Good Luck Mr. Forte.
Tra qualche giorno lascerà la direzione operativa dell'Unione Valdera il dr. Giovanni Forte. E' il dirigente del comune di Pontedera che insieme ai sindaci della generazione di Paolo Marconcini ha costruito e poi gestito quella eccellente macchina organizzativa che è l'Unione Valdera. Non è ancora possibile fare un bilancio complessivo del ventennio che ha visto nascere, crescere e poi parzialmente rattrappirsi l'Unione Valdera, mentre nel resto del Paese prima si pensava di far fuori le Province e poi si votava per farle sopravvivere, ma azzoppandone e scombussolandone le competenze (popolo di confusionari che siamo!). Per dare una risposta sensata servirebbe uno studio serio che analizzasse sia gli obiettivi raggiunti dall'Unione Valdera che i complessi rapporti tra management e governance politica (questi ultimi resi sempre più complicati dal modificarsi della politica e dal continuo mutare degli amministratori). Ma che l'apporto professionale del dr. Forte che ha guidato il management dell'Unione sia stato largamente positivo mi sentirei di affermarlo senza timore di essere smentito, anche se avendo fatto parte dei suoi collaboratori non posso aspettarmi di essere giudicato imparziale.
Ma per quanto la storia delle istituzioni collettive non consenta facilmente di individuare e pesare i valori e i ruoli delle singole persone sulla costruzione delle procedure amministrative, la mano del dr. Forte sull'Unione è stata ed è, per una serie di ragioni anche fortunate, inconfondibile. Soprattutto rispetto alla costruzione degli uffici, all'assemblaggio del team direttivo, all'orientamento del lavoro quotidiano e più in generale allo stile di comportamento suggerito. Uno stile sobrio che il dr. Forte per me riassume nel tenere sempre aperta la porta del suo ufficio, ma anche nell'essere moderatamente accogliente e sempre indaffarato; nel costringerti ad essere sintetico e pensare in maniera aperta e non burocratica; nell'orientarsi e orientare i colleghi verso un futuro equo, sostenibile e solidale. Nell'esprimersi con rapidità e velocità dell'azione amministrativa, mantenendo la maggiore qualità possibile.
Ovviamente Mr. Forte ha anche difetti. Chi non ne ha? E altrettanto ovviamente credo che abbia commesso anche errori. Alcuni mi sono persino permesso di incarglieli. E lui ha incassato. E replicato. Ovviamente sottolineando a sua volta i miei errori. Ma chi non ne fa nel lavorare su questioni complesse e dove le scelte finali sono il frutto di moltissime variabili e di relazioni con tanti, tantissimi enti?
Ma dialogare con lui di pratiche amministrative, a volte anche scontrandoci sulle soluzioni che ci proponevamo l'un l'altro, voleva dire percepire l'azione amministrativa non come qualcosa di freddo e distaccato, ma come uno strumento caldo per affrontare e risolvere i problemi della collettività. E mi riferisco a quelli di nostra competenza. Coi nostri limiti. Certo. Con le nostre passioni. Col nostro coraggio.
Ci mancherà Mr. Forte. Good luck.
domenica 22 dicembre 2019
sabato 21 dicembre 2019
Le risposte a Noemi sul mestiere del bibliotecario
Cara Noemi,
Le domande che mi avete inviato sono tutte belle e le risposte sono
impegnative. Spesso le domande sono molto più belle e molto più
aperte delle risposte, che invece riducono il ventaglio delle
possibilità e a volte un po' deludono. Con questa consapevolezza, e
quindi un po' scusandomi della pochezza delle cose che dirò,
rispondo alle tue domande con la maggiore sincerità che la memoria e
il cervello mi permettono.
1) Hai letto tanto da bambino? Mi chiedi. Direi di no. Da bambino non
ho letto molto. E sono sicuro che mediamente i bambini di oggi
leggono molto più di me. Ho letto però e di sicuro 3 o 4 volte
"Cuore" di De Amicis, un testo nazionalista,
risorgimentale, socialistoide e patriottico, che ora non si consiglia
più ai ragazzi. Per fortuna. Oltre "Cuore", ricordo
"Pinocchio". E ancora testi di Salgari, "Senza
famiglia" di Malot, "I figli del capitano Grant" di
Verne, libri di fiabe, e altri ancora, ma nebulosi. Credo che "Cuore"
(coi suoi personaggi patriottici, romantici e generosi) sia stato un
testo per me formativo. Ricordo che da bambino i parenti (zii,
nonni?) me ne abbiano regalate almeno 3 copie. Accanto a "Cuore",
sempre come testo formativo, metterei Pinocchio.
Crescendo, ripensando, ecc., oggi trovo molto più formativo
Pinocchio di Cuore. Il testo di Collodi è assai più geniale e
fantasioso, tanto che come posso lo suggerisco ai ragazzi e agli
adulti (il libro e non la versione cinematografica della Disney,
troppo sdolcinata). Per spiegare perchè lo suggerisco mi ci
vorrebbe tempo e spazio, quindi semplifico e ti dico che dentro
Pinocchio c'è tutta la difficoltà del crescere e diventare adulti,
tutte le prove a cui siamo sottoposti e con cui dobbiamo misurarci,
tutti gli errori, le fughe, i limiti, ma anche la gioia della nostra
azione quotidiana. Dentro Pinocchio ci sono i vizi e le bellezze
dell'Italia e della Toscana di ieri e di oggi. C'è il giudice che
condanna l'innocente. Ci sono il gatto e la volpe che ti vogliono
fregare, ci sono Geppetto e la Fata turchina che ti perdonano
qualunque bischerata tu faccia per crescere, c'è il sogno del Paese
dei Balocchi, dove ci si diverte sempre e non si lavora mai. C'è il
nostro desiderio di vita scanzonata, irrequieta, folle,
irresponsabile. C'è la nostra maledetta voglia di non voler crescere
e... potrei continuare, ma mi fermo.
Ma di libri veramente formativi e memorabili per me ce ne sono tanti.
Per farti contenta, ne cito solo alcuni che però sono più letture
adulte.
La prima è il testo de "I promessi sposi" di Alessandro
Manzoni, lettura che ho fatto al liceo e poi la seconda volta a 35
anni circa, quando me lo sono veramente goduto e l'ho amato, come si
ama un paesaggio o una cosa bella che ti apre la mente e ti allarga
il cuore. Perchè? Per tante ragioni. Te ne fornisco solo una. Perchè
chi voglia capire in profondità cos'è questo nostro meraviglioso
paese, parlo dell'Italia, deve conoscere e capire i personaggi di
Manzoni. Il racconto, per me che resto un non cattolico e un
agnostico, è una bussola.
La seconda lettura meravigliosa è ancora un testi per adulti. Mi
riferisco alle "Memorie di Adriano" di Marguerite
Yourcenar. Su questo testo ho pianto e mi commuovo ancora quando ci
penso e quando posso lo propongo. E' un libro che ho letto tre volte,
anche nella versione in francese. Se mi mettessi a parlarne non
finirei più. Quindi non lo faccio. Aspetta a leggerlo, Noemi. Ma
verso 18/20 anni prova a metterlo in agenda. E se lo trovassi
difficile, lascialo lì e poi prova a riprenderlo a 25 o a 30, fino a
quando non avrei l'età giusta e la maturità per entrarci dentro,
comprenderlo e, spero, amarlo. Scherzandoci un po' su, potrei dirti
che lo considero un test di maturità. Prima lo si legge e lo si ama,
prima secondo me si può sostenere di essere diventati consapevoli di
sè e del mondo. Ma non mi fraintendere, si diventa adulti anche in
tanti altri modi e senza leggere libri. Le esperienze di vita che
fanno crescere e diventare persone forti sono molteplici. I libri
sono solo uno strumento. Non divido il mondo in lettori e non
lettori, anche se ho passato la vita ad invogliare gli altri a
leggere.
La terza lettura che accenno e basta è la trilogia di Italo Calvino,
"Il barone rampante", "Il cavaliere inesistente"
e "Il visconte dimezzato". Mi piacciono tanto tutti e tre.
Ma vorrei essere soprattutto il protagonista del barone rampante.
Invece, ahimè, più passa il tempo, più credo di assomigliare al
"cavaliere inesistente", un personaggio che non c'è, ma che
sa di dover essere qualcosa e di dover recitare comunque un ruolo.
Leggi ed entra nel mondo di Calvino. Non ti deluderà e di sicuro ti
lascerà qualcosa.
Potrei continuare con Pirandello, di cui ti suggerisco, appena puoi,
di andare a vedere o leggere "I sei personaggi in cerca di
autore".
2) Che libri consiglierei tra gli 11 e i 12 anni? Dipende. Dovrei
conoscere il lettore, sapere quanto ha letto, cosa gli piace, i suoi
gusti, ecc. Senza conoscerlo/la suggerirei: "Per questo mi
chiamo Giovanni" di Luigi Garlando e "Nel mare ci sono i
coccodrilli" di Fabio Geda, ma anche "Il Visconte
dimezzato" di Calvino e se non l'hai ancora letto "Marcovaldo",
altri racconti di Calvino.
Per scriverti perchè te li consiglio, trasformerei questa intervista
in un saggio e non trovo che sia giusto farlo. Credimi sulla parola
di bibliotecario. Valgono tutti il tempo che gli dedicherai.
3) Ti piace questo lavoro ? Perché?
Il lavoro mi piace. Perchè? Perchè mi piacciono i libri (sono
tanti, curiosi, spesso sorprendenti). Sono oggetti che non smettono
di stupirti o di farti arrabbiare (ce ne sono infatti alcuni che non
solo non amo, ma che mi irritano). Mi piace anche che i libri cambino
col tempo e con l'avanzare dell'età (quella del lettore, la mia e la
tua). Perchè con passare del tempo gli stessi libri ci raccontano
cose diverse. Sono come gli specchi. Ci restituiscono immagini
diverse di loro perchè seguono il nostro cammino e la nostra
immagine. E il nostro cammino e la nostra anima cambiano.
Continuamente. Ma ancora più dei libri mi piacciono i lettori. Mi
affascina pensare che facendo il mio mestiere ho moltiplicato il
numero dei lettori. E' una cosa che mi riempie di orgoglio. Una
piccola vanità. Come quella di un contadino che ha coltivato bene i
suoi campi, un architetto che ha progettato un bell'edificio. Vedere
una biblioteca piena di lettori mi fa pensare ad un albero carico di
frutti. Il fatto che sia un po' merito anche mio, mi dà
soddisfazione.
4) Quali insegnamenti ricevi ed hai ricevuto dalla lettura?
I suggerimenti della lettura sono tanti e difformi. Due li reputo
particolarmente importanti:
- la varietà degli sguardi e dei punti di vista (ogni anno solo in
Italia si pubblicano 60.000 nuove opere di narrativa,
saggistica, intrattenimento, ecc.). Questa biblio-diversità è una
parte della biodiversità ecologica e ambientale. Il mondo e noi
stessi possiamo essere letti da tanti punti di vista. Non tutti
validi e interessanti. Ma sono davvero molti e ci danno il senso
della relatività.
- i contenuti. Ogni libro mi arricchisce un po'. Su qualcosa, su me
stesso e sul mondo.
L'insegnamento principale è che non c'è nessun libro che racchiude
tutta le verità. E che le verità sono una conquista sempre parziale
che si può raggiungere scalando le montagne di libri che sono state
pubblicate e quelle che si innalzeranno dopo di noi. Ma, aggiungo,
che le verità possono essere ricercate anche fuori dai libri,
scavando dentro se stessi e confrontandosi con gli altri. Anche i non
lettori possono essere persone validissime e piene di buon senso e di
verità. Insomma i libri mi hanno insegnato ad amare i libri, ma
soprattutto a rispettare le persone. Incluso quelle che non leggono o
leggono pochino. Conosco persone che hanno letto poco, ma hanno fatto
straordinarie esperienze di vita e sono piene di una umanità calda e
comprensiva che vale migliaia di libri letti e anche di più. Così
come conosco lettori eccezionali e prolifici, ma aridi e avari, soli,
sul piano personale.
5 - Quali emozioni provi quando leggi ?
Sono tante le emozioni che provo. Tra le più belle c'è la scoperta
di un autore o di un libro che riesce a dire molto meglio di me
quello che mi sembrava di pensare fino a quando non mi sono
imbattuto in quelle pagine che chiariscono perfettamente la mia idea
confusa. Insomma per usare una citazione di Leopold Bloom, mi
emoziono quando scopro un libro che riesce a leggere qualcosa che ho
dentro ma che non sapevo esprimere bene. Perchè dice sempre Bloom,
non siamo noi a leggere Shakespeare, ma è il drammaturgo inglese a
leggere e a individuare con precisione perfetta i nostri sentimenti.
Poi c'è il narcisismo della scoperta. C'è la curiosità di una cosa
che non sapevi e che il libro ti regala.... ecc. ecc.
6- Quali libri non potrebbero mancare nella tua valigia per due
settimane di vacanze ?
Dipende. Non sempre leggo molto durante le vacanze. Negli ultimi anni
ho più camminato che letto. E va bene così. Sono un lettore
onnivoro e molto curioso. Di solito nelle vacanze mi porto dietro
alcuni libri che non sono riuscito a leggere nella primavera. Ma a
volte alcuni li riporto intonsi a casa. Il bello di frequentare la
biblioteca è che ci si può far suggestionare da tante proposte di
lettura, anche per scoprire che molte di queste suggestioni non
valgono nulla o che una volta sfogliate le pagine del libro deludono.
La ricerca della nostra verità è simile all'arrampicata su montagne
di libri, ma non tutto quello che si scrive ci porta sulla vetta. A
volte ci annoia, ci smarrisce, ci....
7 - Quale genere letterario preferisci ? Perché ?
Adoro la narrativa impegnata e la saggistica di vario tipo. Per dire
perchè, dovrei scrivere la mia biografia e non mi sento ancora
abbastanza narcisista o rimbambito per farlo. In breve, narrativa
impegnata e saggistica mi danno la sensazione (che contiene
ovviamente anche una parte di illusione) di comprendere la realtà; e
questa sensazione mi piace, mi diverte, mi appaga e mi fa sentire
vivo.
8 - una breve recensione di un libro uscito da poco che hai letto ed
ha destato un tuo particolare interesse
Devi
sapere che tengo un blog dove segnalo libri e letture che mi
piacciono. Perciò se ti interessa sapere cosa penso dei libri più
recenti, ti segnalo questo blog e questo
libro: https://lettureedeventi.blogspot.com/2019/10/ci-rido-sopra.html
E' una biografia scritta da un afro-italiano, un nigeriano, venuto
bambino in Italia.
Il tema della mescolanza delle culture è l'ultima delle mie grandi
curiosità e passioni. Sulla scia di alcuni grandi personaggi, ed in
particolare penso a Padre Ernesto Balducci, sogno un uomo con una
coscienza civile planetaria. Greta è una ragazzina che mi pare
assomigli a quella persona che ho in mente. Ma anche Tommy Kuti ha
scritto una storia che i giovani (e anche i vecchietti) dovrebbero
leggere e meditare.
9 - Quale autore di libri per ragazzi preferisci ? Perché ?
A parte quelli che ho già citato tra gli autori di libri per bambini
e per ragazzi bravissimi (per limitarci agli italiani) che mi
piacciono ci sono: Guido Quarzo, Roberto Piumini, Bianca Pitzorno (se
non l'hai fatto, leggi "L'incredibile storia di Lavinia"),
Anna Lavatelli, Angela Nanetti (di lei consiglio: "Mio nonno era
un ciliegio" e "Il segreto di Cagliostro"), Antonio
Ferrara (è un autore prolifico, ma super..) e tantissimi altri. Poi
ci sono gli stranieri. Ma, tranquilla, mi fermo. Il suggerimento però
è quello di andare in biblioteca, cercare un bravo bibliotecario che
conosca bene la letteratura per ragazzi, parlargli dei tuoi gusti e a
farti dare i consigli giusti. Magari lanciandoti anche sfide, verso
temi e autori che non vorresti leggere. Ma non ti fermare al primo
bibliotecario. Cercane uno o una bravo/a, che ti ascolti e che scovi
per te proprio i libri che stanno lì sullo scaffale ad aspettare che
tu li prenda in prestito e che tu li legga.
10 - Cosa c 'è di particolarmente interessante nello studiare in
biblioteca?
La presenza degli altri ragazzi e degli adulti. La biblioteca è un
luogo magico ed educante se lo si riesce a vivere e ad ascoltare
nella maniera giusta. Una delle cose che cerco di far capire a chi
viene in biblioteca è che qui si viene per compiere un atto di
libertà e apparentemente individuale (leggere, studiare, formarsi),
ma che questo atto libero è anche doveroso e profondamente sociale,
collegato cioè alla vita e alle scelte degli altri.
In biblioteca puoi trovare un bravo bibliotecario che risponde in
maniera non superficiale alle tue domande. E lo fa gratis. Non è
cosa da poco. Perchè sono gli incontri positivi che ti arricchiranno
e ti spronano ad andare dove vorrai andare.
Poi trovi tutti i libri che ti possono interessare
Infine ci sono gli amici che ti fanno compagnia nello studio
Poi c'è il wifi, i computer, le prese elettriche per i tuoi device,
ecc.
Ci sono le macchinette delle merendine
Infine ci sono i rompiscatole, quelli che parlano voce alta, i
noiosi. E grazie a loro capisci che il mondo (anche il migliore dei
mondi possibili) non è perfetto, ma che in fondo nemmeno noi siamo
perfetti; e così impari a formarti e a crescere sapendo che un po'
resterai imperfetta e un po', con tutti i suoi sforzi, anche il mondo
resterà imperfetto. Ma che questa imperfezione non può essere una
scusa per non mettercela tutta per migliorarsi e migliorarlo.
Forse esagero, ma in biblioteca mi pare che tutto questo ci sia e si
capisca bene. O almeno è quello che io ci vedo. E non credo di avere
superpoteri e spero di non essere troppo strambo.
11 - Quale libro stai leggendo ? Ce ne puoi parlare?
In questi ultimi mesi sono affascinato dalla figura di Giorgio La
Pira, un professore universitario di diritto romano, che è stato
eletto nel 1946 all'Assemblea costituente e ha contribuito a scrivere
la Costituzione Italiana. Sto leggendo una sua biografia e alcuni
carteggi. E' stato un giovane deputato. Poi per 15 anni è stato
sindaco di Firenze. Ma ha sempre vissuto come un frate (ma un frate
speciale, come Girolamo Savonarola) nel convento fiorentino di San
Marco. Mi affascina perchè parlava di dialogo tra genti diverse
(africani, europei, asiatici, musulmani, cristiani, ortodossi) e di
uomini e donne con una coscienza planetaria. E lo faceva 70 anni fa.
La strada per me è sempre più quella indicata da La Pira, che
considero un profeta (mentre la Chiesa probabilmente lo proclamerà
beato). Un profeta del dialogo, della diversità, della coscienza
planetaria. Una coscienza ampia, universale, variegata, che mi
riporta all'idea di biblioteca. La biblioteca come luogo per tutti,
di tutti e dove risuonano e si confrontano (o dovrebbero farlo) una
enormità di voci, di parole, di idee. Per noi piccoli uomini e
piccole donne ascoltare e contenere tante voci e tante parole non è
facile. Siamo imperfetti e limitati. Ma dobbiamo guardare lontano e
farlo insieme agli altri.
Spero di non avervi annoiato e di non averla fatta troppo lunga.
Perdona gli strafalcioni e gli errori. Ho scritto un po' in fretta.
Un abbraccio e un bacio
roberto
sabato 14 dicembre 2019
Riaperta la Biblioteca del Duomo di Pontedera, da oggi Biblioteca Stefano Bertelli
Riaperta la Biblioteca del Duomo di Pontedera, da oggi Biblioteca Stefano Bertelli
Oggi, guidato dal prof. Paolo Morelli, ho rivisto i 30.000 volumi e le riviste della Biblioteca del Duomo fino a qualche tempo fa ubicata sul corso Matteotti e adesso trasferita nell'ex convento della Mantellate e doverosamente dedicata al prof. Stefano Bertelli, il più moderno dei bibliotecari pontederesi del '900. La speranza è che nel giro di poco tempo anche il materiale bibliografico torni a circolare nella Rete Bibliolandia, perchè diverse pubblicazioni che possiede la Biblioteca Bertelli ce le ha solo lei. Gli studiosi hanno bisogno di quei libri, di quelle riviste e di quei giornali (c'è anche una parziale collezione de La Nazione con la cronaca di Pontedera). Non a caso glieli chiedono da tutta Italia e perfino da altri Paesi (potenza di internet e dell'informatica). La sede che oggi è stata mostrata al pubblico è un recupero bellissimo di vecchi locali tardo ottocenteschi e del primo novecento, un restauro curato da due architette bravissime (Simonetta Boldrini e Chiara Ceccarelli). Meritano l'applauso che hanno ricevuto dal pubblico. Ora naturalmente questi locali si tratta di animarli e di farli vivere. Di aprirli, come ha detto Don Piero, a vantaggio della comunità pastorale. A vantaggio degli ultimi, con un ruolo centrale e gestionale delle 5 parrocchie cittadine, della Caritas e delle Acli. Ma, immaginiamo, anche per i giovani e per tutti coloro che chiederanno ospitalità culturale per le loro iniziative di qualità. Con il Centro Pastorale Culturale Mantellate Pontedera si arricchisce di una nuova struttura strategica per la propria crescita morale, civile e culturale. Frutto in parte dei contributi dell'8 per mille, ha detto il Vescovo di Pisa. Frutto di una bella collaborazione tra le 5 parrocchie cittadine, che ora dovranno dare fiato e gambe ad un progetto condiviso e sostenerlo con grande coraggio e lungimiranza (roberto cerri).
lunedì 25 novembre 2019
Francesco e il sultano / Ernesto Ferrero (Einaudi, 2019)
Faticoso e un po' troppo contorto per un santo semplice come Francesco. Anche se dipanare storie medievali non può essere un gioco semplice. Che poi tutti i grandi finiscano "traditi" è un'ovvietà. Il tempo reinterpreta e supera tutte le vulgate e ne inventa continuamente di nuove reimpastando una parte del vecchio. Non granchè.
sabato 23 novembre 2019
I giovani senegalesi organizzano un circolo di autosostegno.
I giovani senegalesi organizzano un circolo di autosostegno.
Si chiama Wakanda ed è stata inaugurata stasera in via delle Colline 52, a Pontedera, una sede di riferimento per il gruppo dei senegalesi di seconda generazione. Animati ed incoraggiati da Dia Papa Demba e dalla mediatrice culturale Maguette, sostenuti da Arci, Amministrazione comunale e Regione Toscana, un bel gruppo di ragazzi tra i 18 e i venti anni ha deciso di aprire un circolo dove... provare a fare diverse cose. Intanto avere un luogo per ritrovarsi in autonomia, organizzare un tutoring e ripetizioni scolastiche per i più piccoli, inventarsi progetti culturali, confrontarsi col resto delle comunità, inclusa quella autoctona, presenti nella città di Pontedera. Si tratta di una bella sfida, non c'è che dire, che coinvolge in primo luogo le persone della seconda generazione di migranti, ma che, in qualche modo, tocca anche la prima. Come responsabile della Biblioteca comunale non ho portato solo il mio saluto, non ho raccontato solo cosa la Biblioteca Gronchi può fare per le nuove generazioni, ho detto anche cosa la lettura e lo studio possono fare per gli adulti. Cosa la Biblioteca può fare per le donne immigrate e quali risorse informative può fornire a tutti loro. Non è mai troppo tardi, per nessuno, per cercare di alzare l'asticella della proprie legittime ambizioni: di lavoro, di cultura, di relazioni. Per far crescere il proprio livello di libertà. Certo per aumentare il proprio benessere e la felicità è necessario darsi da fare ed essere motivati a tenere il ritmo. Allenarsi a correre. A cooperare. A partecipare. Per questo agli amici di origine senegalese che stasera affollavano Wakanda dico che li aspetta un discreto lavoro. Ma se il buon giorno si vede dal mattino, hanno tutti i numeri per farcela
venerdì 22 novembre 2019
Quando Mario Primicerio volò in Viet Nam con La Pira (1965)
L'incontro di presentazione del libro di Mario Primicerio sul viaggio "Con La Pira in Viet Nam" (ed. Polistampa) è stata un evento raro ed emozionante. Certo, avevo letto il libro, e dal testo era emerso che Primicerio è una persona di grande valore. Del resto un uomo che accompagna La Pira ad Hanoi e siede allo stesso tavolo con Ho Chi Minh e parla con entrambi in francese, beh per uno della mia generazione è già un mito. Ma dalla lettura del libro avevo capito un'altra cosa; ovvero che il professore di fisica che si è occupato per tutta la vita di matematica applicata (ai problemi anche dell'industria) è uno scrittore. Di qualità. E, ve lo giuro, il libro sul suo viaggio ad Hanoi con La Pira è costruito con una tecnica degna di Camilleri o se volessi esagerare (ma solo un po') di Primo Levi. Prima infatti delinea il contesto, poi introduce i personaggi dosando racconto e mistero (la lettera che i comunisti vietnamiti recapitano ai comunisti italiani che alla fine la portano a La Pira è strepitosa). Poi comincia il viaggio che tocca la Polonia, la Russia. D'un tratto tira fuori il suo diario di allora. Quindi prende tempo e ci infila l'attesa per l'incontro tra La Pira e Ho Chi Minh. Ed eccoci alle frasi che si scambiano il profeta cristiano e il rivoluzionario comunista. Fino a quella battuta pirandelliana di Ho Chi Minh che prima di rispondere ad una domanda cruciale di La Pira chiede a La Pira di mettersi nei suoi panni e di formulare lui la risposta, come se La Pira fosse Ho Chi Minh. E ancora il viaggio avventuroso da Pechino a Hanoi su un bimotore che non sembrava nemmeno un aliante, ma un "aquilone". E poi la conclusione del viaggio. Il messaggio segreto, con l'esito del colloquio che potrebbe portare all'apertura di negoziati di pace, da far arrivare al presidente dell'Assemblea dell'ONU (che guarda caso era il Ministro degli Esteri, Amintore Fanfani) che a sua volta dovrebbe farlo arrivare (sempre in segreto) al Presidente Usa, Johnson. E ecco il venticinquenne Primicerio che vola all'ONU per raccontare a voce a Fanfani il messaggio che doveva rimanere segreto.... e infine un finale immaginabile. Anzi due: uno in America e uno all'italiana in Italia. Finali che non svelerò. No. Solo gli storici e quella quarantina di ascoltatori di stasera sanno come sono andate veramente le cose. E so che erano 40 i presenti perchè ho aiutato a mettere le sedie, le ho contate ed erano tutte piene. Solo i 40 che hanno partecipato ad una serata davvero irripetibile, ascoltando non un "testimone" ma un protagonista della storia, hanno diritto di godersi il segreto che Primicerio, intervallato dalle poesie di Senghor, lette da 4 ragazzi senegalesi, alla fine regalato con la sua calma ma ferma agli ascoltatori. Tutti gli altri, i curiosi che non c'erano, dovranno leggere il libro (riscrivo: "Con La Pira in Viet Nam", Polistampa). E, credetemi, ne vale la pena. Mi auguro solo che qualche regista americano si innamori della storia, perchè il testo ha già tutto per trasformarsi in film e un sceneggiatore in gamba non dovrebbe fare molta fatica per scrivere il copione.
L'incontro di presentazione del libro di Mario Primicerio sul viaggio "Con La Pira in Viet Nam" (ed. Polistampa) è stata un evento raro ed emozionante. Certo, avevo letto il libro, e dal testo era emerso che Primicerio è una persona di grande valore. Del resto un uomo che accompagna La Pira ad Hanoi e siede allo stesso tavolo con Ho Chi Minh e parla con entrambi in francese, beh per uno della mia generazione è già un mito. Ma dalla lettura del libro avevo capito un'altra cosa; ovvero che il professore di fisica che si è occupato per tutta la vita di matematica applicata (ai problemi anche dell'industria) è uno scrittore. Di qualità. E, ve lo giuro, il libro sul suo viaggio ad Hanoi con La Pira è costruito con una tecnica degna di Camilleri o se volessi esagerare (ma solo un po') di Primo Levi. Prima infatti delinea il contesto, poi introduce i personaggi dosando racconto e mistero (la lettera che i comunisti vietnamiti recapitano ai comunisti italiani che alla fine la portano a La Pira è strepitosa). Poi comincia il viaggio che tocca la Polonia, la Russia. D'un tratto tira fuori il suo diario di allora. Quindi prende tempo e ci infila l'attesa per l'incontro tra La Pira e Ho Chi Minh. Ed eccoci alle frasi che si scambiano il profeta cristiano e il rivoluzionario comunista. Fino a quella battuta pirandelliana di Ho Chi Minh che prima di rispondere ad una domanda cruciale di La Pira chiede a La Pira di mettersi nei suoi panni e di formulare lui la risposta, come se La Pira fosse Ho Chi Minh. E ancora il viaggio avventuroso da Pechino a Hanoi su un bimotore che non sembrava nemmeno un aliante, ma un "aquilone". E poi la conclusione del viaggio. Il messaggio segreto, con l'esito del colloquio che potrebbe portare all'apertura di negoziati di pace, da far arrivare al presidente dell'Assemblea dell'ONU (che guarda caso era il Ministro degli Esteri, Amintore Fanfani) che a sua volta dovrebbe farlo arrivare (sempre in segreto) al Presidente Usa, Johnson. E ecco il venticinquenne Primicerio che vola all'ONU per raccontare a voce a Fanfani il messaggio che doveva rimanere segreto.... e infine un finale immaginabile. Anzi due: uno in America e uno all'italiana in Italia. Finali che non svelerò. No. Solo gli storici e quella quarantina di ascoltatori di stasera sanno come sono andate veramente le cose. E so che erano 40 i presenti perchè ho aiutato a mettere le sedie, le ho contate ed erano tutte piene. Solo i 40 che hanno partecipato ad una serata davvero irripetibile, ascoltando non un "testimone" ma un protagonista della storia, hanno diritto di godersi il segreto che Primicerio, intervallato dalle poesie di Senghor, lette da 4 ragazzi senegalesi, alla fine regalato con la sua calma ma ferma agli ascoltatori. Tutti gli altri, i curiosi che non c'erano, dovranno leggere il libro (riscrivo: "Con La Pira in Viet Nam", Polistampa). E, credetemi, ne vale la pena. Mi auguro solo che qualche regista americano si innamori della storia, perchè il testo ha già tutto per trasformarsi in film e un sceneggiatore in gamba non dovrebbe fare molta fatica per scrivere il copione.
giovedì 14 novembre 2019
Il film della RAI dedicato a Enrico Piaggio e il mito della Vespa
Il film della RAI dedicato a Enrico Piaggio e il mito della Vespa
Confesso che mi è piaciuto. E sono sicuro che il film della RAI sarebbe piaciuto molto anche a Enrico Piaggio. Certo è una biografia romanzata che tende ad accreditare perfino un Piaggio antifascista per difendere i suoi operai, un Piaggio che ha un rapporto molto forte e personale coi suoi collaboratori; un film che si inventa anche un intreccio strappalacrime per corteggiare il gusto contemporaneo (da eterni romantici) dei telespettatori. E' un film di sapore mitologico, girato prevalentemente su un set cinematografico, una fabbrica ricostruita, con qualche esterno nella villa di Varramista (Montopoli) e nelle campagne toscane, e scorci di Piazza dei Miracoli e della Normale (Pisa), un po' di citazioni di "Vacanze Romane" e.... tanta, tanta Vespa.Non è una storia del tutto vera, ma certo è verosimile. Fatta per piacere. Ideata per raccontare un periodo affascinante, forse irripetibile, della vicenda nazionale: quello della ricostruzione, con lo slancio economico e immaginifico del dopoguerra che avrebbe portato al boom economico della fine degli anni '50. Un periodo di cui Enrico Piaggio fu un protagonista, perchè di sicuro figura tra gli imprenditori italiani che costruirono quel boom. Certo, insieme agli operai, che, in parte, nella realtà quotidiana, a Enrico Piaggio furono ostili e non si sentirono mai "i suoi operai" (o almeno questo sta scritto nei documenti di allora conservati negli archivi sindacali e politici).
Perchè la vicenda vera della Piaggio è stata inevitabilmente molto più complicata. Ma per scrivere una biografia seria di Enrico Piaggio per ora mancano i materiali. Mancano gli archivi di famiglia, i carteggi, la documentazione, una bibliografia ricca e ben fatta e poi una indagine lunga e approfondita, oltre che una riflessione accurata eseguita da storici di valore. Sono questi gli ingredienti che darebbero spessore e "disincanto" alla biografia di un imprenditore che a 29 anni dirigeva già uno degli stabilimenti più innovativi in ambito non solo nazionale ma internazionale: parlo della Piaggio del 1932/33 dove si producevano motori per aerei da guerra. Quelli usati nella guerra di aggressione fascista all'Etiopia e poi nella seconda guerra mondiale. Elementi appena sfiorati e per certi aspetti distorti nel film.
Ma una cosa è la storia praticata come disciplina scientifica. E un'altra è il cinema per la TV che racconta storie. Tra i due prodotti culturali ci può essere una osmosi, ma i prodotti finali, i libri e i film, sono destinati sostanzialmente a pubblici diversi e quindi sono oggetti con caratteristiche e finalità proprie e non comparabili.
Ciò non toglie che un buon film non possa raccontare molte cose ad un pubblico di massa e vada quindi accolto, come in questo caso, in maniera largamente positiva.
Certo, un soggetto cinematografico (come quello elaborato da Roberto Jannone e Francesco Massaro), poi trasformato in una sceneggiatura (con la collaborazione anche di Franco Bernini) non è un libro di storia. Però ci suggerisce una lettura della storia e, come avrebbe detto il grande Benedetto Croce, ci aiuta perfino a capire il presente.
Così anche se Pontedera è appena citata nel film (e per noi pontederesi di oggi questo è un gran peccato!), in fondo questa assenza è quello che avrebbero desiderato tanti pontederesi degli anni '50 e'60 che si batterono con fierezza perchè Pontedera non si trasformasse in Piaggiopoli. Il film di Umberto Marino, di sicuro involontariamente, in qualche modo accontenta anche loro.
L'unico rammarico che ho è che per il momento la storia di Piaggio non si sia trasformata in uno sceneggiato. Perchè se avesse affrontato anche la giovinezza dell'imprenditore, il periodo bellico e poi anche la prima curva discendente del fenomeno Vespa all'inizio degli anni '60, avrebbe raccontato davvero un bello spaccato di storia nazionale. Perchè episodi duri, eventi forti, drammi, scontri, ma anche matrimoni "regali" (come quello tra la figlia Antonella e Umberto Agnelli) e fasi calde (con lunghi scioperi) non mancarono tra i primi anni '30 e la morte di Piaggio che risale alla fine del 1965.
E tuttavia, anche in questa versione light, il film contiene molto e almeno il mondo scolastico potrebbe utilizzarlo, magari con proiezioni introdotte e commentate da qualche bravo insegnate di storia.
La speranza poi non è solo quella che il film aiuti a veicolare ancora il mito della Vespa nel mondo. L'auspicio è che la storia di Enrico Piaggio possa dare ancora molto alla città dove la Vespa è nata. In termini di attrattiva turistica; e come luogo di produzione di idee e di fabbricazione di oggetti innovativi. Forse perfino come strumento di riflessione sulle relazioni sindacali e politiche. Forse!
Tutte cose che accadranno solo se i pontederesi di oggi sapranno dialogare meglio non solo con il mito della Vespa ma con le nuove opportunità tecnologiche che per ora abitano il viale Rinaldo Piaggio.
Ma sapranno far tesoro di una biografia come quella di Enrico Piaggio?
Di sicuro il film fa di Enrico Piaggio un personaggio "popolare", cosa che non si è ancora riusciti a realizzare con un'altra figura importante di questa città. Mi riferisco al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Anche lui meriterebbe un bel film per la TV.
sabato 26 ottobre 2019
Ci rido sopra. Crescere con le pelle nera nell'Italia di Salvini / Tommy Kuti,
Ci rido sopra. Crescere con le pelle nera nell'Italia di Salvini / Tommy Kuti, Rizzoli, 2019, p. 236
Testo leggero, furbo e intelligente scritto da un rapper emergente, di famiglia nigeriana, ma nato e cresciuto nel bresciano e sostanzialmente padanizzato e italianizzato, a parte il disamore per Bossi e Salvini.
Il ragazzo (ha 30 anni) si definisce "afroitaliano" e scrive testi e canzoni (di cui non ho ascoltato nulla) come uno dei diversi rapper norditaliani. Nel libro ha deciso di autobiografarsi con un linguaggio leggero e scorrevole; e c'è riuscito. Bene. Ne esce una lettura piacevole che cerca di smontare diversi luoghi comuni sugli immigrati africani in Italia.
Naturalmente Kuti non nasconde ai suoi lettori la dura vita dell'immigrato. I quartieri dove ha abitato. I problemi di convivenza con gli altri immigrati e con gli autoctoni. Ma il racconto è fatto in positivo, ovvero cercando per ogni problema una soluzione, evitando di covare rancore o avvilimento. Carine anche le pagine sul decalogo dell'immigrato.
Insomma il sovrabbondante Tommy Kuti affronta in maniera costruttiva la realtà contro cui si trova a sbattere. Si misura con gli altri, cerca di inserirsi nel contesto scolastico, sogna di "limonare" con le ragazze italopadane e di altre provenienze, frequenta un istituto superiore, fa un anno di scuola negli Usa dove finalmente "limona"..... e alla fine trova un corso di comunicazione all'Università di Cambridge in UK e lì si laurea in comunicazione. Certo quando pretende di sfruttare la laurea in Italia sbatte il muso. Ma lui è portato alla musica. Ha imparato a comunicare la sue emozioni. Ha sempre avuto la passione per scrivere e cantare. Così si mette a scrivere testi. Si esibisce in più gruppi. E nel frattempo coltiva relazioni. E alla fine viene lanciato da Della Gherardesca nel programma TV "Pechino Express".
Certo, come scrive lui, la gafi resta il suo primo pensiero. Pensiero che condivide con la stragrande maggioranza di afroitaliani, padano italiani e solamente italiani. E la gafi costituisce una ossessione ricorrente (citata, sfumata, intuita, sotto traccia) in gran parte del libro.
Ma nelle sua pagine c'è molto di più e molto spazio ha il complesso rapporto con la famiglia (padre, madre e fratelli), dove Kuti delinea una relazione e una storia che non ha niente di diverso dai rapporti familiari nostrali. Leggere per credere.
E poi c'è il rapporto coi soldi, la smania di farli e di spenderli. Tipico dei nigeriani, dice lui. E tipico anche degli italiani, aggiungo io. Non solo padani.
Quindi il razzismo che si respira nell'aria e si vive nelle nostre comunità
E poi la scuola italiana di cui, guarda un po', Kuti parla sostanzialmente bene, sia per i livelli di integrazione che per la capacità di alcuni insegnanti sensibili di dargli una mano. Ovviamente non sono tutte rose e fiori. Ma il capitolo sulla scuola lo chiude dicendo che anche peggiori studenti italiani (lui si è diplomato con 60) all'estero fanno la loro brava figura (sarà per questo che esportiamo cervelli? E non c'è qualcosa di molto positivo nel farlo?).
Più scontate ma mai banali anche le sue riflessioni sulla religione e sulla politica.
Commoventi alcune righe di ringraziamento per il circolo Arci Dallò dove è cresciuto culturalmente e sentimentalmente.
Riassumerei che è un testo perfetto di motivazione all'integrazione e al farsi strada nella vita (perfetto la caccia alla gafi). Del resto già nel primo capitolo Kuti dichiara di sentirsi un cittadino del mondo. Già, siamo tutti planetari, ci avrebbe ricordato Padre Balducci.
Lettura obbligata per i giovani di tutte le provenienze e di tutti i colori. Ma non sconsigliato neppure ai vecchi che vogliano sentirsi più giovani.
Disponibile nella Rete Bibliolandia
Testo leggero, furbo e intelligente scritto da un rapper emergente, di famiglia nigeriana, ma nato e cresciuto nel bresciano e sostanzialmente padanizzato e italianizzato, a parte il disamore per Bossi e Salvini.
Il ragazzo (ha 30 anni) si definisce "afroitaliano" e scrive testi e canzoni (di cui non ho ascoltato nulla) come uno dei diversi rapper norditaliani. Nel libro ha deciso di autobiografarsi con un linguaggio leggero e scorrevole; e c'è riuscito. Bene. Ne esce una lettura piacevole che cerca di smontare diversi luoghi comuni sugli immigrati africani in Italia.
Naturalmente Kuti non nasconde ai suoi lettori la dura vita dell'immigrato. I quartieri dove ha abitato. I problemi di convivenza con gli altri immigrati e con gli autoctoni. Ma il racconto è fatto in positivo, ovvero cercando per ogni problema una soluzione, evitando di covare rancore o avvilimento. Carine anche le pagine sul decalogo dell'immigrato.
Insomma il sovrabbondante Tommy Kuti affronta in maniera costruttiva la realtà contro cui si trova a sbattere. Si misura con gli altri, cerca di inserirsi nel contesto scolastico, sogna di "limonare" con le ragazze italopadane e di altre provenienze, frequenta un istituto superiore, fa un anno di scuola negli Usa dove finalmente "limona"..... e alla fine trova un corso di comunicazione all'Università di Cambridge in UK e lì si laurea in comunicazione. Certo quando pretende di sfruttare la laurea in Italia sbatte il muso. Ma lui è portato alla musica. Ha imparato a comunicare la sue emozioni. Ha sempre avuto la passione per scrivere e cantare. Così si mette a scrivere testi. Si esibisce in più gruppi. E nel frattempo coltiva relazioni. E alla fine viene lanciato da Della Gherardesca nel programma TV "Pechino Express".
Certo, come scrive lui, la gafi resta il suo primo pensiero. Pensiero che condivide con la stragrande maggioranza di afroitaliani, padano italiani e solamente italiani. E la gafi costituisce una ossessione ricorrente (citata, sfumata, intuita, sotto traccia) in gran parte del libro.
Ma nelle sua pagine c'è molto di più e molto spazio ha il complesso rapporto con la famiglia (padre, madre e fratelli), dove Kuti delinea una relazione e una storia che non ha niente di diverso dai rapporti familiari nostrali. Leggere per credere.
E poi c'è il rapporto coi soldi, la smania di farli e di spenderli. Tipico dei nigeriani, dice lui. E tipico anche degli italiani, aggiungo io. Non solo padani.
Quindi il razzismo che si respira nell'aria e si vive nelle nostre comunità
E poi la scuola italiana di cui, guarda un po', Kuti parla sostanzialmente bene, sia per i livelli di integrazione che per la capacità di alcuni insegnanti sensibili di dargli una mano. Ovviamente non sono tutte rose e fiori. Ma il capitolo sulla scuola lo chiude dicendo che anche peggiori studenti italiani (lui si è diplomato con 60) all'estero fanno la loro brava figura (sarà per questo che esportiamo cervelli? E non c'è qualcosa di molto positivo nel farlo?).
Più scontate ma mai banali anche le sue riflessioni sulla religione e sulla politica.
Commoventi alcune righe di ringraziamento per il circolo Arci Dallò dove è cresciuto culturalmente e sentimentalmente.
Riassumerei che è un testo perfetto di motivazione all'integrazione e al farsi strada nella vita (perfetto la caccia alla gafi). Del resto già nel primo capitolo Kuti dichiara di sentirsi un cittadino del mondo. Già, siamo tutti planetari, ci avrebbe ricordato Padre Balducci.
Lettura obbligata per i giovani di tutte le provenienze e di tutti i colori. Ma non sconsigliato neppure ai vecchi che vogliano sentirsi più giovani.
Disponibile nella Rete Bibliolandia
Ma che cos'è l'Europa?
Certo non uno Stato. Ma neppure una confederazione. E', per autodichiarazione, un'Unione. Ma cos'è esattamente un'Unione dal punto di vista istituzionale? Bella domanda. La risposta, temo, sarebbe lunghissima. Ma la sostanza è chiara. E' un soggetto privo di una esplicita sovranità popolare. La sovranità europea esiste solo su concessione (parziale) dei singoli stati aderenti ed è revocabile e negoziabile. Nell'Unione si può entrare ed uscire. Con un po' di fatica, ma si può fare. Brexit docet.
L'Europa dunque non è uno stato sovrano. Di uno stato non possiede nè esercito, nè polizia. E, a voler essere pignoli, neppure un vero sistema giudiziario. Non ha neppure un proprio sistema di tasse. Nè un proprio sistema scolastico, sanitario, sociale, ecc. ecc. La sua moneta, l'Euro, è accettata solo in 19 dei sui 27 stati.
Non possiede una Costituzione.
Ha però diversi organi decisionali, ha un bilancio (derivato), promulga leggi e direttive, produce atti con valore giuridico nei confronti dei partner e del resto del mondo. La cosa più bella che ha consentito e consente è la libera circolazione di uomini, denaro e merci in uno spazio comune sostanzialmente democratico ed ha elaborato pezzi di economica politica negoziata tra gli stati aderenti all'Unione.
Fa anche altre cose (inclusa un po' di cultura), ma in maniera molto negoziata.
In breve è un'istituzione a forte valenza economica, in continuità con la sua nascita che è collegata alla stipula di importanti trattati commerciali ed economici.
Alcuni sostengono che l'Europa sta trasformandosi in un soggetto politico. Ma ammesso che le forme della transizione lo consentano, passerà ancora molto tempo prima che questo soggetto nasca. Ripeto: ammesso che riesca a farcela. E comunque adesso quel soggetto politico non c'è.
Per queste ragioni chi invoca l'Europa come soggetto politico sovrano, in grado di stare alla pari con Stati come la Cina (che tecnicamente è una dittatura politico-militare), la Russia (che non è uno stato democratico) e gli Stati Uniti esprime un desiderio che non essendo l'Europa un soggetto politico sovrano non può esaudire. Anzi non può nemmeno prendere in considerazione.
Eppure gli articoli di giornali e la comunicazione interpersonale spesso dicono: "l'Europa dovrebbe.." o si chiedono: "L'Europa dov'è?".
Non so dire quale sia il grado di miopia, di ignoranza e di sostanziale autoinganno di questi milioni di persone che invocano più Europa o un'Europa più attiva.
Certo che ci sarebbe bisogno di una qualche entità che risolvesse tutti i mali del mondo o che sapesse cosa fare rispetto al loro svolgersi.
Ma questa entità per ora non c'è. E non è e per ora non può essere l'Europa.
Precisato questo, so però che con tutti i suoi limiti e con la sua organizzazione derivata e negoziata, l' Unione Europea è stata ed è una benedizione del cielo e una fortuna che non dobbiamo indebolire e, Dio ce ne scampi, perdere.
Certo non uno Stato. Ma neppure una confederazione. E', per autodichiarazione, un'Unione. Ma cos'è esattamente un'Unione dal punto di vista istituzionale? Bella domanda. La risposta, temo, sarebbe lunghissima. Ma la sostanza è chiara. E' un soggetto privo di una esplicita sovranità popolare. La sovranità europea esiste solo su concessione (parziale) dei singoli stati aderenti ed è revocabile e negoziabile. Nell'Unione si può entrare ed uscire. Con un po' di fatica, ma si può fare. Brexit docet.
L'Europa dunque non è uno stato sovrano. Di uno stato non possiede nè esercito, nè polizia. E, a voler essere pignoli, neppure un vero sistema giudiziario. Non ha neppure un proprio sistema di tasse. Nè un proprio sistema scolastico, sanitario, sociale, ecc. ecc. La sua moneta, l'Euro, è accettata solo in 19 dei sui 27 stati.
Non possiede una Costituzione.
Ha però diversi organi decisionali, ha un bilancio (derivato), promulga leggi e direttive, produce atti con valore giuridico nei confronti dei partner e del resto del mondo. La cosa più bella che ha consentito e consente è la libera circolazione di uomini, denaro e merci in uno spazio comune sostanzialmente democratico ed ha elaborato pezzi di economica politica negoziata tra gli stati aderenti all'Unione.
Fa anche altre cose (inclusa un po' di cultura), ma in maniera molto negoziata.
In breve è un'istituzione a forte valenza economica, in continuità con la sua nascita che è collegata alla stipula di importanti trattati commerciali ed economici.
Alcuni sostengono che l'Europa sta trasformandosi in un soggetto politico. Ma ammesso che le forme della transizione lo consentano, passerà ancora molto tempo prima che questo soggetto nasca. Ripeto: ammesso che riesca a farcela. E comunque adesso quel soggetto politico non c'è.
Per queste ragioni chi invoca l'Europa come soggetto politico sovrano, in grado di stare alla pari con Stati come la Cina (che tecnicamente è una dittatura politico-militare), la Russia (che non è uno stato democratico) e gli Stati Uniti esprime un desiderio che non essendo l'Europa un soggetto politico sovrano non può esaudire. Anzi non può nemmeno prendere in considerazione.
Eppure gli articoli di giornali e la comunicazione interpersonale spesso dicono: "l'Europa dovrebbe.." o si chiedono: "L'Europa dov'è?".
Non so dire quale sia il grado di miopia, di ignoranza e di sostanziale autoinganno di questi milioni di persone che invocano più Europa o un'Europa più attiva.
Certo che ci sarebbe bisogno di una qualche entità che risolvesse tutti i mali del mondo o che sapesse cosa fare rispetto al loro svolgersi.
Ma questa entità per ora non c'è. E non è e per ora non può essere l'Europa.
Precisato questo, so però che con tutti i suoi limiti e con la sua organizzazione derivata e negoziata, l' Unione Europea è stata ed è una benedizione del cielo e una fortuna che non dobbiamo indebolire e, Dio ce ne scampi, perdere.
I 13 racconti di Dino Fiumalbi presentati alla Biblioteca Gronchi di Pontedera
Cerchiamo quadrature?
Affollatissima presentazione dell'ultima fatica letteraria di Dino Fiumalbi alla Biblio Gronchi di Pontedera. Si tratta di un agile volumetto di 13 racconti (scritti nell'arco degli ultimi venti anni) che affrontano temi di vita quotidiana, momenti e personaggi di storia locale (Elba, Vicopisano, Pontedera) e curiosi sviluppi di storie prodotte da altri grandi autori (Manzoni, Leopardi). In poco più di 100 pagine quella specie di scrittore gaudente che è Fiumalbi ha allineato le sue storie, per intrigare i lettori, costruendo finali a sorpresa, intrecciando parole e commuovendoci. Ottimamente introdotto e descritto da Monica Marrucci, letto con grazia dall'attore Alessandro Tognarelli, Dino Fiumalbi ha spiegato con la sua proverbiale meticolosità la sua poetica. Le scelte, i toni, i personaggi e i colori, un insieme composito che lui ha riassunto nel titolo del volume: "Noi umani cerchiamo quadrature" (Bandecchi & Vivaldi editore). Una caterva di amici ed estimatori in biblioteca a godersi il loro amico e il loro autore. il tutto annaffiato alla fine anche da un bicchiere di Vermentino. Una quadratura davvero perfetta.
Cerchiamo quadrature?
Affollatissima presentazione dell'ultima fatica letteraria di Dino Fiumalbi alla Biblio Gronchi di Pontedera. Si tratta di un agile volumetto di 13 racconti (scritti nell'arco degli ultimi venti anni) che affrontano temi di vita quotidiana, momenti e personaggi di storia locale (Elba, Vicopisano, Pontedera) e curiosi sviluppi di storie prodotte da altri grandi autori (Manzoni, Leopardi). In poco più di 100 pagine quella specie di scrittore gaudente che è Fiumalbi ha allineato le sue storie, per intrigare i lettori, costruendo finali a sorpresa, intrecciando parole e commuovendoci. Ottimamente introdotto e descritto da Monica Marrucci, letto con grazia dall'attore Alessandro Tognarelli, Dino Fiumalbi ha spiegato con la sua proverbiale meticolosità la sua poetica. Le scelte, i toni, i personaggi e i colori, un insieme composito che lui ha riassunto nel titolo del volume: "Noi umani cerchiamo quadrature" (Bandecchi & Vivaldi editore). Una caterva di amici ed estimatori in biblioteca a godersi il loro amico e il loro autore. il tutto annaffiato alla fine anche da un bicchiere di Vermentino. Una quadratura davvero perfetta.
lunedì 21 ottobre 2019
Venti anni del Museo della Scrittura di San Miniato
Ho partecipato sabato 19 ottobre ad un compleanno speciale: quello del Museo della Scrittura. Oggetto molto particolare, alloggiato in un grande capannone industriale di San Miniato Basso. Conosciuto ed usato dal mondo della scuola, ma ignorato dal grosso dei sanminiatesi. Come in parte è scontato che accada. Nato nel 1999, all'inizio dell'era digitale, dall'idea di consentire ai ragazzi di capire come si era creata la civiltà della scrittura (e della lettura) e come era evoluta, il museo/laboratorio didattico puntava sul coinvolgimento degli stessi bambini e dei ragazzi che venivano (e vengono) invitati a misurarsi, proprio fisicamente, con l'azione di scrivere sulla pietra, sull'argilla cotta e cruda, sulle tavolette cerate, sui pezzi di papiro e sulla pergamena.
L'idea, nata per una mostra itinerante, attecchì e funzionò e l'Amministrazione Lippi e poi quella guidata da Frosini la stabilizzarono e le dettero fiato fino a far passare dalla struttura di San Miniato Basso circa 400 scolaresche all'anno, provenienti non solo da San Miniato ma da tutta la Toscana e anche da Regioni vicine.
Il progetto, come ha documentato la relazione di Barbara Pasqualetti, nei primi anni del nuovo millennio si allargò alla storia dei numeri nell'antichità (sempre con oggetti con i quali e ragazzi dovevano (e debbono) interagire), alle misurazioni del tempo e all'evoluzione verso il digitale. Poi... poi il progetto museale un po' di fermò e i visitatori (in primis le scolaresche provenienti da tutta la Toscana, ma proprio tutta) diminuirono. Ma, ed è questa la cosa più bella, l'idea continuò a funzionare. Molti insegnanti portano i ragazzi al Museo e la cooperativa La Pietra d'Angolo che ha in gestione il Museo, mantiene un impegno straordinario. Lo spazio funziona e una media sulle 200 classi per ciascun anno scolastico sbarca in via De Amicis e invade lo spazio, animando di suoni e riflessioni le stazioni della scrittura e l'area dei numeri antichi.
Perciò è stato bello sentire il nuovo sindaco Giglioli e il nuovo assessore alla cultura, Arzilli, sostenere che l'Amministrazione comunale si impegnerà a rilanciarlo.
Davvero un bel ventennale per chi l'ha pensato, costruito, animato e per chi ancora oggi come Barbara Pasqualetti, Cinzia Cioni e altri operatori continua a crederci, a renderlo vivo e accogliente per frotte di ragazzini che almeno per un po' sono disponibili e spegnere i loro smartphone e i tablet e giocare a scrivere esattamente come facevano i loro coetanei babilonesi, egiziani, etruschi e romani.
Anche in questo il museo della civiltà della scrittura di San Miniato insegna e trasmette strumenti di civiltà e contenuti molto positivi.
Sì vale davvero la pena che continui a funzionare.
Il sindaco Giglioli e le operatrici e gli operatori della Pietra d'Angolo al Museo della Scrittura
I
giovedì 17 ottobre 2019
Marcovaldo Punk. Un comunista a Palazzo Chigi / Pilade Cantini, Clichy, 2019, p. 186
Letto. L'autore scrive bene. Molto bene. Insisto: davvero molto bene. E' che, strizza strizza, dice poco. E' spiritoso, certo. La battuta non gli manca. Fa del bozzettismo E lo fa bene. Alla toscana. Ma deh, ma deh, ma deh....
Non è lavoro, è precariato / Marta Fana, Laterza, 2017, p. 173
Testo a clichè. Ambito Rovelli/Gallino. Poco di originale. Poco statistico. Alcuni casi assunti a punti di riferimento. Certo il precariato esiste. Ma per capirlo e forse affrontato andrebbe ingegnerizzato dal punto di vista sindacale. Ma il sindacato non può farlo. Non ha strumenti. Nè M. Fana glieli fornisce. Un'analisi inutile anche per la lotta di classe. Non produce sapere sociale. Consolida il divario che esiste tra gestione dell'impresa e gestione dei diritti del lavoro. Peccato. Aspetteremo il prossimo libro della stessa autrice.
martedì 8 ottobre 2019
Chi è il mio prossimo? / Martin Luther King ed altri. Con una postfazione di Giuseppe Cecconi, Giovane Africa Edizioni, 2015, pp. 60
Il testo di Martin Luther King dedicato alla riflessione su "Chi è il nostro prossimo?" è un potente sermone scritto e pronunciato dal reverendo americano leader dl movimento contro la segregazione e la discriminazione razziale negli USA e nel mondo.
Il ragionamento si sviluppa in gran parte attorno alla parabola del buon samaritano ed elabora i concetti di altruismo universale, altruismo rischioso e altruismo eccessivo, congiungendo l'episodio del buon samaritano con la morte altruistica di Gesù.
Il testo di ML King è ancora (e più che mai) attuale, in un mondo in cui gli uomini di etnie, culture, paesi diversi, di diversa religione e di diverso colore della pelle, sono sempre più mescolati. Nelle grandi megalopoli come nei piccoli centri.
La convivenza tra diversi e il superamento di segregazioni e discriminazioni con cui lui lottava ML King negli anni '60 richiedono ancora sia una legislazione più evoluta che una crescita morale che faccia sviluppare in ciascuno di noi più altruismo, più compassione e più amore.
Le neuroscienze che in questi ultimi anni hanno compiuto importanti passi avanti nella conoscenza della mente e del comportamento umano ci obbligano a secolarizzare la riflessioni di King, ma nella sostanza non ne smentiscono l'approccio e le conclusioni che restano validissime.
Certo noi sappiamo che l'altruismo è una conquista evolutiva lenta dell'uomo.
Sappiamo che nella nostra genetica e nell'esperienza antropologica egoismo ed altri sentimenti "negativi" (pregiudizi, timori, sentimenti di ripulsa, paura dell'altro, ecc.) sono profondamente radicati.
Oggi sappiamo che non è solo il capitalismo a sviarci dall'altruismo e che l'egoismo individuale e quello di gruppo, come i ritorni razziali e nazionalismi, non sono prodotti solo dal "provincialismo" e dall'ignoranza. E comunque non sono sentimenti e atteggiamenti che si superano con facilità.
Paradossalmente anche la grande libertà e facilità di movimento che caratterizza oggi (e io dico fortunatamente) l'umanità producono o rafforzano, come effetto secondario, certo indesiderato, chiusure, timori, muri.
Insomma la sfida per la costruzione di una coscienza umana planetaria, come direbbe Balducci e come ci suggerirebbe di fare la "crisi climatica", a cui in questi giorni ci richiamano sia il sinodo episcopale sull'Amazzonia sia la presenza all'ONU di Greta Thumberg, è tutt'altro che facile e non è risolvibile con schemi ideologici vecchi.
Occorre molta più capacità di dialogo e di ascolto di tutti verso tutti.
Ed è anche di questo che, credo, si parlerà domani, nel nostro piccolo, a Pontedera nella conferenza di presentazione del testo di Martin Luther King, alle ore 17, presso la Chiesa del SS. Crocifisso.
Il testo di Martin Luther King dedicato alla riflessione su "Chi è il nostro prossimo?" è un potente sermone scritto e pronunciato dal reverendo americano leader dl movimento contro la segregazione e la discriminazione razziale negli USA e nel mondo.
Il ragionamento si sviluppa in gran parte attorno alla parabola del buon samaritano ed elabora i concetti di altruismo universale, altruismo rischioso e altruismo eccessivo, congiungendo l'episodio del buon samaritano con la morte altruistica di Gesù.
Il testo di ML King è ancora (e più che mai) attuale, in un mondo in cui gli uomini di etnie, culture, paesi diversi, di diversa religione e di diverso colore della pelle, sono sempre più mescolati. Nelle grandi megalopoli come nei piccoli centri.
La convivenza tra diversi e il superamento di segregazioni e discriminazioni con cui lui lottava ML King negli anni '60 richiedono ancora sia una legislazione più evoluta che una crescita morale che faccia sviluppare in ciascuno di noi più altruismo, più compassione e più amore.
Le neuroscienze che in questi ultimi anni hanno compiuto importanti passi avanti nella conoscenza della mente e del comportamento umano ci obbligano a secolarizzare la riflessioni di King, ma nella sostanza non ne smentiscono l'approccio e le conclusioni che restano validissime.
Certo noi sappiamo che l'altruismo è una conquista evolutiva lenta dell'uomo.
Sappiamo che nella nostra genetica e nell'esperienza antropologica egoismo ed altri sentimenti "negativi" (pregiudizi, timori, sentimenti di ripulsa, paura dell'altro, ecc.) sono profondamente radicati.
Oggi sappiamo che non è solo il capitalismo a sviarci dall'altruismo e che l'egoismo individuale e quello di gruppo, come i ritorni razziali e nazionalismi, non sono prodotti solo dal "provincialismo" e dall'ignoranza. E comunque non sono sentimenti e atteggiamenti che si superano con facilità.
Paradossalmente anche la grande libertà e facilità di movimento che caratterizza oggi (e io dico fortunatamente) l'umanità producono o rafforzano, come effetto secondario, certo indesiderato, chiusure, timori, muri.
Insomma la sfida per la costruzione di una coscienza umana planetaria, come direbbe Balducci e come ci suggerirebbe di fare la "crisi climatica", a cui in questi giorni ci richiamano sia il sinodo episcopale sull'Amazzonia sia la presenza all'ONU di Greta Thumberg, è tutt'altro che facile e non è risolvibile con schemi ideologici vecchi.
Occorre molta più capacità di dialogo e di ascolto di tutti verso tutti.
Ed è anche di questo che, credo, si parlerà domani, nel nostro piccolo, a Pontedera nella conferenza di presentazione del testo di Martin Luther King, alle ore 17, presso la Chiesa del SS. Crocifisso.
giovedì 3 ottobre 2019
Presentazione del libro di Silvano Granchi "Il tempo del silenzio. Una scomparsa, tante ipotesi, una sola verità" (edito dalla Conchiglia di Santiago, 2019)
Sabato prossimo (5 ottobre 2019) Floriano Romboli presenterà alla Biblioteca di Pontedera l'ultima fatica letteraria di Silvano Granchi. Si tratta di un romanzo che contiene un'indagine sulla scomparsa del prof. Federico Caffè. L'indagine è dunque ispirata ad un episodio vero risalente al 1987.
Lo scomparso (volontariamente? Involontariamente?) è un economista italiano, docente universitario, abbastanza noto all'epoca, anche se oggi (sono passati 30 anni) quasi dimenticato e ignorato dai giovani (come è ovvio che sia).
Granchi fa indagare su questa scomparsa un poliziotto e un carabiniere, costringendoli a girare intorno ad una serie di ipotesi che portano a quella che diverse persone giudicarono già allora la soluzione più probabile.
A questa scomparsa anche lo scrittore Ermanno Rea aveva dedicato un libro intitolato "L'ultima lezione" (Einaudi 2001).
Confesso che come in molti romanzi d'indagine anche in questo caso la vicenda sembra servire soprattutto allo scrittore (in questo caso l'ex sindaco di Ponsacco Silvano Granchi) per raccontare le proprie idee sulle vicende del mondo e del nostro paese in particolare, oltre che su quelle del caso "Caffè".
mercoledì 2 ottobre 2019
Martin Eden / film di Pietro Marcello con Luca Marinelli (2019)
L'ambientazione italiana del libro Martin Eden di Jack London ha generato un film complesso e assai più cervellotico ed intricato del testo scritto dall'autore americano. Del resto il regista Marcello ha scritto di essersi molto liberamente ispirato al romanzo americano.
In realtà la struttura portante della trama del film ricalca quella essenziale del romanzo autobiografico di London. Un marinaio uscito da una famiglia popolare si innamora e vuole conquistare una ragazza borghese altolocata e decide di trasformarsi in uno scrittore di successo. Dei due progetti di vita il secondo (diventare scrittore e guadagnare molti soldi) gli riesce, a prezzo però di uno sforzo durissimo che fiacca il giovane scrittore soprattutto nell'animo. Mentre le convenzioni borghesi della famiglia della ragazza e certe confuse idee "rivoluzionarie" dello stesso Martin gli sbarrano la conquista della ragazza e l'accesso ad una relazione ordinaria (ma era davvero questo ciò che desiderava?).
Il successo conquistato a duro prezzo svuota Martin/Jack London e colloca l'autore/protagonista in una situazione di depressione da cui il personaggio (e l'autore) uscirà ricco ma stritolato.
Nel film di Marcello tutto questo si svolge in uno strano secondo dopoguerra italiano che oscilla tra gli anni '50 e gli anni '60. Con un finale che forse allude anche al "Tallone di ferro" (altro romanzo di London).
La pellicola è lunga, intricata, con spezzoni di film d'epoca e una discussione politico filosofica non facile da trasportare nella contemporaneità.
Qualcuno ha scritto che è un film inconcluso. Condivido questa diagnosi.
Aggiungo però che la prova di attore di Luca Marinelli è davvero notevole. Hanno fatto bene a premiarlo a Venezia come miglior attore.
Concludo che il film come il romanzo sono tutto un peana al libro come strumento di riscatto e di emancipazione individuale. Ma nel romanzo anche le biblioteche e i bibliotecari hanno un piccolo spazio, moderno e ben delineato. Però siamo negli USA di fine '800. Portando la vicenda in Italia e nella Napoli del secondo dopoguerra il regista trasforma le biblioteche nel negozio di un rigattiere. Che altro poteva fare?
Insomma è un film piuttosto impegnativo, ma che vale la pena di essere visto.
martedì 17 settembre 2019
Il destino di Renzi e quello del Centro Sinistra
Non sono un renziano, ma trovo simpatico l'uomo e cerco di capirlo. In passato ho perfino sperato che la sua azione di "rinnovamento" funzionasse. E' però evidente che il rignanese ha una personalità troppo debordante per poter giocare in una squadra dove non sia lui il capitano e l'allenatore. E se lui smette di giocare deve come minimo portarsi via anche il pallone. E' più forte di lui. L'anima del gregario e del panchinaro, o di chi accetta le idee degli altri, non ce l'ha. Neppure la coerenza è la prima delle sue virtù. Anzi gli piace contraddirsi. Spesso. Ma di autostima e di coraggio ne ha da vendere. E soprattutto non riesce a stare fermo. Si annoia. Così dopo due anni di incertezze, ha tirato i dadi. Prova a tornare in scena. Con un ruolo importante. Nel Pd non si sentiva più a suo agio. Meglio costruire un nuovo partito. A sua immagine e somiglianza. Ambiziosetto? Sì. Ce la farà? Penso di no. E comunque Renzi è un uomo libero, maggiorenne, vaccinato e, nel pieno rispetto delle leggi, può fare ciò che vuole. Costruire nuovi partiti politici è un diritto costituzionale. Al Pd non credo che ITALIA VIVA (che d'ora in poi abbrevierò in IV) farà molti danni. Intanto perchè l'uomo della Leopolda lascerà nel Pd una parte dei suoi ex amici che diventeranno più fedeli al partito non potendo più essere renziani e dovendo farsi perdonare di esserlo stati. Inoltre IV dovrebbe ragionevolmente essere un utile competitore e stimolatore del Pd (ma non pescherà molto tra i vecchi militanti e nemmeno tra i giovani del Pd). Infine del Pd Renzi dovrà essere un "inevitabile" alleato (con chi altri potrebbe infatti allearsi, a parte i 5S, per contare qualcosa sulla scena politica italiana?). Così Pd e IViani sembrano se non proprio complementari, destinati a sostenersi e a sopportarsi vicendevolmente, cercando di far argine al fascioleghismo sovranista, razzista e antieuropeista che avanza impetuoso. Ma per crescere e arginare gli avversari dovranno entrambi definire direttrici di espansione (possibilmente evitando di pescare l'uno nel bacino elettorale dell'altro: in questo caso non ci sarebbe crescita, ma travaso). Dovranno diversificarsi. Quanto più potranno, ma senza polemizzare troppo e senza farsi una guerra aperta, perché per contare qualcosa dovranno allearsi nei comuni, nelle regioni e in Parlamento. Il Pd mostrandosi una forza più di sinistra (e autorizzando i propri militanti a cantare Bandiera Rossa e Bella Ciao alle feste dell'Unità, anche se il giornale non si stampa più); mentre il rignanese dovrebbe guardare più al centro (dove è noto che si apprezzano di più le canzoni di Fossati, Venditti, De Gregori e dei Rapper). A ciascuno quindi il suo campo da arare e la sua musica, limitando il più possibile le intersezioni. Liberi da impacci, e ognuno pensando a sé, auguriamoci che "sinistri" e "centristi" dilaghino nei territori di rispettiva pertinenza e trovino una linea del Piave su cui fermare Salvini. Entrambi poi dovrebbero confermarsi favorevoli ad alleanze con i 5S, mentre di sicuro si dichiarano antirazzisti, antisovranisti ed europeisti (sia pure critici). Che si può volere di più? Il leopoldino, dunque, girovagherà nelle praterie del centro-sinistra, ma guardando soprattutto al centro. Inseguirà un sogno "macroniano", ma senza l'incubo del "fuoco amico". Vuoi mettere la differenza da ora? Proprio tutta un'altra cosa. Contemporaneamente le residue mille anime del Pd vagheranno per le stesse praterie, ma puntando più a sinistra (soprattutto se rientreranno Bersani e D'Alema). Così non ci sarà da meravigliarsi se alla fine anche il Pd condividerà gli stessi programmi renziani e viceversa. Del resto molti renziani (qualcuno ha già detto "purtroppo" e "troppi") rimarranno, soprattutto su scala locale, infiltrati nel Pd. Toccherà a loro questa volta scatenare il fuoco amico su Zingaretti e alimentare le tensioni interne? Meno male che almeno i sindaci si sono tutti schierati per rimanere nel Pd con un percentuale bulgara. E loro dei sentimenti dei cittadini se ne intendono.Come simpatizzante del "centro-sinistra" mi auguro che lo spettro del fascioleghismo evocato da Franceschini non si materializzi e che Renzi riesca a conquistare consensi al centro e non cambi ancora idea sull'alleanza col Pd e coi 5S e sul sostegno al governo Conte. Oppure spero che si ricordi di aver detto di se stesso che non era un uomo per tutte le stagioni e ne tragga tutte le conseguenze.
Via dalla pazza classe. Educare per vivere / Eraldo Affinati,
Via dalla pazza classe. Educare per vivere / Eraldo Affinati, Mondadori, 2019, pp. 244, 18€
Il libro di Affinati è un bel saggio di pedagogia pratica che merita di essere letto, sottolineato (a patto che uno se ne compri una copia personale), meditato e rimuginato. Io almeno ho fatto così. Ma cosa racconta? Essenzialmente delle scuole che Affinati, la moglie e tanti suoi amici e collaboratori, tutti rigorosamente volontari, hanno messo su partendo da una prima esperienza romana che continua a crescere. E' in queste scuole che due volte alla settimana si accolgono migranti che vogliono imparare l'italiano e alfabetizzarsi, fuori da vincoli burocratici ed indipendentemente dal fatto che abbiano o non abbiamo il permesso di soggiorno o siano in regola con tutte le procedure burocratiche. Perchè per Eraldo Affinati i migranti (di qualunque tipo e provenienza) sono oggi l'equivalente dei ragazzi di Barbiana di Don Milani. Sono loro i nuovi dannati della terra e verso di loro noi, ricchi e alfabetizzati, abbiamo un grande debito morale. Un debito che non si ferma all'accoglienza, ma si allarga all'obbligo di fornire loro le parole e gli strumenti linguistici per farsi capire e per esprimere sentimenti e abilità nel paese in cui si trovano a transitare: in questo caso l'Italia.Il libro racconta le motivazioni che hanno portato Affinati a procedere su questa strada, l'esperienza della scuole "Penny Wirton" che lui ha messo su e di cui ha favorito la diffusione sul territorio nazionale, le modalità di funzionamento di queste scuole e le straordinarie esperienze vissute da lui e dai suoi amici volontari che in questi progetti educativi riversano il loro impegno, donando il loro tempo a chi ha bisogno di imparare a esprimersi in italiano.
Aggiungo che nel libro c'è molto di più.
Ci sono tante storie e riflessioni di Affinati su una varietà infinita di persone e di situazioni, di collaboratori e di istituzioni con cui si è confrontano. Ci sono i maestri di vita che l'hanno ispirato, a cominciare dall'onnipresente Don Milani. Ci sono pagine dedicate allo scrittore Silvio D'Arzo (l'autore del racconto "Penny Wirton e sua madre", che in realtà di chiamava Ezio Comparoni, morto giovanissimo). C'è la vita e l'autobiografia di Affinati, la storia dei suoi genitori e dei suoi nonni. C'è la sua esperienza di insegnate nelle scuole professionali di Roma. C'è la spiegazione del sottotitolo che suona: "Educare per vivere". E molto, molto di più.
Quest'estate ho avuto la fortuna di partecipare alla presentazione del libro, di sentire una sua lezione sull'"Infinito" di Leopardi e di sentirlo riassumere a braccio, col suo stile coinvolgente, pratico, familiare, da artigiano della scrittura, il contenuto della sua pedagogia dell'accoglienza e dell'incontro. E' stata una bella esperienza. Per questo suggerisco di leggere questo libro. In particolare agli amici dei doposcuola di Shalom, agli insegnanti dei CIF, agli amici che seguono i progetti di sostegno alla lettura per migranti organizzati dalla Rete Bibliolandia. E più in generale lo consiglio a tutti coloro che intendano confrontarsi con l'insegnamento della lingua italiana agli stranieri. Ne trarranno molti spunti di sicuro.
lunedì 2 settembre 2019
La macchina del vento / Wu Ming 1, Einaudi, 2019, pp. 337, € 18,50
La macchina del vento / Wu Ming 1, Einaudi, 2019, pp. 337, € 18,50
Bella storia, su confini e confinati (1939-1943). La scena magica (l'isola del vento), entro cui tutto si svolge, Ventotene. Un romanzo storico, ma con un impianto tra il fantastico e il mistico religioso. Con personaggi veri che toccano le corde del cuore solo a sentirli nominare (penso a Sandro Pertini). E personaggi inventati che assomigliano e comunque attingono ad altri personaggi veri (il prof. Viviani e altri piccoli grandi maestri che fecero la resistenza. Penso al prof. Mario Mirri, la cui biografia recente, spiegata a suo nipote, meriterebbe di essere conosciuta). Storia suggestiva, strappalacrime, mediterranea, accogliente e solare. Storia di uomini veri e di riscatto. Intrigante per la commistione scienza, mitologia e politica. Una storia però che illude sul fatto che gli uomini possano davvero essere diversi e migliori dagli dei a cui pure molto assomigliano.
lunedì 8 luglio 2019
Patria / Fernando Aramburu, Guanda, 2017, pp.626
Perchè vale la pena di leggere 623 pagine e scoprire come va a finire la storia di due famiglie che vivono nei paesi baschi, in una Spagna postfranchista, e le cui vicende partono dagli anni '70 e arrivano fino ad oggi?
Per diverse ragioni alcuni delle quali antiche come la nostra civiltà.
Intanto per rispondere alla domanda se valgono più le relazioni di amicizia e di vicinanza o le idee politiche e le leggi nazionali o le regole locali.
E subito dopo se valgono più le persone o le loro idee.
Ma in un mondo dove le persone cambiano quasi quotidianamente pelle e le idee.... pure come ci si deve comportare?
Il romanzo lavora dentro questi grandi interrogativi (solo apparentemente contemporanei) e la sua abilità principale è di declinarli nel microcosmo credibile di un piccolo paese basco, un microcosmo affacciato sul mondo e quindi al centro di una tensione e di una torsione inevitabile. Una torsione che finisce per chiudersi con l'idea (e con il fatto storico) che la lotta armata dei baschi e il loro terrorismo debba cessare e si ponga quindi un problema di riconciliazione e di perdono.
E poi due donne e due famiglie che prima sono amiche e poi per varie ragioni (politiche ma anche di normale evoluzione di vita) si allontanano e alla fine in qualche modo si ritrovano e si perdonano. Attorno a queste due donne matriarcali , due uomini e poi diversi figli dell'una e dell'altra e giù altre storie a cascata.
Il libro è denso di molte riflessioni ed è scritto con linguaggio piano, leggibilissimo, asciutto, ma anche ironico e romantico.
C'è la vicenda apparentemente più solida e più rigida della generazione dei nati negli anni '30 e '40 e quella più confusa e caotica dei nati negli anni '60 e '70; fino ad arrivare a nipoti, ancora più incastrati in un contesto via via più intricato e incomprensibile. Forse.
Al centro un uomo ammazzato dall'ETA perché si rifiuta di pagare il pizzo ai terroristi e una moglie spigolosa che pretende che qualcuno le chieda perdono per quella morte che la storia dimostrerà inutile. Una donna orgogliosa che sostiene di pretendere il perdono solo per poter andare all'altro mondo, ritrovare il marito ammazzato e dirgli: "Quell'idiota si è scusato, adesso possiamo riposare in pace".
Insomma il libro va letto, pagina per pagina e succhiellato, come si fa coi cibi buoni, perchè contiene diverse suggestioni intelligenti che ci farebbe bene non solo ingoiare ma assimilare.
Tra le cose carine (almeno per un bibliotecario), l'idea ribadita un paio di volte che le biblioteche pubbliche possano essere dei luoghi di Liberazione Personale. What else?
Perchè vale la pena di leggere 623 pagine e scoprire come va a finire la storia di due famiglie che vivono nei paesi baschi, in una Spagna postfranchista, e le cui vicende partono dagli anni '70 e arrivano fino ad oggi?
Per diverse ragioni alcuni delle quali antiche come la nostra civiltà.
Intanto per rispondere alla domanda se valgono più le relazioni di amicizia e di vicinanza o le idee politiche e le leggi nazionali o le regole locali.
E subito dopo se valgono più le persone o le loro idee.
Ma in un mondo dove le persone cambiano quasi quotidianamente pelle e le idee.... pure come ci si deve comportare?
Il romanzo lavora dentro questi grandi interrogativi (solo apparentemente contemporanei) e la sua abilità principale è di declinarli nel microcosmo credibile di un piccolo paese basco, un microcosmo affacciato sul mondo e quindi al centro di una tensione e di una torsione inevitabile. Una torsione che finisce per chiudersi con l'idea (e con il fatto storico) che la lotta armata dei baschi e il loro terrorismo debba cessare e si ponga quindi un problema di riconciliazione e di perdono.
E poi due donne e due famiglie che prima sono amiche e poi per varie ragioni (politiche ma anche di normale evoluzione di vita) si allontanano e alla fine in qualche modo si ritrovano e si perdonano. Attorno a queste due donne matriarcali , due uomini e poi diversi figli dell'una e dell'altra e giù altre storie a cascata.
Il libro è denso di molte riflessioni ed è scritto con linguaggio piano, leggibilissimo, asciutto, ma anche ironico e romantico.
C'è la vicenda apparentemente più solida e più rigida della generazione dei nati negli anni '30 e '40 e quella più confusa e caotica dei nati negli anni '60 e '70; fino ad arrivare a nipoti, ancora più incastrati in un contesto via via più intricato e incomprensibile. Forse.
Al centro un uomo ammazzato dall'ETA perché si rifiuta di pagare il pizzo ai terroristi e una moglie spigolosa che pretende che qualcuno le chieda perdono per quella morte che la storia dimostrerà inutile. Una donna orgogliosa che sostiene di pretendere il perdono solo per poter andare all'altro mondo, ritrovare il marito ammazzato e dirgli: "Quell'idiota si è scusato, adesso possiamo riposare in pace".
Insomma il libro va letto, pagina per pagina e succhiellato, come si fa coi cibi buoni, perchè contiene diverse suggestioni intelligenti che ci farebbe bene non solo ingoiare ma assimilare.
Tra le cose carine (almeno per un bibliotecario), l'idea ribadita un paio di volte che le biblioteche pubbliche possano essere dei luoghi di Liberazione Personale. What else?
mercoledì 3 luglio 2019
Il circolo della stazione di Pontedera
Incontro del Circolo della Stazione con la presenza del sindaco di Pontedera, Matteo Franconi.
Parlato di programmazione nel cuore del quartiere dove si parla il maggior numero di lingue, dove ci sono uomini e donne di un centinaio di nazionalità, dove l'apertura e il confronto con gli altri dovrebbe essere la regola e non l'eccezione. Si progetta di far intervenire a Pontedera l'ex sindaco di Firenze già collaboratore di La Pira, il prof. di matematica Mario Primicerio, per conversare su un suo libro di memorie; di presentare l'unico film degli anni '60 che riprende dal vero le attività della scuola di Barbiana di Don Milani; di realizzare una sfilata di moda interculturale (e dove se non a Pontedera si può costruire una moda delle diversità e delle fedeltà?); di organizzare servizi di alfabetizzazione e lettura per tutti. Il tutto nella piazza della Stazione o nelle vicinanze. Commentiamo anche il successo della presentazione del libro dedicato al pugile italo-senegalese Alì (una ventina di copie vendute e si spera almeno 60 lettori). Insomma il piccolo circolo di amici cresce.
lunedì 1 luglio 2019
Max Fox o le relazioni pericolose / Sergio Luzzatto, Einaudi, 2019, 310 pp. , ill.
Max Fox o le relazioni pericolose / Sergio Luzzatto, Einaudi, 2019, 310 pp. , ill.
Luzzatto ha scritto un libro strano, non facilmente classificabile, tra giornalismo, attualità, storia, romanzo, dossier di denuncia, ecc. Un libro che parte dalla vicenda della depredazione della biblioteca storica dei Girolamini di Napoli per concentrarsi soprattutto sull'autore dei furti che si rivela nelle pagine dello storico svizzero/piemontese un falsario, un mentitore seriale, un bugiardo di brava famiglia, un uomo capace di tessere relazioni e di volgerle (almeno fino ad un certo punto) a proprio favore.
Un personaggio con una evidente compulsiva ossessione per il maneggio dei libri antichi.
E' insomma quella di Marino Massimo De Caro una storia profondamente italiana che inquieta per i comportamenti e la psicologia del personaggio, ma che non meraviglia e non sorprende (almeno non nel Paese di Pinocchio).
Un testo, quello di Luzzatto, che però non sembra del tutto concluso, temo anche a causa del protagonista del volume che è una personalità indubbiamente contraddittoria e irrisolta.
Il testo fa però trasparire continuamente i dubbi e le perplessità dell'autore rispetto alla ricerca e alle proprie conclusioni, inducendo il lettore (o almeno il sottoscritto) ad una sorta di atteggiamento guardingo e non proprio benevolo rispetto all'autore. Perchè un autore che mette continuamente le mani avanti rispetto al proprio lavoro (e alle proprie conclusioni) è a sua volta un autore che un po' depista il lettore. Certo, in buona fede. Forse perfino per un eccesso di correttezza. Ma depista e confonde. E non tanto per l'inevitabile simpatia che si instaura tra lo studioso e il delinquente. Qualunque dialogo rende meno odiosa la persona con cui si parla. Ed è probabile che qualunque storico avesse intervistato il più criminale e assassino dei mafiosi forse avrebbe finito per umanizzarlo. Il carcere duro e il 41bis non sono solo una pena che lo Stato infligge ai criminali incalliti. Sono un tentativo dello Stato per difendersi dall'obbligo di umanizzarli.
Ma tornando a De Caro, devo aggiungere che non si esce dalla lettura di Max Fox senza un senso di forzatura e senza la sensazione che l'autore abbia voluto concludere e pubblicare un'opera senza esserne del tutto convinto. Il che, anche solo vista la mole di quanto viene pubblicato nel nostro Paese, non è proprio il massimo.
Devo poi dire che ciò che più apprezzo del libro è lo squarcio che apre nel dilettantismo e nel pressapochismo politico che consente di nominare su funzioni importanti, anche a livello ministeriale, personaggi che dire improvvisati è poco. Così come sono gustose, ma assolutamente ordinarie certe critiche al comportamento dilettantesco di Santa Madre Chiesa rispetto ai propri beni, una Chiesa che pure gestisce un immenso patrimonio culturale. Ma lo fa, tranne poche eccezioni alla buona, e senza riuscire ad evitare le "familistiche relazioni amorali" che ci portiamo dietro da... sempre?
Così come è gustoso il modo come certa stampa tratta determinati eventi che hanno a che fare col mondo dei libri.
Ma del resto questo è un paese che rispetto ai libri ha una visione antiquatamente "antiquaria", tanto che c'è persino da meravigliarsi, con tutte le tare che abbiamo, che si riesca a mantenere vivo, sia pure in questa forma acciaccata e non priva di rischi, il nostro immenso patrimonio culturale.
Luzzatto ha scritto un libro strano, non facilmente classificabile, tra giornalismo, attualità, storia, romanzo, dossier di denuncia, ecc. Un libro che parte dalla vicenda della depredazione della biblioteca storica dei Girolamini di Napoli per concentrarsi soprattutto sull'autore dei furti che si rivela nelle pagine dello storico svizzero/piemontese un falsario, un mentitore seriale, un bugiardo di brava famiglia, un uomo capace di tessere relazioni e di volgerle (almeno fino ad un certo punto) a proprio favore.
Un personaggio con una evidente compulsiva ossessione per il maneggio dei libri antichi.
E' insomma quella di Marino Massimo De Caro una storia profondamente italiana che inquieta per i comportamenti e la psicologia del personaggio, ma che non meraviglia e non sorprende (almeno non nel Paese di Pinocchio).
Un testo, quello di Luzzatto, che però non sembra del tutto concluso, temo anche a causa del protagonista del volume che è una personalità indubbiamente contraddittoria e irrisolta.
Il testo fa però trasparire continuamente i dubbi e le perplessità dell'autore rispetto alla ricerca e alle proprie conclusioni, inducendo il lettore (o almeno il sottoscritto) ad una sorta di atteggiamento guardingo e non proprio benevolo rispetto all'autore. Perchè un autore che mette continuamente le mani avanti rispetto al proprio lavoro (e alle proprie conclusioni) è a sua volta un autore che un po' depista il lettore. Certo, in buona fede. Forse perfino per un eccesso di correttezza. Ma depista e confonde. E non tanto per l'inevitabile simpatia che si instaura tra lo studioso e il delinquente. Qualunque dialogo rende meno odiosa la persona con cui si parla. Ed è probabile che qualunque storico avesse intervistato il più criminale e assassino dei mafiosi forse avrebbe finito per umanizzarlo. Il carcere duro e il 41bis non sono solo una pena che lo Stato infligge ai criminali incalliti. Sono un tentativo dello Stato per difendersi dall'obbligo di umanizzarli.
Ma tornando a De Caro, devo aggiungere che non si esce dalla lettura di Max Fox senza un senso di forzatura e senza la sensazione che l'autore abbia voluto concludere e pubblicare un'opera senza esserne del tutto convinto. Il che, anche solo vista la mole di quanto viene pubblicato nel nostro Paese, non è proprio il massimo.
Devo poi dire che ciò che più apprezzo del libro è lo squarcio che apre nel dilettantismo e nel pressapochismo politico che consente di nominare su funzioni importanti, anche a livello ministeriale, personaggi che dire improvvisati è poco. Così come sono gustose, ma assolutamente ordinarie certe critiche al comportamento dilettantesco di Santa Madre Chiesa rispetto ai propri beni, una Chiesa che pure gestisce un immenso patrimonio culturale. Ma lo fa, tranne poche eccezioni alla buona, e senza riuscire ad evitare le "familistiche relazioni amorali" che ci portiamo dietro da... sempre?
Così come è gustoso il modo come certa stampa tratta determinati eventi che hanno a che fare col mondo dei libri.
Ma del resto questo è un paese che rispetto ai libri ha una visione antiquatamente "antiquaria", tanto che c'è persino da meravigliarsi, con tutte le tare che abbiamo, che si riesca a mantenere vivo, sia pure in questa forma acciaccata e non priva di rischi, il nostro immenso patrimonio culturale.
Mi chiamo Mouhamed Alì / di Rita Coruzzi e Mouhamed Alì Ndiaye, Piemme, 2019, pp. 220
Mi chiamo Mouhamed Alì / di Rita Coruzzi e Mouhamed Alì Ndiaye, Piemme, 2019, pp. 220
Da poco più di un mese è uscito e ha cominciato a circolare un libro che racconta l'avventurosa biografia di un pugile di origine senegalese, arrivato ventenne in Italia e per la precisione a Pontedera, dove sposa con una ragazza italiana, ottiene la cittadinanza, e comincia una lunga carriera che lo porterà a vincere prima il campionato italiano dilettanti dei pesi fino a 75kg, poi quello dei professionisti italiani, e successivamente altri titoli mediterranei.
Il libro scritto da Rita Coruzzi, un'autrice portatrice di disabilità che tutti i giorni scrive come se fosse anche lei su un suo ring, ha forza, ritmo e colpisce il lettore, come dovrebbe fare ogni buon libro per farsi leggere e convincere il lettore ad arrivare alla fine del testo.
Si comincia con Moussa, il padre di Alì, pugile senegalese di una certa fama, il quale, appesi i guantoni al chiodo, alternando il lavoro di guidatore di autobus, apre una scuola di pugilato e cerca di fare di suo figlio (a cui ha dato il nome di Mouhamed Alì, il nome adottato dall'immenso pugile Cassius Clay) un campione della boxe. E' esattamente questo il sogno che Moussa vuol far sognare al piccolo Alì e per aiutarlo a sognarlo meglio tutti giorni lo allena, lo sfida e lo aiuta a crescere. Fino a quando anche Alì comincia a sognare in proprio il sogno del padre e per sognarlo meglio non si accontenta di quello che gli offre il Senegal, ma prima migra in Francia e poi viene in Italia e approda a Pontedera.
Ma i sogni, che sono il sale della vita, spesso sono difficili da realizzare. Hanno una faccia cruda, dura, dolorosa. Figuriamoci poi i sogni che hanno a che fare con la boxe. Sono sogni dove non solo bisogna metterci la faccia, ma bisogna sapere prendere cazzotti e darli. E prenderne e darne tanti. Dolorosi, sanguinosi. Perchè così va il mondo.
E a Pontedera Alì arriva si come pugile (ma noto solo in Senagal), ma soprattutto come "clandestino"; e anche se trova una palestra per allenarsi (e ne trova due: una a Pisa e una a Pontedera), anche se trova amici italiani e parenti senegalesi a cui appoggiarsi; anche se trova un sindaco allora dei DS, parlo di Paolo Marconcini, aperto al mondo e che tratta Alì come se fosse un proprio figlio; anche se Pontedera era ed in parte resta una città accogliente per i senegalesi e gli stranieri, Alì resta un "clandestino" e per campare deve fare il Vu cumprà e non può combattere pubblicamente perchè non ha i documenti in regola.
Poi, come nelle fiabe, ma questa non è una fiaba ed è una storia assolutamente vera, Alì, l'eroe buono, sfortunato, schiacciato dal mondo, incontra un fata e questa fata risolve diversi dei suoi problemi.
Sì Alì incontra una ragazza italiana, se ne innamora e lei si innamora di lui. Così lei lo sposa e quello che non riescono a fare le leggi italiane (cioè a dargli una cittadinanza e a consentirgli di combattere come pugile regolare), lo farà una piccola grande donna. E' Federica che, amando e sposando lo straniero Alì trasforma come per magia il pugile clandestino in un pugile che nel giro di tre anni può smettere di fare il Vu cumprà, esibirsi regolarmente sul ring, prendere a pugni la sorte, vincere il titolo italiano dilettanti fino a 75kg e poi quello dei professionisti e quindi... il titolo europeo e diverse decine di incontri.
E mentre c'è, visto che le donne per fortuna degli uomini sono multitasking, Federica gli dà anche una famiglia, dei figli, un luogo dove vivere, una storia ancora più ricca.
Un miracolo? No, una storia vera. Contemporanea. Che intreccia uomini e donne di culture e religioni diverse. Che abbraccia continenti. Che muove sentimenti. Che è dolorosa e allo stesso tempo piena di speranza. Che è retorica, ma anche cruda. Che è dannatamente attuale, perchè fotografa questo mondo così come lo conosciamo bene.
Ma che è anche una storia benedettamente antica. Perchè ci parla di un eroe che assomiglia a Ulisse o a un ebreo errante, che vaga da una sponda all'altra del Mediterraneo in cerca di fortuna e di una sorte che sia positiva e possibilmente felice. Parla di un uomo che lascia la sua casa e da straniero cerca di costruire la sua vita in mezzo ad altri uomini. dai quali vorrebbe essere accolto e riconosciuto esattamente per il suo valore. Per quello che sa e può fare. Per sè e per loro.
Insomma una storia antica ed attuale che vale la pena di leggere, col cervello sveglio, con la razionalità di chi sa capire i propri e gli altrui sentimenti e gestire le proprie paure e le angosce degli altri. Una storia su cui non c'è da vergognarsi neppure di versare le proprie lacrime. Del resto che uomini e che donne saremmo senza la ragione, l'emozione e l'amore?
Da poco più di un mese è uscito e ha cominciato a circolare un libro che racconta l'avventurosa biografia di un pugile di origine senegalese, arrivato ventenne in Italia e per la precisione a Pontedera, dove sposa con una ragazza italiana, ottiene la cittadinanza, e comincia una lunga carriera che lo porterà a vincere prima il campionato italiano dilettanti dei pesi fino a 75kg, poi quello dei professionisti italiani, e successivamente altri titoli mediterranei.
Il libro scritto da Rita Coruzzi, un'autrice portatrice di disabilità che tutti i giorni scrive come se fosse anche lei su un suo ring, ha forza, ritmo e colpisce il lettore, come dovrebbe fare ogni buon libro per farsi leggere e convincere il lettore ad arrivare alla fine del testo.
Si comincia con Moussa, il padre di Alì, pugile senegalese di una certa fama, il quale, appesi i guantoni al chiodo, alternando il lavoro di guidatore di autobus, apre una scuola di pugilato e cerca di fare di suo figlio (a cui ha dato il nome di Mouhamed Alì, il nome adottato dall'immenso pugile Cassius Clay) un campione della boxe. E' esattamente questo il sogno che Moussa vuol far sognare al piccolo Alì e per aiutarlo a sognarlo meglio tutti giorni lo allena, lo sfida e lo aiuta a crescere. Fino a quando anche Alì comincia a sognare in proprio il sogno del padre e per sognarlo meglio non si accontenta di quello che gli offre il Senegal, ma prima migra in Francia e poi viene in Italia e approda a Pontedera.
Ma i sogni, che sono il sale della vita, spesso sono difficili da realizzare. Hanno una faccia cruda, dura, dolorosa. Figuriamoci poi i sogni che hanno a che fare con la boxe. Sono sogni dove non solo bisogna metterci la faccia, ma bisogna sapere prendere cazzotti e darli. E prenderne e darne tanti. Dolorosi, sanguinosi. Perchè così va il mondo.
E a Pontedera Alì arriva si come pugile (ma noto solo in Senagal), ma soprattutto come "clandestino"; e anche se trova una palestra per allenarsi (e ne trova due: una a Pisa e una a Pontedera), anche se trova amici italiani e parenti senegalesi a cui appoggiarsi; anche se trova un sindaco allora dei DS, parlo di Paolo Marconcini, aperto al mondo e che tratta Alì come se fosse un proprio figlio; anche se Pontedera era ed in parte resta una città accogliente per i senegalesi e gli stranieri, Alì resta un "clandestino" e per campare deve fare il Vu cumprà e non può combattere pubblicamente perchè non ha i documenti in regola.
Poi, come nelle fiabe, ma questa non è una fiaba ed è una storia assolutamente vera, Alì, l'eroe buono, sfortunato, schiacciato dal mondo, incontra un fata e questa fata risolve diversi dei suoi problemi.
Sì Alì incontra una ragazza italiana, se ne innamora e lei si innamora di lui. Così lei lo sposa e quello che non riescono a fare le leggi italiane (cioè a dargli una cittadinanza e a consentirgli di combattere come pugile regolare), lo farà una piccola grande donna. E' Federica che, amando e sposando lo straniero Alì trasforma come per magia il pugile clandestino in un pugile che nel giro di tre anni può smettere di fare il Vu cumprà, esibirsi regolarmente sul ring, prendere a pugni la sorte, vincere il titolo italiano dilettanti fino a 75kg e poi quello dei professionisti e quindi... il titolo europeo e diverse decine di incontri.
E mentre c'è, visto che le donne per fortuna degli uomini sono multitasking, Federica gli dà anche una famiglia, dei figli, un luogo dove vivere, una storia ancora più ricca.
Un miracolo? No, una storia vera. Contemporanea. Che intreccia uomini e donne di culture e religioni diverse. Che abbraccia continenti. Che muove sentimenti. Che è dolorosa e allo stesso tempo piena di speranza. Che è retorica, ma anche cruda. Che è dannatamente attuale, perchè fotografa questo mondo così come lo conosciamo bene.
Ma che è anche una storia benedettamente antica. Perchè ci parla di un eroe che assomiglia a Ulisse o a un ebreo errante, che vaga da una sponda all'altra del Mediterraneo in cerca di fortuna e di una sorte che sia positiva e possibilmente felice. Parla di un uomo che lascia la sua casa e da straniero cerca di costruire la sua vita in mezzo ad altri uomini. dai quali vorrebbe essere accolto e riconosciuto esattamente per il suo valore. Per quello che sa e può fare. Per sè e per loro.
Insomma una storia antica ed attuale che vale la pena di leggere, col cervello sveglio, con la razionalità di chi sa capire i propri e gli altrui sentimenti e gestire le proprie paure e le angosce degli altri. Una storia su cui non c'è da vergognarsi neppure di versare le proprie lacrime. Del resto che uomini e che donne saremmo senza la ragione, l'emozione e l'amore?
domenica 30 giugno 2019
Riflessioni postelettorali. Parte terza. Conclusione. Provvisoria
Perchè e come una maggioranza che è una minoranza di fatto dovrebbe coinvolgere nelle scelte amministrative una minoranza che è una maggioranza di fatto?
Perché chi amministra non ha solo l'obbligo di fare, ha anche il dovere morale di convincere e di tenere conto delle sensibilità e degli interessi degli altri. E questo obbligo è ancora più forte per una minoranza che sa di occupare quel ruolo direttivo grazie ad una semplificazione legislativa. Legittimamente. Sia chiaro, ma questa consapevolezza richiede un rispetto maggiore dei tanti che non la pensano come te e che non possono essere trattati come masse amorfe, nemiche e ignoranti. Verso chi non la pensa come noi abbiamo obblighi: di rispetto, di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento.
Come o cosa fare? Qui il sentiero si fa più complicato.
Ad esempio ci si potrebbero inventare incontri di lavoro preconsiliari dove su temi strategici per la città si construiscono insieme gli atti amministrativi. O almeno ci si confronta, ci si ascolta reciprocamente e si prova a trovare insieme un denominatore comune.
Si costruisce la possibilità anche per l'opposizione di proporre punti amministrativi (non mozioni, ma delibere operative) e di aprire i dibattiti non su opzioni astratte, ma su soluzioni amministrativamente concrete.
Suggererei di cominciare da un'analisi seria della macchina amministrativa comunale e dalle proposte di modifiche, integrazioni, assunzioni.
Ma potrebbe andar bene partire anche da altri temi che riguardano la vita della città.
Proviamoci. Potrebbe uscirne fuori un'esperienza di confronto interessante, una modalità per crescere insieme; una modalità di democrazia partecipata davvero da tutti. Una democrazia a guida collettiva, veramente plurale, dove ci sia l'obbligo di mettersi d'accordo, ma dove questo obbligo consenta a tutte le parti di avere spazi di manovra e di veder riconosciute le proprie scelte a livello generale.
Possibile?
Penso di sì.
Servono coraggio, pazienza e tanta buona volontà.
Perchè e come una maggioranza che è una minoranza di fatto dovrebbe coinvolgere nelle scelte amministrative una minoranza che è una maggioranza di fatto?
Perché chi amministra non ha solo l'obbligo di fare, ha anche il dovere morale di convincere e di tenere conto delle sensibilità e degli interessi degli altri. E questo obbligo è ancora più forte per una minoranza che sa di occupare quel ruolo direttivo grazie ad una semplificazione legislativa. Legittimamente. Sia chiaro, ma questa consapevolezza richiede un rispetto maggiore dei tanti che non la pensano come te e che non possono essere trattati come masse amorfe, nemiche e ignoranti. Verso chi non la pensa come noi abbiamo obblighi: di rispetto, di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento.
Come o cosa fare? Qui il sentiero si fa più complicato.
Ad esempio ci si potrebbero inventare incontri di lavoro preconsiliari dove su temi strategici per la città si construiscono insieme gli atti amministrativi. O almeno ci si confronta, ci si ascolta reciprocamente e si prova a trovare insieme un denominatore comune.
Si costruisce la possibilità anche per l'opposizione di proporre punti amministrativi (non mozioni, ma delibere operative) e di aprire i dibattiti non su opzioni astratte, ma su soluzioni amministrativamente concrete.
Suggererei di cominciare da un'analisi seria della macchina amministrativa comunale e dalle proposte di modifiche, integrazioni, assunzioni.
Ma potrebbe andar bene partire anche da altri temi che riguardano la vita della città.
Proviamoci. Potrebbe uscirne fuori un'esperienza di confronto interessante, una modalità per crescere insieme; una modalità di democrazia partecipata davvero da tutti. Una democrazia a guida collettiva, veramente plurale, dove ci sia l'obbligo di mettersi d'accordo, ma dove questo obbligo consenta a tutte le parti di avere spazi di manovra e di veder riconosciute le proprie scelte a livello generale.
Possibile?
Penso di sì.
Servono coraggio, pazienza e tanta buona volontà.
sabato 15 giugno 2019
Riflessioni postelettorali forse interessanti per la piana pisana. Parte seconda. Il condominio (+ breve)
Da una decida di anni ho mutato il mio modo di vedere le cose. L'esperienza, l'età, il mestiere, diversi fattori hanno congiurato per farmi abbandonare non tanto le mie idee giovanili (quelle sono svanite da tempo) quanto quelle per cui una parte, ad esempio la mia, ha sempre ragione e l'altra sempre torto e la politica si riduce alla conquista del consenso politico per la nostra parte, consenso con il quale poi fare quello che si ritiene giusto o nel caso peggiore "quello che piace solo a noi".
L'idea che ho sviluppato è che una città, ma anche una nazione o il mondo stesso non siano altro che un grande supercondominio e che in questo supercondominio tutti dovrebbero fare la loro parte, impegandosi, dialogando e collaborando, ma ciascuno tenendo conto delle esigenze degli altri. Insomma l'idea a cui mi sono affezionato in tarda età è che non solo siamo tutti sulla stessa barca, ma che questa nave dovremmo governarla tutti insieme, senza distinguerci in equipaggio (coloro che si danno da fare) e passeggeri (quelli che vengono trasportati, stanno a guardare e magari borbottano).
Dico questo perché qualcuno mi ha chiesto di provare ad articolare meglio la proposta di costruire un dialogo tra forze politiche che pur facendo parte degli stessi supercondomini continuano a guardarsi in cagnesco e anziché cercare di collaborare per il bene dei loro paesi continuano a trattarsi come se la campagna elettorale non fosse finita e si dovesse puntare ogni minuto a rovesciare il tavolo, a offendersi, a trattarsi come se una potenza demoniaca avesse invaso la mente ed il corpo dell'altro e noi fossimo tanti piccoli esorcisti votati a cacciare il male dal mondo.
E allora una delle piccole proposte che farei alle opposizioni per costruire un dialogo e cercare di istaurare un livello di collaborazione minimale ma duratura, in un contesto di trasparenza e senza confondere i ruoli, è quella di offrire loro la presidenza dei consigli comunali. Se il sindaco è il sindaco di tutti i cittadini, anche il presidente del consiglio comunale dovrebbe sentirsi ed essere il presidente di tutto il consiglio. E da questo potrebbe nascere uno spirito di confronto ben più aperto e franco di quello che caratterizza la vita amministrativa oggi. Almeno nel pisano. Questo può complicare la vita alla maggioranza amministrativa? Può darsi. Questo potrebbe dare un ruolo maggiore all'opposizione? Può darsi. Perché una maggioranza che potrebbe governare senza nulla concedere all'opposizione dovrebbe cercare un dialogo con l'opposizione e dare spazio all'opposizione? Ecco, questa è una bella domanda, a cui risponderò nel prossimo post.
Da una decida di anni ho mutato il mio modo di vedere le cose. L'esperienza, l'età, il mestiere, diversi fattori hanno congiurato per farmi abbandonare non tanto le mie idee giovanili (quelle sono svanite da tempo) quanto quelle per cui una parte, ad esempio la mia, ha sempre ragione e l'altra sempre torto e la politica si riduce alla conquista del consenso politico per la nostra parte, consenso con il quale poi fare quello che si ritiene giusto o nel caso peggiore "quello che piace solo a noi".
L'idea che ho sviluppato è che una città, ma anche una nazione o il mondo stesso non siano altro che un grande supercondominio e che in questo supercondominio tutti dovrebbero fare la loro parte, impegandosi, dialogando e collaborando, ma ciascuno tenendo conto delle esigenze degli altri. Insomma l'idea a cui mi sono affezionato in tarda età è che non solo siamo tutti sulla stessa barca, ma che questa nave dovremmo governarla tutti insieme, senza distinguerci in equipaggio (coloro che si danno da fare) e passeggeri (quelli che vengono trasportati, stanno a guardare e magari borbottano).
Dico questo perché qualcuno mi ha chiesto di provare ad articolare meglio la proposta di costruire un dialogo tra forze politiche che pur facendo parte degli stessi supercondomini continuano a guardarsi in cagnesco e anziché cercare di collaborare per il bene dei loro paesi continuano a trattarsi come se la campagna elettorale non fosse finita e si dovesse puntare ogni minuto a rovesciare il tavolo, a offendersi, a trattarsi come se una potenza demoniaca avesse invaso la mente ed il corpo dell'altro e noi fossimo tanti piccoli esorcisti votati a cacciare il male dal mondo.
E allora una delle piccole proposte che farei alle opposizioni per costruire un dialogo e cercare di istaurare un livello di collaborazione minimale ma duratura, in un contesto di trasparenza e senza confondere i ruoli, è quella di offrire loro la presidenza dei consigli comunali. Se il sindaco è il sindaco di tutti i cittadini, anche il presidente del consiglio comunale dovrebbe sentirsi ed essere il presidente di tutto il consiglio. E da questo potrebbe nascere uno spirito di confronto ben più aperto e franco di quello che caratterizza la vita amministrativa oggi. Almeno nel pisano. Questo può complicare la vita alla maggioranza amministrativa? Può darsi. Questo potrebbe dare un ruolo maggiore all'opposizione? Può darsi. Perché una maggioranza che potrebbe governare senza nulla concedere all'opposizione dovrebbe cercare un dialogo con l'opposizione e dare spazio all'opposizione? Ecco, questa è una bella domanda, a cui risponderò nel prossimo post.
mercoledì 12 giugno 2019
Riflessioni postelettorali sui paesi del pisano
Ora che la passione politica, la propaganda elettorale ed il timore di essere fraintesi non obbliga più ad un linguaggio "cauteloso", ora forse si può riflettere su queste elezioni politiche e amministrative e sull'impatto che hanno avuto nel pisano.
E la prima cosa che a me dicono (anche sulla scia dei risultati delle politiche del 2018) è che il Centro Sinistra (d'ora in poi CS) non è maggioranza "politica" assoluta in quasi più nessuno dei nostri paesi. Ovviamente se il CS non è più maggioranza assoluta, tanto meno lo è il PD che del CS è solo una componente (anche se maggioritaria).
Ragionare del perchè e del come questo sia accaduto e se questo ridimensionamento sia reversibile o meno aprirebbe un interessante dibattito, che per il momento però accantonerei.
La cosa su cui mi concentrerei è che ad una non maggioranza politica del CS, corrisponde una maggioranza formata da Centro Destra (attualmente a trazione leghista) e dal M5S. Ma, per fortuna del CS, questa maggioranza elettorale non può saldarsi nè sul piano politico, nè su quello amministrativo. O almeno non può farlo ufficialmente e spesso non lo fa nemmeno ufficiosamente.
Da qui, nel pisano, nasce la vittoria del CS sul piano amministrativo. Una vittoria, però, che incorona una minoranza, a cui viene affidato il compito di amministrare i comuni e i loro enti gestionali.
Aggiungo che la vittoria amministrativa del CS nasce anche da altri due debolezze del Centro Destra: la fragilità di una classe dirigente locale e l'inevitabile assenza di un leadership autorevole.
Infine la vittoria amministrativa del CS scaturisce dal fatto che il CS ha ancora radici valoriali e familiari nei territori; ha un corpo di amministratori riconosciuti e validi (ma non sempre e non ovunque); ed è ancora in grado di tenere insieme interessi, associazioni e parti di società civile (ma sempre meno).
Da tutto questo ricavo la convinzione che il futuro del CS dipenderà sempre di più dalla bravura dei suoi amministratori, dalla qualità della sua azione amministrativa e dalle capacità relazionali delle sue disomogenee componenti.
Non che questi fattori non abbiano contato in passato, ma in futuro conteranno sempre di più.
Così come conterà sempre di più la capacità di ragionare sulle critiche e sui suggerimenti che verranno da chi, nei fatti, è al contempo maggioranza politica e minoranza sul piano amministrativo e sull'abilità nell'assorbirle.
Credo infine che i sindaci che in questi giorni si affannano a dire che saranno "i sindaci di tutti" dovranno dimostrare la veridicità di questa loro affermazione con atti concreti. E questi dovranno sostanziarsi non solo nella capacità di ascoltare le critiche delle opposizioni e poi però fare come gli pare. Dovranno articolarsi nella costruzione di un negoziato continuo con la maggioranza politica dei concittadini che la pensa diversamente dal sindaco eletto. E questo non perchè i sindaci eletti non siano legittimati a governare col voto contrario dell'opposizione. Possono farlo. La democrazia amministrativa glielo consente sia nella forma che nella sostanza. Ma chi si ritiene "sindaco di tutti" e sa di essere stato eletto solo da una minoranza di cittadini dovrebbe porsi il problema etico di come rappresentare anche gli altri. Anche i suoi non elettori. Sennò cosa vuol dire essere il "sindaco di tutti" se realizza solo il programma politico della sua parte politica, per giunta minoritaria?
E il negoziato con le opposizioni che sono la maggioranza politica non può essere un trucco. Voler rappresentare tutti vuol dire incarnare uno stile amministrativo che umilmente prenda atto dei limiti del proprio mandato amministrativo e assecondare i desiderata di tutti i cittadini e non solo di quelli che si riconoscono nella propria parte politica.
Credo che da questo nuovo stile amministrativo potrebbe uscire una migliore capacità di gestire la cosa pubblica. In forme più condivise e sicuramente più partecipate. Naturalmente anche più complicate. Ma accadrà?
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