I
bei libri sono come le patatine. Uno tira l’altro. Perciò dopo il
saggio
di Antonio Varsori sono passato a leggere il testo di Nuti (docente
di Relazioni Internazionali all’Università di Roma 3) per capire
di più della politica estera italiana in rapporto all’uso delle
armi nucleari. A suggerirmi questo approfondimento è stata la
tragica guerra in atto in Ucraina e il frequente ricorso da parte
degli aggressori russi alla minaccia atomica. Una minaccia che
sembrava destinata a tramontare con gli anni ‘90, con la firma,
anche russa, di diversi trattati di disarmo e che invece ci è stata
risbattuta sul
muso con violenza e con brutale cinismo
negli ultimi mesi, senza che su questo si sia riusciti a ragionare
seriamente. Il tema è tutt’altro che facile. Solo gli stati
sovrani (ovvero quelli che hanno eserciti agguerriti e armi, incluse
quelle atomiche) contano davvero sullo scacchiere internazionale. Gli
altri sono stati vassalli. I russi zaristi, poi quelli comunisti e di
nuovo quelli neozaristi hanno ragionato e ragionano ancora oggi così.
E’ una realtà spiacevole. Mostruosa. Ma non basta tapparsi
gli occhi perché scompaia.
E
noi italiani, noi con un esercito per fortuna poco bellicoso e che
non abbiamo sviluppato il nucleare militare, noi, come siamo messi
rispetto a questa sfida? E, soprattutto, come ci comportiamo?
Domande
difficili a cui si abbinano risposte altrettanto complicate da
trovare e da assimilare.
Quello
che posso dire è cosa ho imparato dal
saggio di Nuti (il cui titolo è: “La sfida nucleare. La politica
estera italiana e le armi atomiche 1945-1991”, Il Mulino, 425 pp,
2007, nessuna copia in Bibliolandia).
In
primis che l’Italia ha avuto un gruppo di scienziati (in parte ex
allievi o collaboratori di Fermi) che nel dopoguerra hanno deciso di
non impegnarsi nella ricerca dell’energia atomica con ricadute
militari. Non che siano mancati fisici che abbiano lavorato in quella
direzione, ma un buon numero di loro si è tirato fuori (ha
“obiettato”). Gli scienziati antinuclearisti erano tutti di
“comunisti”, come sosteneva il Ministro Pacciardi? O i fisici
antinuclearisti erano animati dal sentimenti umanitari o di terrore
rispetto al potenziale distruttivo dell’energia atomica (secondo
una suggestiva lettura che Leonardo Sciascia fece della scomparsa del
fisico Ettore Majorana in un suo delizioso volumetto anche
questo da leggere)? Il testo di Nuti
presenta il tema, ma lo lascia in sospeso.
Di
certo sorsero alcuni laboratori e centri di ricerca nell’ambito
universitario e del CNR, nonchè in ambito militare, sull’energia
atomica con potenzialità militari. Ma spesso queste esperienze
furono in conflitto tra di loro. Oppure si ignorarono. Fatto
sta che tutte ebbero scarsa capacità di
muovere risorse sia da parte dei decisori politici che dai vertici
militari (che in realtà dipendevano, o avrebbero dovuto dipendere,
dal vertice politico).
Il
risultato fu che per tutti gli anni ‘50
e ‘60 fisici nucleari, centri di ricerca, militari (ministero della
difesa) e governi a guida DC sembrarono più ostacolarsi che avere un
obiettivo chiaro su cui
puntare.
Niente di nuovo sul fronte interno italiano.
Secondo
Nuti sulla complessa vicenda del nucleare militare italiano pesarono
soprattutto il disinteresse di De Gasperi (e dei successivi leader
democristiani, quasi nessuno escluso) e il ruolo decisamente
“marginale” che le forze armate ebbero nel secondo dopoguerra
nelle vicende sociali e politiche della Nazione.
Ma,
come già detto, questa situazione non annichilì del tutto la
ricerca in ambito nucleare, né produsse una sostanziale
denuclearizzazione del nostro Paese. Tutt’altro.
Sul
piano del nucleare civile e della produzione dell’energia elettrica
da nucleare l’Italia si collocò terza tra i produttori del
continente europeo, dietro Francia e Germania, arrivando ad avere 3
centrali elettriche nucleari attive negli anni ‘70 e un piano di
sviluppo che negli anni ‘80 prevedeva la messa in funzione di 8
centrali. Ma tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80 il nucleare civile
italiano entrò in una serie di vicende (che purtroppo il volume non
esamina) le quali portarono all’abbandono
di questa tipologia di produzione elettrica (sancita dal referendum
popolare del 1987, che ebbe
luogo in Italia dopo l’incidente della
centrale atomica sovietica di Chernobyl).
Ma
l’Italia rimase priva anche di armi nucleari? Niente affatto.
Secondo
Nuti i democristiani e i loro alleati di governo puntano su due
strategie: 1) EURATOM, ovvero progetti di energia atomica anche con
possibili finalità militare da realizzare attraverso la Comunità
Europea, che però nel 1952 abbandonò l’idea di costruire una
comune difesa europea e quindi anche la costruzione di un armamento
nucleare europeo; 2) MISSILI Usa legati al trattato NATO da dislocare
sul nostro territorio.
Così
in Italia dal 1957 e fino alla fine degli anni ‘80 gli americani,
col consenso
dei nostri governi (incluso quello guidato dal presidente socialista
Bettino Craxi) e
col voto del nostro parlamento,
collocarono diverse tipologie di missili atomici (dai Jupiter ai
Cruise, ai Pershing). L’Italia fu (ed è ancora) un paese
militarmente nuclearizzato, il cui territorio perciò poteva essere
luogo di lancio di missili nucleari e bersaglio di testate atomiche
sovietiche per ritorsione.
Formalmente,
almeno dagli anni ‘60, gli americani
condivisero con i governi italiani e coi nostri militari l’uso dei
missili atomici. Ma nella sostanza i governi italiani accolsero le
armi nucleari senza poterne avere un vero
e autonomo controllo. In cambio di questo
l’Italia sperò
di poter godere dello status di nazione privilegiata nei confronti
degli USA, di potersi presentare come media potenza grazie a queste
armi “in prestito” e di scaricare i costi della difesa “nucleare”
di cui il Paese comunque “godeva” soprattutto sul bilancio
federale americano, avvantaggiandosi
delle somme investite dagli Usa nelle sue
basi militari in Italia e in particolare in quelle dove si trovavano
testate nucleari.
Insomma
una storia bella complicata (a vederla anche nei dettagli) in cui
l’Italia si comporta come al solito in maniera contorta: non
sviluppa una propria capacità di difesa atomica (come invece faranno
Francia e Inghilterra), ma accetta che la propria difesa nucleare sia
gestita da un soggetto terzo, gli Usa, nell’ambito di un trattato
di alleanza militare, la Nato, dentro il quale però l’Italia si
sente più un vaso di coccio che di ferro.
E il
PCI?
Dal
1947 agli anni ‘70 giocò (come Lega e i 5Stelle oggi) dalla parte
dei Russi. I comunisti furono contrari all’Alleanza Nato, contrari
ad un esecito europeo (CED), contrari all’istallazione dei missili
nucleari sul territorio nazionale. Furono i più forti organizzatori
di manifestazioni pacifiste e antinucleari in Italia. Il
che gli consentì di essere ininfluenti
ma coerenti rispetto alle decisioni dei governi in questa materia. I
problemi per il PCI arrivarono negli anni
‘70, quando, crescendo elettoralmente ed entrando nell’orbita
governativa, ruppero il cordone ombelicale con l’URSS e
cominciarono a dirsi favorevoli alla Nato, però continuando
a schierarsi contro l’istallazione dei missili nucleari che la Nato
(da cui ora dicevano
di sentirsi
protetti) aveva istallato anche in Italia.
Chiaro
che la coerenza dei partiti politici era
un problema anche ai tempi della prima repubblica. A destra come a
sinistra.
Concludo
che il saggio di Nuti contiene moltissimi
altri spunti di riflessione e lo consiglio caldamente a chi voglia
approfondire
le vicende anche di questi ultimi anni con una maggiore profondità
storica; e
soprattutto a chi intenda confrontarsi seriamente con la domanda di
come si garantisce il sistema di sicurezza internazionale di una
nazione e non voglia solo utilizzare facili argomenti retorici.
La
fine dell’URSS e la firma dei trattati di disarmo aveva illuso il
mondo occidentale e noi italiani (notoriamente distratti rispetto
alle vicende internazionali) che i deterrenti atomici appartenessero
ad una epoca ormai
tramontata. La
tesi della fine della storia attribuita
allo storico Fukujama si accompagnava anche al ridimensionamento del
ruolo delle armi nucleari.
E il
libro di Nuti cessa la sua narrazione proprio al 1991.
Ma
oggi come stanno le cose?
Secondo
alcune fonti, Usa e Russia avrebbero circa 4000 bombe atomiche a
testa di diversa potenza. Forse i russi qualcuna di più. Il che ci
dice che le loro minacce vanno prese maledettamente sul serio.
Un
paio di centinaia di bombe per ciascuna (e forse qualcuna di più) le
avrebbero Francia e Regno Unito. La Cina ne possiederebbe sulle 350.
Un
centinaio di bombe le avrebbero Israele, India, Pakistan.
E da
noi?
Sul
territorio italiano ce ne sarebbero dislocate una settantina, anche
se non sono di nostra proprietà, ma della Nato. Ovviamente possono
essere lanciate verso paesi nemici (forse anche a nostra insaputa) e
possono diventare bersaglio di paesi ostili (come ci ha recentemente
ricordato qualche illustre esponente del neozarismo russo).
Insomma
“la sfida nucleare” è ancora in mezzo a noi e la guerra in
Ucraina ce lo ricorda da quasi 150 giorni.