Il
'68 raccontato dal Telegrafo
A
50 anni dal '68 è ancora difficile riassumere il significato di quei
365 giorni. Non parliamo poi di memorie condivise. Chiunque abbia
vissuto quell'anno ha una sua esperienza e su questa ha appoggiato
una sua memoria e una sua personale interpretazione dei fatti; e poi,
secondo come è evoluto culturalmente e politicamente nei successivi
50 anni, ognuno ha riaggiustato costantemente i fatti e attraverso la
rielaborazione della sua esperienza ha rimodellato la memoria e il
giudizio sul '68.
Ma
allora non si può parlare del '68? Certo che sì. Ma con un certo
sapore di relatività e di approssimazione al vero. Perché è bene
sapere che anche quando non siamo mentitori, siamo comunque
aggiustatori di memorie, a cominciare dalla nostra (accordando a
tutti, almeno fino a prova contraria, la buona fede).
Per
l'ideatore della mostra, il '68 essenzialmente fu un moto
antiautoritario. Di contestazione di qualunque autorità che come
tale si imponesse e non fosse giustificata dal consenso della
stragrande maggioranza. Tutti i sistemi di potere (politico,
religioso, economico, familiare) risultarono toccati e scossi da
questo moto. Partiti, sindacati, imprese, istituzioni scolastiche,
assetti istituzionali internazionali, chiese e religioni, tutto fu
radicalmente messo in discussione.
Si
trattò di un sommovimento molto anarchico contro la globalizzazione
ideologica che allora si cominciava a percepire (il famoso “Uomo a
una dimensione” di cui scrisse H. Marcuse).
A
livello globale si protestava contro gli accordi di Yalta e la
divisione del mondo in due grandi blocchi guidati uno dagli Usa
(l'Occidente democratico e capitalistico) e l'altro dall'URSS (il
blocco comunista, a cui partecipava anche la Cina), così come erano
usciti dall'immane flagello di sconquassi, morti e genocidi che
chiamiamo seconda guerra mondiale.
Il
'68 si espresse contro il colonialismo, alimentando il grande
movimento di liberazione anticoloniale che era decollato già nel
secondo dopoguerra, simboleggiato dall'indipendenza dell'India
(1947).
A
fianco dell'anticolonialismo, forte fu il sentimento contro la
segregazione razziale, contro l'apartheid e contro gli stati che
sostenevano le differenze razziali o che impedivano lo spostamento
delle popolazioni e dei singoli individui.
Fu
un moto contro la famiglia patriarcale, autoritaria e maschilista,
spesso difesa anche da madri relegate in forme moderne di servitù.
Contro la famiglia mononucleare e contro la famiglia poligama.
Fu
un moto che dette voce al protagonismo femminile e al ruolo delle
donne nella società, scuotendo sensibilità e sentimenti che avevano
radici più nell'antropologia che nella storia. Mai infatti prima di
allora le donne avevano rivendicato, in massa, un simile protagonismo
in tutti i campi della vita di relazione, familiare, sociale e
politica. In Italia la sentenza che abolì l'adulterio femminile ne
fu un segnale fortissimo insieme alla diffusione della pillola
contraccettiva e alla possibilità di una sessualità non legata alla
procreazione.
Ma
la protesta e la contestazione dilagarono soprattutto nelle scuole
superiori e nelle Università, verso le quali per la prima volta
affluivano milioni di studenti non solo di origine nobile o borghese,
ma di condizione piccolo borghese e proletaria. E questi studenti
volevano non solo sapere di più, ma contare di più e avere di più.
Il loro protagonismo scosse tutte le università del mondo, mise in
dubbio il potere dei docenti e delle facoltà, ne contestò idee e
ruoli.
Il
'68 criticò anche la conduzione degli stati democratici (Francia,
Inghilterra, Germania, Italia, Usa, che in una certa misura erano e
sono democrazie parlamentari). La Francia finì addirittura sull'orlo
della guerra civile, o almeno così scrisse Il Telegrafo.
Ovviamente la rivolta sessantottina criticò anche gli stati fascisti
(come erano allora la Spagna, il Portogallo e la Grecia), né
risparmiò gli stati comunisti (compresa l'allora misteriosa Cina).
Nessuna idea politica uscì indenne da quella che allora veniva
chiamata “la critica militante”.
Ovviamente
il '68 contestò il capitalismo, il potere autocratico dei padroni,
le imprese, rilanciando, almeno in parte, il mito operaista.
Più
in generale venne radicalmente contestata la società dei consumi di
cui però si apprezzavano tanto anche i vantaggi (tv, lavatrici,
radio, automobili, ciclomotori, erano sì beni a cui si dichiarava di
voler rinunciare, ma solo a parole: il neopauperismo comunitario fu
un filone molto marginale della contestazione).
Ancora:
la contestazione attaccò quasi tutte le istituzioni culturali, le
rassegne cinematografiche, i premi letterari e, più timidamente, le
gare canore.
Nell'insieme
gli uomini e le donne che fecero il '68 espressero forti richieste di
libertà, che marciavano parallelamente su due livelli: uno
individuale e l'altro collettivo.
Così
quell'anno e alcuni degli anni che seguirono furono eccezionali
perchè ad una grande esplosione dell'io si accompagnò un
altrettanto forte senso del noi.
La
sensazione era che tante persone forti rivendicassero più potere per
tutti.
Insomma
nell'alveo del '68 si espressero sia un individualismo ed un bisogno
di libertà individuale assoluti, sia un profondo bisogno di vivere
insieme e lottare insieme per affermare un mondo migliore, più
libero e più giusto. Per tutti. Indipendentemente dal colore della
pelle o dal genere o dalla condizione familiare.
Tutti
volevano contare di più e per farlo erano disposti a partecipare di
più. A dare di più. Ad ascoltare di più.
Una
delle grandi paure dell'epoca fu quella dalla mercificazione delle
persone e questo spinse a chiedere una maggiore autonomia individuale
ed un maggior valore per i singoli; e quindi più indipendenza dalla
famiglia e dallo Stato; e quindi più diritti individuali; ma,
contestualmente e senza avvertire alcuna contraddizione, anche più
diritti collettivi (nelle scuole, nelle fabbriche, nei campi) in un
rilancio continuo che sembrava, allora, non dover finire.
A
simboleggiare tutto questo caos culturale, ecco i guerriglieri alla
Che Guevara, i preti armati alla Camillo Torres, i preti operai come
Don Mazzi dell'Isolotto di Firenze o i preti che stavano dalla parte
degli ultimi come Don Lorenzo Milani e contestavano le gerarchie
religiose reinventandosi un vangelo povero, genuino e partecipato. Ma
nel pantheon dei nuovi miti finirono anche Mao Tse Tung (della cui
rivoluzione culturale, allora, non si sapeva molto in Occidente) e la
triade formata da Marx, Engels e Lenin, più una miriade di santi
minori. Furono questi, insieme a Martin Luther King e a Bob Kennedy
(entrambi assassinati nel '68) i miti e le divinità di un'acropoli
policroma e confusa (i cui ritratti penzolavano sia dai muri delle
sedi delle formazioni politiche, sia delle camere dei singoli
militanti).
Naturalmente
il '68 fu molto di più e soprattutto si scontrò con il forte
attrito della realtà e rispetto alla dura realtà il moto di
protesta si modellò, reagì, prese forma e poi … rifluì.
Perché
la scelta de IL TELEGRAFO
La
decisione di raccontare un insieme di eventi così complessi
attraverso un quotidiano “locale” è legata ad alcuni fattori: il
tipo di pubblico a cui ci si vuole rivolgere (il mondo degli studenti
di scuola superiore da una parte e gli utenti dei circoli
territoriali dall'altra); la necessità di partire da fonti
sintetiche rispetto alla complessità del macrofenomeno da descrive;
l'esigenza di collegare eventi locali, vicende nazionali e fatti
internazionali nella stessa fonte.
Le
prime pagine de Il Telegrafo (digitalizzate dalla Biblioteca
Labronica di Livorno, che ringraziamo pubblicamente per avercele
messe a disposizione, così come ringraziamo Il Tirreno per
avercene consentito l'utilizzo) si prestano perfettamente a
raggiungere i tre obiettivi indicati sopra.
Su
circa 360 prime pagine è stata effettuata così una scelta degli
avvenimenti più significativi e con un sistema di colori è stata
impostata una lettura suggerita del corso degli eventi, accompagnata
da note di integrazione e commento.
Utilizzo
e circuitazione della mostra
Sono
state selezionate circa 40 prime pagine e poi è stato effettuato un
montaggio su base mensile producendo alla fine 20 roll-up
autoportanti che costituiscono una mostra prêt-à-porter
che in pochi minuti può essere montata e smontata e trasportata da
una scuola o da un circolo all'altro, quindi presentata al pubblico.
Il
materiale potrà essere portato nelle scuole per raccontare in 20
quadri di 1 metro per 2 la storia di un anno ricco di eventi e
consentire ai ragazzi di abbracciare con un colpo d'occhio un insieme
davvero molto variegato e complesso.
Il
tutto con semplicità, ma senza alterare le caratteristiche della
fonte documentaria che racconta dal punto di vista del cronista
quell'anno straordinario.
La
mostra è prodotta dalla Rete Bibliolandia (e dal gruppo di
archivisti) in collaborazione con ARCI Valdera. Arci la farà
circuitare nei suoi circoli, accompagnandola con dibattiti di
approfondimento e discussioni introdotte dai curatori, mentre la Rete
Bibliolandia la fornirà alle scuole superiori che potranno tenerla
per brevi periodi.
La
mostra nasce da un'idea progettuale e da una scelta di documenti di
Roberto Cerri, che nell'elaborazione di testi e pannelli si è
avvalso della collaborazione di Roberto Boldrini, Patrizia Marchetti,
Andrea Brotini, Massimiliano Bertelli e Claudia Salvadori.
Maria
Chiara Panesi dell'Arci Valdera ha deciso di sostenere la mostra, di
presentarla presso l'Agorà/Sala Carpi e di farla circuitare presso i
circoli Arci della Valdera, dove sarà accompagnata dai curatori.