto Balducci, un prete che stava dalla parte degli uomini. Un prete che difendeva gli ultimi (del resto il figlio di un minatore amiatino da quale altra parte avrebbe potuto stare?). Un prete toscano della genia dei Don Milani, dei Don Mazzi e, per certi aspetti, anche del nostro Don Pino Menichetti, di Don Armando Zappolini e di Don Andrea Bigalli.
Padre Balducci negli anni '80 capì che la globalizzazione del mondo avrebbe richiesto una grande capacità di dialogo e che si sarebbe dovuta affermare una cultura religiosa orientata verso un nuovo umanesimo.
Il pianeta terra, abitato da alcune miliardi di individui, diversi per il colore della pelle, variegati per le tante idee politiche e divisi da religioni e credenze, in realtà era ed è un'unico immenso alveare vorticosamente lanciato nello spazio, sulla cui superficie vivono uomini molto simili tra di loro per mentalità, condizioni di vita, passioni e speranze.
Per Balducci gli uomini che abitano la terra sono "esseri planetari", nati sì in regioni e continenti diversi, ma con un destino comune.
Testo profetico perché oltre trent'anni fa non erano in molti ad avere una percezione planetaria dell'uomo. Oggi invece questa condizione è esperienza quotidiana. Basta entrare in una classe della scuola primaria di Pontedera per trovarsi di fronte bambini e ragazzi che provengono da almeno una quindicina di nazioni diverse, appartenenti a tre o quattro continenti (Europa, Africa, Asia e Americhe).
Anche Pontedera insomma è una città planetaria, dove convivono e crescono persone che parlano un centinaio di lingue differenti, che hanno culture e tradizioni diverse, ma che oggi si trovano qui e qui provano a creare un futuro per sè e per i propri figli.
Ed è dalla qualità di questo cittadino planetario e dei suoi figli, dalla sua capacità di dialogo e di collaborazione, dagli sforzi e dell'impegno che metterà nel realizzare i suoi obiettivi e i suoi sogni che dipenderà anche la sorte delle nostre città multiculturali e multicolori. Pontedera inclusa.
Di fronte alla prospettiva planetaria e al meticciarsi di culture e mentalità si possono avere fondamentalmente tre approcci. Il primo di paura e di rigetto; secondo di accoglienza preoccupata e guardinga, che tenga separate le varie nazionalità; il terzo di accoglienza aperta e generosa ma che sappia anche chiedere a tutti impegno e rispetto per le diversità e per i valori fondamentali dell'uomo e della donna e soprattutto sia in grado di realizzare una cooperazione fiduciosa tra diversi.
Che le destre cavalchino la paura, il razzismo e il rigetto dell'altro è un fatto noto. Il nazionalismo e il colonialismo guerrafondai (e predatori) hanno trovato nel disprezzo di chi abita fuori dai propri confini (siano essi altri popoli europei o asiatici o africani) e nella superiorità degli autoctoni rispetto al resto del mondo la propria stolta ragion d'essere. Per la destra xenofoba solo nel calcio è consentito far giocare insieme, nella stessa squadra e nello stesso campionato, uomini di razze, culture, religioni e lingue diverse. Fuori dai campi di calcio, questo non è accettato.
Nazionalismo e razzismo stanno pericolosamente crescendo anche in Italia, alimentati da élite politiche che utilizzano queste idee folli per conquistare consenso e potere. Ma è bene sapere che anche una parte dei ceti popolari tradizionalmente non di destra, per varie ragioni, sta prestando orecchio a questa musica tragica che speriamo non si trasformi in una danza macabra.
Auguriamoci che le forze della ragione e del dialogo non si lascino incantare dalle sirene della paura e della deriva razzista. E auguriamoci che il centro sinistra continui a ragionare in termini calcistici e a pensare che sono la varietà dei calciatori e le loro differenti esperienze internazionali a fare grande una squadra di calcio. E che ciò che vale per il calcio vale anche per una società e per una nazione. Certo, a patto che tutti i calciatori dalle mille provenienze abbiano voglia di collaborare e darsi una mano. A patto che tutti si impegnino a fare il proprio dovere di cittadini. Ma questa è la sfida.
Ed è sul carattere planetario delle nostre città e sulla figura di Padre Balducci che venerdi prossimo, 9 novembre alle 17,30, Don Andrea Bigalli, presidente regionale dell'Associazione LIBERA, parlerà in piazza Stazione, a Pontedera, sotto la tettoria del Bar Marianelli, oggi di proprietà di una famiglia di cinesi.
La Stazione di Pontedera è diventata la parte più internazionale e più variegata di una Pontedera planetarizzata. Questo nuovo assetto sociale genera anche microconflitti e qualche tensione tra autoctoni e immigrati che la destra xenofoba cerca di ingigantire e utilizzare per conquistare l'egemonia politica sulla città e ribaltarne la storia di comunità aperta e accogliente. Perché ci vuole poco a spingere la gente a guardarsi in cagnesco o a dire male gli uni degli altri o a sottolineare solo ciò che non funziona, a cavalcare la paura, l'insicurezza e l'egoismo; mentre ci vuole più energia, anche morale, per costruire ponti e percorsi di vita condivisi tra persone diverse. Regredire è più facile che crescere ed umanizzarsi. Aggredire è più facile che ragionare.
Per questo la sfida vera è quella di sviluppate e far crescere tra persone di origini diverse il comune senso di umanità. Una umanità che ha tanti volti, che crede a tante idee, che legge e si riconosce in libri diversi, ma che ha un'essenza comune. Questa essenza è la socialità. La solidarietà. Lo spirito di cooperazione. La pietas. Il riconoscersi, se non esattamente uguali, di sicuro simili. Molto simili. Umani.

giovedì 1 novembre 2018

Mauro Tosi (1947-2018), comunista pontederese
È  morto il dott. Mauro Tosi, chirurgo, appassionato di politica e di storia locale. Leader del movimento studentesco cittadino tra il '67 e i primi anni '70, militante di formazioni politiche di estrema sinistra (Centro K. Marx poi Olc), aderì successivamente (fine anni '70) al PCI, ricoprendo un ruolo nella sezione comunista dell'ospedale di San Miniato e credo successivamente di quella di Fucecchio.
Da quando era diventato pensionato si era dedicato alla storia locale con particolare interese per il mondo delle fabbriche e per la storia dei comunisti pontederesi, a cui lo legavano anche le origini familiari. Il padre, Vaillant, infatti, era stato un membro influente del PCI nel dopoguerra, trasmettendo a Mauro una forte impronta marxista leninista.
Insieme al figlio Antonio, Mauro aveva scritto e pubblicato il volume
 Storia della memoria : Pontedera: la guerra, il dopoguerra e l'assalto al cielo dei lavoratori della Piaggio nel 1962, Tagete edizioni, Pontedera, 2005.
Io, che ho conosciuto Mauro tra il 1968 e il 1969, nel corso delle lotte e delle assemblee studentesche, lo ricollego ad una tradizione operaista e un pò stalinista della cultura politica italiana, che in lui non era mai venuta meno.
Uomo estremamente generoso, da diversi anni aveva preso le distanze dalle forze politiche di centrosinistra e dopo la trasformazione del PCI e di molti militanti comunisti con cui aveva collaborato e dialogato, non si era più impegnato direttamente in politica. Ma non se ne era neppure allontanato del tutto. Almeno per quanto ne so io. Anzi, pur senza avere ruoli e compiti, per la politica aveva mantenuto un interesse fortissimo. Ad inizio settembre, quando ci siamo visti per quella che sarebbe stata la mostra ultima chiacchierata, nella galleria della "cooppina", proprio di politica e della complessa vicenda del quartiere della stazione abbiamo parlato. A lungo. Animatamente. Scaldandoci. Collocandoci su posizioni radicalmente diverse. Come negli ultimi tempi ci accadeva spesso, soprattutto sul tema dell'accoglienza e del quartiere stazione. Ma entrambi condividendo una forte passione per l'impegno civile e politico, oltre che un grande amore per la storia locale e per certe memorie operaiste.
Ok. Un pò da reduci del '68 e un pò cercando di vedere più lontano.

mercoledì 31 ottobre 2018

Il '68 e dintorni: mostra di giornali e pubblicazioni d'epoca su

Si è inaugurata il pomeriggio di Halloween, alla biblioteca Gronchi  di Pontedera, una mostra di giornali d'epoca sul '68 e ... dintorni. Oltre 30 pannelli fitti di documenti originali, messi a disposizione e organizzati da Moreno Bertini, leader maximo e anima dei collezionisti della Valdera.
Il Sessantotto e il decennio successivo sono raccontati soprattutto attraverso la voce (o meglio i numeri primi) delle riviste di estrema sinistra "Potere Operaio", "Rosso", il "Bolscevico", "Lotta Continua", "Il Manifesto" (mensile) e tante altre testate simili, a cui sono affiancati anche giornali e settimanali ritenuti allora "riformisti" (tipo "L'Unità" e "Rinascita") o "borghesi", come "La Nazione", "La Stampa", "Il Corriere della Sera", "La Repubblica" e "L'Espresso".
Tutto materiale originale, come vuole la buona prassi del collezionista.
La mostra è densa, fitta, molto concentrata, quasi senza didascalie e tanti oggetti documentari posizionati nelle bacheche.
Ne esce fuori un'immagine complicata di quel tumultuoso decennio (1968/1978) che non credo sia facile per le giovani generazioni (ammesso che trovino la voglia, il mondo e il tempo di visitarla) decriptare.
Tuttavia si tratta di materiale prezioso che vale comunque la pena di mettere in mostra e offrire al lettore ed al visitatore (e la speranza è che qualcuno ci passi di fronte a queste bacheche e si fermi  incuriosito a guardarle).
Nel corso della inaugurazione Moreno Bertini ha illustrato le caratteristiche documentarie ed organizzative della mostra, mentre Giovanni Volpi, professore al Liceo XXV Aprile di Pontedera, ha sinteticamente descritto le linee principali di quel fenomeno complesso che va sotto il nome di '68. Infine Eugenio Leone, che ha sostenuto la circuitazione della mostra (già allestita a Capannoli e a Ponsacco), mettendo in relazione i collezionisti e l'Amministrazione comunale di Pontedera, ha provato a suggerire collegamenti tra il '68 e i nostri giorni, tra i giovani di ieri e quelli di oggi.
Dal mio punto di vista la mostra rappresenta una botta di nostalgia.
Vedere documenti, riviste e giornali, che, almeno in parte, ho tenuto tra le mani 50 anni fa, mi ha ha procurato una certa emozione, che la vecchiaia ha reso malinconica. Ahimè.
Ciò premesso, come ho detto durante la discussione, oggi leggo il '68 essenzialmente come un grande moto planetario contro l'autoritarismo e come una fortissima spinta di sapore hegeliano verso una condizione individuale e collettiva di maggiore libertà ed indipendenza. I giovani (e anche i meno giovani) di allora volevano autodeterminarsi di più e volevano agire con maggiore libertà: in famiglia, a scuola, sul lavoro, nelle istituzioni, in chiesa, nelle proprie piccole patrie. Ovunque. Di qui una contestazione di tutte le forme di autorità e di oppressione. Ad Occidente come ad Oriente. Eravamo contro l'imperialismo americano e contro quello sovietico (e, a parte pochi sbeffeggiati maoisti, anche contro quello cinese). Eravamo contro gli stati autoritari e fascisti, ma anche contro quelli comunisti che opprimevano altri paesi comunisti. Eravamo contro tutti i paternalismi autoritari. Le donne in più volevano parità di diritti, di dignità, di uguaglianza con gli uomini. Gli uomini volevano soprattutto più libertà sessuale. Poi volevamo anche salari e pensioni più alti; e rivendicavamo più diritti e meno doveri. E, almeno molti di noi, anche più beni materiali. Per quanto mi riguarda sognavo un comunismo dal volto umano.
Oggi dico che gran parte di quello che allora chiedevamo (comunismo escluso, e oggi aggiungo per fortuna) lo abbiamo nei limiti del possibile ottenuto; e questo nell'ambito di Stati che, almeno in Occidente, mi sento di definire democratici.
I livelli di libertà e di autodeterminazione individuale e collettivi sono cresciuti, ma gli Stati sono sopravvissuti allo sviluppo della libertà individuali e collettive, l'economia ha continuato ad essere strategica ma anche cogente nelle nostre vite, il mercato è diventato sempre più importante e l'interconnessione e la comunicazione si sono sviluppate in maniera incredibile. Consumiamo più servizi telefonici, tv, cultura ed internet di quanto avremmo mai potuto immaginare allora.  
Oggi, quindi, le giovani generazioni partono da livelli di libertà e di autodeterminazione molto più alti di quelli 50 anni fa e fanno fatica a immaginarsi altri grandi traguardi. E' normale che sia cosi. Il mondo del lavoro e delle professioni è cambiato. Si è complessificato. E per quanto i giovani ne sappiano molto più di noi, penano a posizionarsi. Soprattutto se seguono percorsi di studio lontani dagli sbocchi occupazionali o se sognano il posto sotto casa. Sotto casa si faceva il contadino, l'operaio e l'impiegato. Ma i cambiamenti hanno ridotto al lumicino, in occidente, questi tre tipi di occupazione.
Le stabili democrazie non consentono oggi grandi sogni immaginifici e il socialismo e il comunismo (una volta provati e, almeno in Europa e in diverse altre parti del mondo, rigettati) non scaldano più il cuore a nessuno. O a pochi. Dobbiamo farcene una ragione.
Ognuno oggi è più solo, ha osservato il professor Volpi, rispondendo ad una mia osservazione. Beh, sono almeno 300 anni che la grande letteratura europea e nordamericana ci dice che l'uomo contemporaneo è abissalmente solo. Il Novecento è stato attraversato da una fondamentale corrente di pensiero, l'esistenzialismo, che ha fatto della solitudine uno dei suoi punti centrali. E molte altre filosofie hanno sottolineato questo aspetto. Siamo soli. E' cosi. Probabilmente non facciamo nemmeno parte di un disegno intelligente e tra gli ottanta e i novanta anni concludiamo il nostro ciclo vitale. Molti, oltre ad essere soli, odiano gli altri. Soprattutto se gli altri hanno un colore della pelle e parlano una lingua diversa dalla loro. Magari per essere meno soli potremmo essere più altruisti. Invece avverto gelidi venti razzisti tornare a scuotere anche l'Europa.
Comunque, essere più liberi, più autodeterminati e consapevoli vuol dire provare anche più solitudine. Vuol dire sentirsi più fragili, più responsabili, più preoccupati, più ansiosi rispetto al proprio futuro. Sapere di più, essere più coscienti e essere più consapevoli di sè e degli altri, vuol dire soffrire emotivamente di più. L'età della responsabilità e della consapevolezza è sempre molto più difficile dell'età delle illusioni e delle ideologie. Per questo nonostante i processi di secolarizzazione e nonostante "il dio è morto" di Nietzsche, le religioni continuano a proliferare e ad aiutare gli uomini a dare un ritmo e un senso alla loro vita.
In questo contesto di maggiore libertà e consapevolezza molti auspicano anche il ritorno a ideologie assassine.  Alcuni sognano di nuovo stati nazionali forti (dove uno solo comanda e pensa e decide per conto di tutti, ovviamente per il bene del popolo). Altri odiano gli stranieri. Altri ancora cercano la felicità nelle comunità autosufficienti aggredite dai processi di globalizzazione.
Sembra proprio che la storia non ci riesca ad essere maestra di vita.

lunedì 29 ottobre 2018

Alla biblioteche scolastiche non bisogna regalare libri, ma bibliotecari

Non ho niente contro la campagna #ioleggoperchè che anche quest'anno ha regalato libri alle biblioteche scolastiche. Faccio il bibliotecario da 36 anni (circa), collaboro con biblioteche scolastiche da altrettanti anni, conosco presidi e dirigenti scolastici, di alcuni suppongo pure di potermi considerare amico, eppure .... eppure sostengo, dopo 35 anni di esperienza professionale, che alle biblioteche scolastiche non servono libri, ma c'è invece bisogno di donare bibliotecari. Bibliotecari veri, in carne ed ossa e bravi.
Dai, Roberto, non ci prendere in giro. Come si fa a donare bibliotecari alle scuole? E poi perchè?
Una bella risposta al perchè è contenuta in un recente libro di Gino Roncaglia (intitolato "L'età della frammentazione. Cultura del libro e scuola digitale", Bari, Laterza, 2018, in particolare nelle pagine da 152 a 197). Ma mi rendo conto che suggerire una risposta contenuta in 45 pagine di un libro non è elegante. Chi non mi conosce, non andrà a leggersi le pagine di Roncaglia. E anche chi mi conosce, non lo farà.
Allora mi trovo costretto a sintetizzare.
Le biblioteche scolastiche sono rimaste (nella stragrande maggioranza dei casi) dei magazzini di libri invecchiati, per lo più ad uso di pochi docenti. Negli ultimi 30 anni in questi magazzini è accaduto quasi niente. Sì, qualcosa è stato catalogato. Qualcosa perfino messo in internet. Qualcosa digitalizzato. Insomma le BS hanno sbattuto sull'automazione, ma senza modificare il loro andazzo soporifero. E questo perchè quasi mai un bibliotecario come si deve è entrato in una biblioteca scolastica.
In taluni casi sono arrivati un po' di libri nuovi (ma soprattutto sono arrivate pessime donazioni), ma bibliotecari come professione comanda quasi mai (e questo per essere ottimisti).
Ma che c'entrano i bibliotecari coi libri delle biblioteche scolastiche? Bella domanda.
Quello che i dirigenti scolastici fingono di ignorare è che i libri non vivono di vita propria. I libri, per funzionare bene, debbono essere somministrati. Servono persone che conoscano bene i lettori e i libri e che sappiano dare, nella maniera giusta, il libro giusto ed in dosi giuste ai lettori. E, credetemi, quella di far leggere gli altri è un'arte. Una grande arte, che non ha niente da invidiare a quella dei pittori o dei calciatori. Anche se è molto meno pagata, perchè non interessa per niente al grande pubblico e nemmeno ai ricchi.
Ovviamente per i libri aspirina va bene anche il fai da te, ma per i buoni libri, per i libri che aiutano a crescere, lì serve il bibliotecario che suggerisce, propone, mette davanti le letture giuste, ascolta i gusti delle persone, sa come incoraggiarle a leggere. Almeno a provarci. Ma tutto questo la scuola italiana non è in grado di capirlo. Può assumere 140.000 insegnanti di sostegno (per aiutare i ragazzi con disabilità), ma assumere 10.000 bibliotecari veri che aiuterebbero 7 milioni di ragazzi a leggere, questo non sa farlo. Questo è un paese che capisce la parola "salute" (non a caso siamo longevi e anziani), capisce i bisogni sociali (140.000 insegnanti di sostegno, con una media di 20/30 per istituto superiore stanno lì a dimostrarlo), ma la lettura, dai, di incoraggiare alla lettura si può fare a meno (ed infatti in quasi nessun istituto superiore c'è un, leggasi 1, bibliotecario professionale).
Ma è chiaro perchè le cose vanno così, diranno i miei 27 lettori. Nella scuola il mediatore specializzato tra i libri e i ragazzi c'è già. Anzi ce ne sono tanti. Sono gli insegnanti.
Sbagliato, rispondo io. Credere che gli insegnanti siano buoni suggeritori di libri è un inganno. E non solo perchè spesso gli stessi insegnanti non sono buoni lettori, conoscono solo i libri che piacciono a loro (e su cui si sono formati, magari quando erano giovani), oppure non sanno presentare i libri ai ragazzi, nè si sforzano di capire i gusti e i desideri di lettura dei ragazzi. Ovviamente ci sono insegnanti che sono buoni lettori, che leggono moltissimo e di tutto, che conoscono i gusti dei ragazzi e sanno presentare i libri ai giovani. A questi insegnanti tanto di cappello. Ma... di insegnanti così... io ne conosco pochi pochi. Mentre di insegnanti ne conosco tanti.
La verità è che soprattutto nella scuola media e negli istituti superiori mancano bibliotecari che per 18 ore alla settimana stiano in biblioteca o girino per le classi ma solo per offrire libri come doni ai ragazzi e ai colleghi. Mancano bibliotecari che incoraggino la lettura e che conoscano davvero bene l'offerta libraria su carta e su digitale. Che ci sappiano fare con i ragazzi e con gli insegnanti.
E allora come meravigliarsi che i ragazzi leggano poco quando in famiglia hanno genitori che spippolano sugli smartphone appena meno dei loro figli; quando hanno nonni rintontoliti da tv perennemente accese e a scuola non c'è nessuno che cerchi di avvicinarli quotidianamente e con sensibilità giusta ai libri?
Concludo. Se vogliamo che i ragazzi leggano di più, dobbiamo regalargli bibliotecari, soprattutto regalarli alle scuole. Come? Magari con un bonus bibliotecario. Un'ora di bibliotecario costa come un libro, sui 22/23 €. Ecco, propongo che invece di regalare 100 libri ad una biblioteca scolastica, gli si comprino 100 ore di un bibliotecario sveglio. Naturalmente assicurandoci che sia davvero sveglio. Perchè se lo è sveglio, quel bibliotecario riuscirà almeno a far leggere un libro a qualche centinaio di ragazzi. Mentre 100 libri scaraventati in una biblioteca scolastica priva di un bibliotecario rimarranno non letti. Non se ne gioverà nessuno. Certo i donatori si sentiranno gratificati (hanno donato). E i dirigenti potranno dire di avere una biblioteca ricca di libri (hanno ricevuto). Ma la verità è che quei libri sono come una sacca di sangue donata senza che nessuno sappia trasferire quel sangue ad un paziente che ne ha davvero bisogno. Esagero? Temo di no.


domenica 26 agosto 2018

Salvini ha perso il braccio di ferro sulla Diciotti e i suoi profughi. Meno male.
L'europa, la magistratura italiana e i vescovi pure italiani lo hanno contretto a darsi una calmata e sono riusciti a convincerlo che lui è il ministro dell'interno ma non è ancora Dio.
Salvini ci ha messo un po' a capire la cosa perché in lui l'azione precede sempre il pensiero. È la sua natura. Il guaio è che a volte il pensiero di Salvini vista l'azione che l'ha preceduto rifiuta di presentarsi perché poi è costretto a sparare balle. Balle come quella sui vescovi italiani che farebbero parte del terzo paese straniero che ha aiutato il povero Salvini a trovare una collocazione provvisoria ad un centinaio di migranti.
Che sia questo il sesto mistero di Fatima?
Forse Di Maio potrebbe chiederlo a Rousseau?


martedì 14 agosto 2018

Presidiare facebook o no?
Ma i politici e le persone interessate alla politica e al vivere civile debbono presidiare facebook e ascoltare gli umori che lì si esprimono o possono ignorarlo?
Se, come avrebbe sentenziato Heidegger, l'importante è esserci, allora Facebook va presidiato e ascoltato. È uno specchio deformante e solo un mezzo oracolo della verità, ma racconta comunque cose interessanti del mondo vicino e lontano che ci circonda.
Solo che il presidio di fb va organizzato con lo spirito giusto e con la giusta misura. Intanto occorre sapere che fb assomiglia molto ad uno stadio di calcio o ad un bar e molto meno ad un'assemblea pubblica.
E chi abbia frequentato, per età e per genere, un pò stadi e bar (e anche assemblee pubbliche) sa quali tipologie di voci e di idee vi si esprimano. Per non parlare dei toni.
Come lo stadio, fb è essenzialmente un grande sfogatoio di malumori, oltre che una debordante vetrina per narcisisti (e narcisisti per natura lo siamo un pò  tutti) e uno spazio per fare pubblicità e propaganda. Per altro fb è gratuito e questo garantisce uno strillo, un bercio o un urlo proprio a tutti.
Ed è  bene che tutti possano strillare pubblicamente e gratuitamente. Così mostrano, almeno in parte, chi sono e cosa valgono, a chi sappia decifrare i loro berci.
Ovviamente su fb si ascoltano anche frasi sensate e intelligenti. Garantisco che anche allo stadio e al bar era e forse ancora  è  così.
Ma nella realtà è sempre così. Stupidità, volgarità, sensibilità e intelligenza si mescolano. Vale anche per lo stadio e per fb.
Ciò che non si può avere è che i sensibili ed intelligenti ammansiscano negli stadi gli stupidi e i volgari e li costringano a ragionare e a non strillare. Accade semmai il contrario, ovvero che sensibili e gli intelligenti una volta entrati negli stadi regrediscano e si mettano a urlare anche loro perdendo un po' di dignità. La follia, lo notava già Erasmo, è molto più coinvolgente e più potente della ragionevolezza.
Aggiungo che gli intelligenti ed i sensibili che coltivassero la pretesa di far ragionare con obiettività le persone che si trovano negli stadi o su fb si mostrerebbero  un pò sciocchi e patetici.
Tuttavia provarci potrebbe non essere solo tempo sprecato. Basta non aspettarsi troppo da questo esercizio spirituale.

sabato 11 agosto 2018

Non sono i popoli ad essere populisti, ma alcune élite ad essere demagogiche, arroganti, autoritarie, razziste e nazionaliste

Mi sono persuaso che siano le élite o una parte di loro, incluse quelle che gestiscono, a vari livelli, le informazioni e la politica, a coltivare e diffondere sentimenti negativi, aggressivi ed egoisti.
Certo una parte del popolo poi si appropria dei cattivi sentimenti e li sviluppa perché i sentimenti negativi sono come virus e batteri e si annidano dentro ognuno di noi e se non curati possono crescere, moltiplicarsi e alla fine divorarci.
Ma certi virus razzisti o xenofobi possono essere tenuti sotto controllo. Ci si può addirittura vaccinare per evitare la proliferazione e il contagio delle cattive idee. Si possono organizzare presidi contro il proliferare di idee balorde e pericolose. Ad es. : le istituzioni europee per 70 anni sono state un vaccino potentissimo contro i nazionalismi e le arroganze imperiali nonché  il razzismo e il fanatismo, tutte idee "assassine" che nei primi quaranta anni del '900 avevano mandato al macello, in due guerre catastrofiche, milioni di giovani e di persone di tutte le età.
E tuttavia in barba agli insegnamenti della storia e della memoria una parte delle élite, inclusi molti politici e giornalisti, stanno lavorando contro le istituzioni europee e contro altri presidi sanitari, come le istituzioni democratiche. Una follia.
Perchè  lo fanno? Per prendere voti e potere nei loro piccoli stati, fregandosene del fatto che per ottenere questo scopo utilizzino idee pericolosissime e seminino zizzania tra la gente e tra gli stati. Di solito chi maneggia idee assassine ne minimizza sempre la portata o sostiene che è il popolo le vuole. E queste elite demagogiche sostengono appunto di agire per il bene e in nome del popolo. Ma anche i nazisti usavano la parola popolo e perfino il termine socialismo per giustificare le loro peggiori atrocità razziste.
Purtroppo il ritorno di idee "assassine" potrebbe provocare grandi guai, perfino far scoppiare guerre o produrre disastri che sarà come sempre il popolo a pagare.
Per questo occorre rispondere alle élite di untori che favoriscono la crescita dei virus nazionalisti e razzisti e trovare una profilassi per arginare questi malanni, chiamando a raccolta tutti gli anticorpi. L'epidemia potrebbe diventare grave e contagiosa.
Serve un fronte comune di tutti coloro che credono nell'altruismo e non nell'egoismo, nell'accoglienza e non nei respingimenti, nell'Europa e non nel nazionalismo, nella democrazia parlamentare e non nei siti web, nella solidarietà attiva e nella collaborazione e non nel risentimento sospettoso.
Serve un insieme politico plurale che al di là delle specifiche differenze faccia argine alle forze pericolose che potrebbero disgregare gli assetti democratici e il fragile ordine europeo.

sabato 14 luglio 2018

La bibliotecaria Manola Franceschini di Pontedera va in pensione

Oggi è stato l'ultimo giorno di lavoro della bibliotecaria Manola Franceschini. Arrivata in biblioteca, a Pontedera, nel 1987, Manola ha costruito e portato al livello più alto possibile la sezione dei bambini e ragazzi della biblioteca, realizzando un percorso interessante e professionalmente di alto livello. Prima di qualunque altro ragionamento, credo che sia necessario riconoscere pubblicamente il suo impegno e la grande passione che ha messo nello svolgere il suo lavoro. Impegno e passione immediatamente visibili a tutti coloro (adulti e piccini) che entravano nella biblioteca dei ragazzi. E se la sezione ragazzi della Biblioteca Gronchi è una tra le più belle esperienze in questo settore, quanto meno nell'ambito della Toscana, gran parte del merito è suo e del suo impegno quotidiano. GRAZIE MANOLA!
riscopriamoci misericordiosi. leggendo insieme storia di vita / Misericordia Ponsacco Onlus, 2018, p. 103

Libro meritorio. Racconti tutti dotati di un significato morale. Di una spinta etica verso il bene. Verso la speranza. Positivi. Alcuni più leggeri. Altri più profondi. Bene ha fatto la Misericordia di Ponsacco, con l'aiuto delle animatrici di Boscoborgo, a mettere insieme il concorso e a selezionare i racconti.
La vulnerabilità / Laura Capantini - Maurizio Gronchi, Edizioni San Paolo, 2018, pp. 139

Queste riflessioni sulla vulnerabilità sono molto utili per riflettere sulla nostra condizione di fragilità. Una condizione che non è solo contemporanea, ma che nella contemporaneità assume uno stato tutto particolare, perché si abbina ad un sentimento di onnipotenza (aggressiva) e ad un forte egoismo che pervade e conquista masse, popolo, gente. Il testo nasce e si abbevera della traduzione biblica e cristiana. Mi auguro che venga letto e meditato dal maggior numero di persone possibili. E' una medicina quella che ci somministra. Vivere con serenità e comprensione la propria e l'altrui vulnerabilità (inclusa quella di Dio) è un grande sforzo. Etico. E necessario.
Georgia: il paese che Dio voleva per sè / Francesco Trecci, Apice Libri, 2017, pp.86

Seconda fatica di Trecci, che va annoverato tra gli innamorati della Georgia, l'ex repubblica dell'URSS ed ora stato indipendente, collocato tra il Mar Nero e l'area del Caucaso. Si tratta di una simpatica guida turistica, scritta da uno che in Georgia ha viaggiato e si è trovato molto bene. Lettura piacevole, ma va detto che non si tratta di un guida turistica professionale. E' più una guida turistica passionale. Servono anche queste.

giovedì 12 luglio 2018

Porti aperti: l'orizzonte del PD

Renzi e i "renziani" contano ancora molto nel PD. Forse, come ha gridato Lui all'assemblea dell'Ergife, sono ancora maggioranza. Si vedrà. Certo lo sono tra i gruppi parlamentari. Ma se il fu segretario ha forse ancora i numeri per controllare in parte le dinamiche del partito, quando si passa alle idee, beh, quelle del finalmentedimessosi paiono piuttosto confuse e astiose. Storditi e inaciditi dai risultati dalle elezioni politiche e da quelle amministrative, è normale che i Renzianos non sappiano che pesci prendere. Per questo di solito ci si dimette e ci si prende il tempo che serve per riflettere. Ma i Renzianos non sono così. Sognano napoleoniche rivincite.
Ma al di là dello stile, quello che alla fine conta sono le mosse concrete. E per elaborare le scelte giuste, occorrerebbe fermarsi a riflettere e ascoltare la voce di chi ancora appartiene come militante al partito (se si vuole essere sostenuti dai militanti), di chi sostiene di averlo votato il Pd (se si vuole essere ancora votati) e di chi potrebbe partecipare ad un'alleanza con il PD e potrebbe dare una mano ad arginare l'ondata nazionalqualunquista che dilaga e sta consolidando una forte egemonia nel Paese.
Che nel frattempo al PD tocchi recitare, in Parlamento e in tanti comuni, il ruolo dell'opposizione, è scontato. Allora prendiamo la cosa come un'opportunità. Per riorganizzarci. Senza l'affanno di dover far bene subito. Magari formiamo un governo ombra (chiamando anche alcuni amici della futura coalizione di Centro Sinistra, perchè da soli non si andrà da nessuna parte). Diamoci un programma minimo. Andiamo a cercare nuovi alleati per costruire un futuro diverso dal presente nazionalqualunquista in cui siamo.. immersi.
Stiliamo 10 valori forti da condividere con gli Italiani e lavoriamoci sopra.
Cominciamo dal lavoro? Bene. Facciamolo.
Democrazia e regole del gioco? Ok.
Poi vogliamo parlare di Europa come ideale per le nuove e le vecchie generazioni. Meglio
Accoglienza e capacità di integrarci con i migranti. Serve una politica dei porti aperti. Fissiamo la cosa. E poi teniamo il punto.
Impresa come elemento strategico per lo sviluppo del paese? Perchè no.
Straordinari investimenti in infrastrutture culturali: musei, biblioteche, teatri, archivi, cinema, musica. Insomma un piano serio e credibile.
L'anno prossimo ci aspetta un'altra doppia tornata elettorale impegnativa. Guardiamo a questa con il respiro lungo e non col fiato corto.
Sosteniamo politiche in cui crediamo e non inseguiamo né il nazionalista, razzista, egoista ed autoritario Salvini, nè il qualunquismo ciarlatano e pressapochista di Grillo e Di Maio, di cui dobbiamo smettere di dire che sono populisti (non foss'altro perchè essere a favore del popolo non può essere un elemento negativo). Per loro l'accusa di populismo è vento in poppa. Per noi un boomerang. Il Pd deve rimanere favorevole all'integrazione europea,  all'accoglienza dei migranti (su cui dovremmo investire di più a partire dalla scuola e dai processi di alfabetizzazione) e contrari invece a dare le armi ai cittadini per farsi giustizia da soli. Più soldi nella scuola e più soldi nella cultura. Questa è la linea della civiltà e della divisione tra il noi di Centro-sinistra e la destra nazionalqualunquista.
Dobbiamo convincere una parte del popolo italiano, che non era fino ad un decennio fa a maggioranza nè razzista, nè qualunquista e nemmeno nazionalista, a tornare a pensare positivo; ad essere accogliente e a resistere alle scorciatoie autoritarie, pistolere ed egoiste. Non sarà facile, ma è il nostro dovere morale, prima che politico.
In sostanza c'è tutto un lavoro culturale da fare per ricostruire un orizzonte comportamentale del centro sinistra e per far sì che le quattro grandi anime del PD (quella socialista, quella comunista, quella liberale e quella cattolica) trovino un nuovo e più collaborativo livello di integrazione e generino nuove speranze raggiungibili, che sappiano tenere insieme diritti e doveri dei cittadini e produrre proposte politiche e amministrative efficaci.
Questa ricostruzione culturale (che non rottama e non manda via nessuno, semmai cerca di far tornare a casa qualcuno) è il cuore del lavoro da fare. Perchè sta saltando il legame tra il PD e una parte dei ceti impoveriti di questo paese, sta tramontando il legame ideologico tra il PD e aree importanti di questo paese (Emilia, Toscana, Umbria), e si assiste anche all'indebolimento del rapporto tra PD e i ceti produttivi, operosi, imprenditoriali.
Vogliamo mettere in atto strategie per rovesciare questa deriva? Se non lo faremo, il nazionalqualunquismo dilagherà e sarà egemone a lungo, producendo guasti e rischi.
Ma per cambiare registro occorre che i  Renzianos dismettano le loro arroganti incertezze e gli Antirenzianos abbandonino i sogni di rivincita. Se invece gli uni e gli altri continueranno a guardarsi in cagnesco non partirà alcun dialogo attivo con le masse che resteranno ancorate alla paura, all'egoismo, al razzismo e al nazionalismo: tutti sentimenti che montano e che trovano terreno fertile in una popolazione sempre più anziana, attratta dalle sirene sbagliate. Senza un nostro cambio di passo il lavoro di sfilacciamento continuerà. E quando saranno saltati tutti i collanti culturali nel centrosinistra (in un contesto in cui il cattolicesimo di sinistra fatica persino a giovarsi dell'esempio e delle parole di Papa Bergoglio), quando la disarticolazione del Pd diventerà definitiva, allora il Paese (inteso come stato, regioni e comuni) galleggerà in un liquido bipolarismo tra Centro Destra (a trazione Salvini) e M5S, con tutto attorno un proliferare di liste apparentemente "civiche", ma nella sostanza legate agli atavici e autistici "particularismi".
Solo un maggior spirito di squadra dell'area vasta del Centro sinistra può salvarci. E questa squadra deve imporsi come obbligo morale quello di non rottamare proprio nessuno. Perchè c'è bisogno di tutte le risorse e di tutte le intelligenze per arginare il nazionalqualunquismo. Prima ce ne renderemo conto, meglio sarà.



venerdì 6 luglio 2018

Archivio: concetti e parole / Federico Valacchi, 2018, Editrice bibliografica, p. 125, 13 €

Il breve dizionario archivistico di Valacchi mi ha stimolato alcune riflessioni che, anche se non so bene per chi, sento il bisogno di affidare a quello spropositato e molto anarchico archivio digitale che è internet. Message in a bottle.
Se gran parte degli archivi pubblici sono o privatizzati o, a parte alcune eccezioni, malamente accessibili e disfunzionali, almeno in Cacania, ci sono alcune ragioni storiche (non casuali o bizzarre) che la scarna legione degli archivisti sessantenni, con gli appropriati ruoli istituzionali, dovrebbe avere almeno il coraggio di esaminare ovviamente lasciando la soluzione dei problemi ad altri, perché che gli archivisti pubblici siano una specie in via di estinzione è certo.
En passant segnalo che fra i circa 130 termini di cui il dizionario tratteggia un contenuto mancano ANAI, archivista e professione. E su queste involontarie ma eloquenti assenze (soprattutto per un testo giocato sulla cifra ironica, meditabonda, tra il gigione e il piacione), insieme a qualche archivista lumbard della fu Associazione Archilab, se ci sarà modo di vedersi, faremo battute a non finire. A cominciare dalla frase il cui l'autore sostiene che la "nostra società ha un disperato (sic!) bisogno di archivi e della coscienza civile di cui essi sono impastati" (p.11). Proprio "disperato". Si vede bene.
E scrivo questo perché una professione come quella che ereditammo negli anni '80 e che oggi ha quasi completamente perso la sfida della modernizzazione non poteva che finire come è finita, ovvero evaporata. E di questo un dizionario di filosofia archivistica forse doveva dare conto. Ironicamente, si capisce. Incitare (come fa alla voce DOMANDE) alla rabbia e alla rivolta "archivistica" senza indicare quale "quartier generale bombardare o assalire", via, non è credibile. E' teatro.
Ma qui mi fermo perché il problema dello stato semicomatoso degli archivi storici non è colpa esclusiva  della professione. Sostengo solo che se i tempi sono contrari agli archivi, la professione, mentalmente molto ministerializzata e arcaica, almeno in Cacania, ha peggiorato le cose.
Certo ciò che fa sprofondare gli archivi nell'indifferenza generale pesca la sua materia oscura nella Storia o meglio nel bisogno che le società contemporanee e la Cacania in particolare hanno della Storia e nel correlato livello di sensibilità che le élite politiche hanno per la storia (e per l'uso della storia). Molto di quello che succede dopo, discende da qui. Ora il termine storia nel dizionario c'è ma è poco più di un poetico tweet. Mentre le riflessioni sull'altro e più complesso intreccio di relazioni non si prestano a voci tweettate. Cosi un po' di analisi generale è affidata all'introduzione e un po' è diluita nelle voci (inclusa la già citata DOMANDE). Ma il carattere quasi giocoso del testo non permette il giusto approccio alle problematiche archivistiche.
Alle élite che guidano gli 8000 comuni e la Nazione della storia non importa quasi più niente. Questo per due sostanziose ragioni. La prima è che viviamo, anche qui in Cacania, in una realtà talmente arzigogolata, cangiante e variegata e di cui capiamo così poco che cercarne nel tempo la genesi e le cause particolareggiate sarebbe costoso, incerto e alla fine poco utilizzabile per le élite. Inoltre la storia non è più tra le materie formative delle élite. L'Università, da parte sua, produce sempre meno storici e soprattutto meno storici che hanno bisogno di archivi storici. La saggistica storica sopravvive, poco letta e poco venduta. Va meglio alla narrativa storica. Quest'ultima in effetti, a livello popolare, un po' tira (con le sue appendici cinematografiche e seriali), ma ha poco bisogno degli archivi. Lavora sul suggestivo. Lavora sul negazionismo (peccato che non ci sia questa voce nel dizionario). Ricuce. Inventa colpi di scena, seguendo i gusti e le attese del grande pubblico, che, è noto, chiede lacrime, sangue e sesso (voce quest'ultima inclusa anche nel dizionario di Valacchi).
In un contesto simile, le élite che fiutano e corteggiano la sensibilità (e i voti) delle masse (masse a cui degli archivi non importa nulla e non sanno nulla). Ma soprattutto le élite, che decidono come spendere i soldi pubblici, affievoliscono costantemente la loro già scarsa sensibilità storica. Del resto le  élite tendono a rompere col passato e a legittimarsi politicamente come "rottamatori" e rinnovatori della tradizione e non come continuatori. E questo vale sia sul piano nazionale che su quello locale. Le speranzose masse chiedono cambianti col passato. Le élite glieli promettono. L'indifferenza (quando non il disprezzo) per il passato e i suoi strumenti trova qui una fusione tra masse ed élite non facilmente reversibile.
Il risultato di questa situazione in Cacania assume le vesti di servizi archivistici pubblici scadenti e spesso pietosi. Archivi con poche ore di apertura, pochi utenti, poche professionalità di ruolo, poca didattica della storia rivolta alle scuole. Almeno per le aree che conosco meglio. Una vera pena. In 35 anni di professione che mi ha portato ad occuparmi sia di biblioteche che di archivi posso dire di aver toccato con mano l'ammodernamento delle biblioteche pubbliche di ente locale. Mentre sugli archivi storici (e anche di Stato che conosco) i passi sono stati da lumaca. A volte perfino da gambero.
Perché scrivo questo? Ripeto che non lo so. Negli anni '90 con alcuni amici archivisti fondammo una rivistina, "Archivi e computer", scommettendo sull'informatica, sugli archivisti libero professionisti (ALP), sui MUF (i Mitici Utenti Finali), su nuovi standard descrittivi e sulle privatizzazioni per rinnovare il settore. Nei primi anni 2000 fu però chiaro che, almeno in Cacania, nuove tecnologie, libera professione, privatizzazione, MUF e standard non ce l'avrebbero fatta a contrastare la complessa involuzione in cui anche gli archivi nostrani si stavano infilando. La nostra generazione archivistica non è stata all'altezza della sfida ed in particolare non ha saputo cogliere l'enorme opportunità offerta dall'avvento dell'informatica. Leggere le voci di un dizionario che la postfatrice definisce atipico non aiuta a capire cosa diavolo sia successo, perché sia successo e cosa, forse, si potrebbe fare per migliorare. E' la maledizione dei 5 milioni di Arcadi di cui parlava già Pasquale Villari subito dopo l'Unità d'Italia. Abbiamo un problemino: ci si filoseggia sopra.
Ecco, forse ho scritto per aiutarmi ad elaborare il lutto di una sconfitta di cui mi sento in parte responsabile e perché trovo insopportabile che la generazione archivistica uscente, quella dei sessantenni, non riesca a raccontare la realtà in maniera lucida e soprattutto, ora che non ha più niente da perdere, nè da guadagnare, non sappia proporre qualche diverso rimedio.
Rimedi che non stanno nell'inventarsi una specie di poetica, stralunata, filosofia archivistica quale chiave di accesso per sensibilizzare il grande pubblico al disperato bisogno di archivi per richiamare le parole dell'autore. Semmai si tratta di capire quali micro azioni, con costanza e continuità, a quali livelli istituzionali, mettere in atto per cambiare le idee delle nostre élite. E quali azioni (stimoli, ecc.) promuovere per favorire la frequentazione degli archivi ad un numero significativo di persone. Certo se, come scrive Valacchi alla voce TROTTOLA, "la storia, in fondo, è un fenomeno casuale, una trottola bizzarra dentro alla quale le cause rincorrono gli effetti" quale bisogno di conoscenza storica ci può essere per le  élite e per le persone ordinarie? Se davvero la Storia è una trottola bizzarra e casuale, allora hanno ragione le élite a giocare con la memoria come meglio gli piace e a fregarsene anche degli archivi.
Se infine negli archivi, come scrive sempre l'A. alla voce VERO, "non si va a cercare una verità assoluta ma interpretazioni del tempo trascorso e lampi di futuro. Il vero è un miraggio documentario", ma allora le  élite e le masse fanno 2+2=4 e sostengono non c'è bisogno neppure degli archivi, né di spendere soldi per conservarli. Ma se gli archivi scompariranno non daranno più lavoro (voce assente, come libera professione, in un dizionario che pure contempla alcune righe dedicate a NUDO) agli archivisti. E allora verrebbe da chiedere: perché mai formare archivisti?
Concludo sostenendo che negli archivi una qualche verità assoluta, contrariamente a quanto sostenuto dall'A., spesso si può trovare. Lo sanno bene diverse centinaia di persone che da alcuni mesi si sono messe a cercare anche negli archivi comunali, attraverso i tribunali di competenza, i propri genitori biologici. Infatti se tra le serie archivistiche dell'ex OMNI e degli Ospedali usciranno fuori annotazioni e date significative, non sarà impossibile scoprire chi è stata la propria madre naturale e forse da lei risalire perfino al proprio padre naturale. E se i genitori sono vivi (e potrebbero esserlo) fargli una telefonata, andarli ad incontrare, creare con loro una famiglia allargata. E se questa non è una verità assoluta che cos'è?
Insomma davvero un testo "atipico" che per contrasto stimola tante riflessioni. Che sia questo il vero fine del testo o sia solo un prodotto dell'eterogenesi dei fini?



giovedì 28 giugno 2018

Il paese è cambiato.
L'alleanza tra nazionalisti e "miracolati" è il risultato del mutamento.

Le elezioni politiche del 4 marzo ci hanno detto che il paese è cambiato e continua a cambiare, e perfino in modi diversi a seconda della aree del paese.
Al Nord cresce una società che fronteggia la globalizzazione, produce per i mercati del mondo, compete e vuole stare in Europa, ma recuperando una maggiore sovranità ovvero una maggiore autonomia nazionale. L'Europa, almeno per i nordisti, è ancora utile, ma non è più un mito, né un sogno. Al Nord si punta ad assumere un maggiore protagonismo "nazionale" per dare meno risorse all'Europa e ottenere più benefici da Bruxelles (in soldi, in flessibilità, in aiuti alla politica migratoria, ecc.). Naturalmente questo sacro egoismo nazionale è perseguito da tutti i 26 paesi dell'UE e quindi, come è lapalissiano, è molto difficile da realizzare (se tutti vogliono versare meno soldi nelle casse dell'Europa e allo stesso tempo prelevarne di più, sarà difficile che ce la si cavi senza far crescere il livello del debito europeo che andrà a sommarsi ai debiti nazionali).
Al Sud ha contestualmente preso forza il movimento dei "miracolati" ovvero di chi pensa e soprattutto spera che lo Stato "tardonazionalista" riapra i cordoni della borsa, distribuisca pensioni e lavoro o, ancora meglio, assegni "paghette" a tutti senza pretendere in cambio neppure del lavoro. Ovviamente in un paese che cresce poco (perché edilizia e meccanica sono ferme da oltre un decennio e lì resteranno) distribuire più pensioni e paghette implica spingere in alto il livello del debito nazionale scaricando sulle giovani generazioni un ulteriore fardello. Così a fermarci su questa strada "debitosa" non è solo l'Europa, ma anche i mercati che dovrebbero prestarci i soldi e che per farlo ci chiedono più interessi (ovvero più spread e più soldi). Insomma anche i mercati ci sconsigliano di fare altre debiti.
Per queste ragioni nazionalisti e miracolati odiano l'Europa e i mercati, odiano le vecchie caste politiche (che tenevano e tengono conto dei vincoli europei e dei mercati), trovano antipatici i migranti (che per loro sono solo portatori di crimini e di insicurezza sociale) e non possono soffrire il PD. Quest'ultima forza politica agli occhi di nazionalisti e miracolati incarnava un dialogo aperto con l'Europa, l'accettazione dei limiti alla sovranità nazionale e soprattutto una politica di accoglienza, che non solo non criminalizzava i migranti, ma punta(va) ad una Italia sempre più integrata e multiculturale.
Ora la frana elettorale del PD anche nell'Italia di mezzo (Toscana, Umbria, Marche, Emilia e Lazio) ci dice non tanto (come sostenevano Bersani e D'Alema) che il PD è troppo poco di sinistra quanto che le idee nazionaliste, xenofobe e miracolistiche hanno fatto breccia anche tra le ex genti "rosse", duramente scosse dai cambiamenti, dalla redistribuzione delle attività e delle risorse economiche.  Egoismo nazionalista, sentimenti xenofobi e attese messianiche sono dunque penetrati come virus anche tra gli ex elettori del PD e i frequentatori delle feste dell'Unità e soprattutto tra i ceti più popolari, invogliandoli a premiare la Lega e i 5 Stelle e a consegnare a Salvini & Di Maio il governo centrale e moltissime amministrazioni locali.
Così da un mesetto a questa parte nazionalisti e miracolati, ridimensionata la vecchia casta politica, sono entrati nelle stanze dei bottoni (Parlamento e Governo) e in quelle dei bottoncini (gli enti locali, per intenderci).
Ora vedremo cosa faranno.
Per quanto mi riguarda spero che rispettino almeno il primo precetto di ogni buon medico: primo non nuocere al paziente, che saremmo tutti noi.
Non credendo né alle ricette nazionaliste né al miracolismo, mi auguro infatti che i nuovi potenti non ci facciano danni. E se non ce ne facessero, sarebbe quasi un piccolo miracolo.



domenica 20 maggio 2018

Berlusconi riabilitato
Leggo diversi commenti in questi giorni sulla riabilitazione di Berlusconi. Sembra che l'ex condannato ed espulso dal parlamento sia ex lege oltre che riabilitato diventato un agnellino. Di più. Un innocente perseguitato.
E allora per un attimo penso a cosa potrebbe pensare di questo Berlusconi riabilitato e innocente il padre di una giovane soubrette che fosse in questi giorni invitata a cena, ovviamente da sola, ad Arcore, testa a testa col riabilitato B. per un colloquio di lavoro. Ovviamente.  O cosa rimuginerebbe nella testa e nel cuore il marito o il compagno di vita di una giovane cantante sempre invitata ad Arcore per un colloquio di lavoro sempre dal riabilitato B. Certo B. è stato riabilitato, può essere rieletto in parlamento, forse ci tornerà, ma mi piacerebbe guardarlo negli occhi quell'italiano che manderebbe ad Arcore tutto giulivo una sua figlia o una sua giovane moglie o anche una sua compagna di vita, con invito a cena, ovviamente per un colloquio di lavoro. Per lavoro, si capisce bene. Col riabilitato.

venerdì 18 maggio 2018

Perché essere felice quando puoi essere normale / Jeanette Winterson, Mondadori, 2012, pp.206

Di solito sono i bibliotecari a consigliare libri ai ragazzi e ai loro prof. Ma questo libro e la sua straordinaria autrice mi sono stati suggeriti invece da una studentessa del Liceo Montale che l'aveva scoperto per caso (?), in un progetto di promozione della lettura che l'ha portata con la sua classe in libreria a scegliere un libro da leggere, e poi l'ha letto, lo ha fatto suo e lo ha esposto in un incontro pubblico con tanto entusiasmo e trasporto, che mi sono sentito obbligato a prendere un appunto, a cercare il libro e a leggerlo a mia volta.
E devo dire che l'impressione di forza e coinvolgimento che mi aveva lasciato il passa parola delle studentessa, si è trasformato nello stupore della lettura e nella scoperta di una matura scrittrice inglese (nel 2012 la Winterson aveva 53 anni) che ci racconta una biografia dolorosa, folle, intensa e vibrante. Abbandonata a poche settimanale dalla nascita, l'Autrice viene adottata da una coppia che professa una religione molto rigorosa e dietro cui si nascondono un uomo ed una donna con una molteplicità di problemi relazionali  piuttosto elevati, oltre un discreto livello di follia e di delirio, stando almeno alla testimonianza dell'A.. La povertà materiale si mescola così ad una incredibile ma realistica stramberia mentale dei genitori adottivi che produce qualcosa che va oltre l'anaffettività e che sembra sconfinare in una forma di stupidità comportamentale grave.
La bambina, a cui la madre adottiva dice di essere una scelta sbagliata ("il diavolo ci ha guidato verso la culla sbagliata"), cresce, accudita da una nevrotica, paranoica, con la fissa dei diavoli, delle voci, delle preghiere, delle citazioni della bibbia, il tutto condito da un insano rapporto (o meglio "non rapporto") di coppia.
Ma la piccola Jaenette si aggrappa ad una disperata voglia di vivere e alla storie e i proverbi, spesso pescati dalla Bibbia, che, masticati e vissuti tra assurdità e comportamenti borderline, riempiono il suo immaginario. La bambina scopre presto il piacere della lettura e, essendo alla periferia di Manchester, si imbatte in una biblioteca pubblica (e lì decide di leggere tutti gli autori della narrativa inglese dalla A alla Z). E per quanto il suo carattere, forgiato dal sentirsi, e ben a ragione, una figlia indesiderata e per niente amata, sia difficile, aspro e duro, riesce a salvarsi o almeno a sopravvive all'inverno antropologico in cui è stata scaraventata attraverso la lettura e la scrittura.
Tra che c'è, Jeanette scopre anche la sua omosessualità (forse come la madre adottiva?) e a praticarla e questo ovviamente contribuisce a complicare il suo doloroso vissuto familiare, ma allo stesso tempo ad ancorarlo ad alcune certezze, così da ricavarne forza e capacità di resistenza. La diversità è un altro fattore che la salva. O almeno l'aiuta e le fornisce un senso e una strategia per sopravvivere.
Inteso il rapporto con la biblioteca civica del sobborgo di Manchester che la ragazzina scopre e frequenta fino da piccola. Efficaci le pennellate che dedica alla scuola pubblica che frequenta negli anni '60 e '70 fino alla conquista della borsa di studio per Oxford. Colorato e vivido è tutto il periodo di costruzione di sè fino a quando riesce a scrivere il suo primo romanzo autobiografico, a pubblicarlo, ecc. ecc.
Ma questo duro e inquietante romanzo autobiografico va oltre il piacere della lettura e della scrittura che salva la (e dà un senso alla) vita. Il racconto si spinge a descrivere la via che porta l'A. a rintracciare la madre naturale, a scoprire di avere sorelle e fratelli, a ricostruire la storia della madre naturale e a tentare di costruire una relazione con lei.
Lo definirei un libro dolcemente e ferocemente amaro, quello che l'A. ci consegna senza nascondersi. Senza nasconderci i suoi difetti, oltre a quelli delle persone e del mondo in cui la sua storia si è forgiata e scorre. Con una forza e una intensità emotiva davvero straordinaria. Pensandosi come individuo, certo, ma dentro un ambiente agito da forze collettive, dentro una classe sociale, in uno stato "civile" ed evoluto come è l'Inghilterra del secondo dopoguerra. Se non suonasse troppo retorico, mi augurerei che il libro avesse davvero molti lettori, perché le cose che dice e il modo come le dice stimolano ad una riflessione inconsueta e aiutano a riflettere sulla costruzione di sé e sul senso del mondo.
Ancora su "Frazioni e Sezioni. Ricordi di scuola e di politica" / di Angelo Frosini, La conchiglia di Santiago (editore), 2018, pp.167, 15€

Ho partecipato a due presentazioni del libro di racconti di Angelo Frosini che il prof di matematica ed ex sindaco di San Miniato ha dedicato alla sua lunga militanza scolastica e politica. La prima iniziata in Sardegna alla fine degli anni '70 si concluderà al Liceo Marconi il 1/9/2018. La seconda, quella politica, che lo ha visto segretario del PCI, PDS, DS di San Miniato e poi sindaco DS e poi PD dal 1999 al 2009, è culminata, temporaneamente, nell'abbandono del PD nel 2017 per approdare a soggetti politici e a schieramenti organizzativi più consoni alla formazione e ai sentimenti egualitari e di sinistra da sempre sostenuti da Angelo Frosini.
Il libro racconta, attraverso 53 racconti, alcuni brevissimi e fulminanti, altri più distesi e allungati, questa doppia vita di professore e di persona impegnata in politica che per dieci anni interrompe l'insegnamento scolastico per amministrare il proprio comune e gestire le relazioni politiche sul territorio.
La scuola che ci restituisce Frosini è quella della relazioni umane. Quella che tratteggia le figure dei presidi e degli allievi, i colleghi e le interazioni che si creano nei passaggi macchina e nelle convivenze lontano da casa. La puntualità nell'arrivare in classe la mattina e nello spostarsi fulmineamente da una classe all'altra al cambio ora. La quasi maniacale puntualità nel correggere i compiti e riportarli in classe pochi giorni dopo la loro compilazione.
Ma nello snocciolare questa storia apparentemente minore della scuola, l'A. tira fuori personaggi e chiama in ballo individui di diverse carature e consistenza: dall'allenatore (e tanti anni fa insegnante di ginnastica) Renzo Ulivieri al cugino di Giancarlo Antonioni, dal suo inesistente "gemello" (che gli serve per prendere in giro alcuni suoi allievi) al dirigente scolastico con cui litiga, urla e poi si riappacifica, su su fino a disegnare, in maniera realistica (nulla del testo dichiara l'A. è inventato) una squadra di colleghi con cui, per periodi brevi o lunghi, ha condiviso la vita scolastica scolastica spicciola.
In parallelo corrono la politica e gli incontri e le battute con D'Alema (sulle tazzine di caffè da non consumare dopo le 15), con Bersani (sui cantuccini di Federigo), con Veltroni (di cui l'A. finse di essere, per un giorno, l'uomo della scorta), con Matteo Renzi (multato dai vigili di San Miniato sulla FIPILI) e con tanti altri. E ancora: tra i racconti spicca quello della partecipazione dell'A. ai funerali di Berlinguer nel 1984, insieme a quello dove ricorda il lavoro di volontario svolto alla festa nazionale del PCI a Tirrenia e le tante feste dell'Unità organizzate e vissute come militante a San Miniato.
Mirabile il raccontino dedicato ad un Andrea Camilleri che lo stesso Frosini iscrive tra gli scrutatori del Partito a San Miniato per consentirgli di votare al referendum contro l'abuso delle pubblicità in TV.
Impossibile citare tutte le chicche che contiene il volume. Tra queste però la storia de "La fila più corta" che porterà l'A. ad iscriversi a matematica dopo aver pensato di fare giurisprudenza e magari entrare nel pool di Mani Pulite emerge per forza emblematica.
La penna di Frosini è lieve, delicata, ironica ed autoironica. La scrittura è scarna, essenziale, coerente, sincera. Onesta. Descrive un mondo ed una storia lunga quarant'anni, quasi sempre col sorriso sulle labbra. Dovendola collocare, dire che sta nel novero del "bozzettismo" toscano, ma con molti livelli di profondità e di letture. E a tratti sa andare oltre.
Bene ha fatto l'editore Andrea Mancini, una volta ricevuti i primi racconti, ad incoraggiare e sostenere le stampa di un opera che, nata forse come omaggio e regalo ai colleghi insegnanti e ai compagni di viaggio, si è rivelata ed è molto, molto, di più di una testimonianza.

sabato 5 maggio 2018

Caro Presidente della Repubblica,
dopo le elezioni lei ha solo il compito di trovare l'uomo giusto che costruisca un buon governo e che ottenga la fiducia delle due Camere.
Per questo dopo il primo giro di consultazioni avrebbe dovuto dare mandato all'uomo che le sembrava piu capace di provare a formare un governo e inviarlo a cercare la fiducia del Parlamento, promuovendo un chiaro dibattito politico a Montecitorio e poi al Senato. In quelle sedi tutti i gruppi parlamentari si sarebbero espressi e poi avrebbero votato. Col 51% dei parlamentari favorevoli sarebbe nato il governo. Con un voto meno no.  Se il primo candidato e il primo governo non ce l'avesse fatta, poteva provare con un secondo e con un terzo, chiedendo eventualmente di variare le combinazioni.
Anche in ambito scientifico si procede per prove e tentativi.
Questo percorso è più rispettoso sia del dettato della Costituzione che del fatto che siamo una repubblica parlamentare bicamerale. Per conseguenza il dibattito politico dovrebbe svolgersi prevalentemente in Parlamento, alla luce del sole, e non negli studi televisivi, nelle sedi di partito o sui cellulari. Ma perché questo accada occorre che tutti facciano con precisione la loro parte, definita per altro con chiarezza dalla Costituzione.
Gli italiani, votando, hanno scelto i loro rappresentanti. Ora lei dovrebbe individuare quello che le sembra il candidato migliore, dargli un incarico pieno, valutare le sue proposte di ministri e consentirgli di andare davanti alle Camere.
Il resto è un problema del Parlamento.
Se dopo diversi tentativi il Parlamento non trovasse la soluzione, il problema tornerebbe nelle sue mani. Ma prima faccia misurare qualche candidato con le Aule parlamentari.
Con stima e simpatia
Roberto Cerri