giovedì 28 dicembre 2017

Made in Italy e cultura. Indagine sull'identità italiana contemporanea / a cura di Daniele Balicco, Palumbo, 2016, pp. 317. Contributi diversi

Testo intrigante sull'Italia che corre e che è apprezzata nel mondo. Per quello che le sue imprese producono nella moda, nell'abbigliamento, nel design, nelle produzioni culturali (libri e cinema incluso), settori di qualità dell'economia in cui l'Italia funziona e compete con successo con gli altri paesi. Un testo che fotografa tutto questo. Senza orgoglio, senza cadere nel liberismo, ma con determinatezza.

mercoledì 27 dicembre 2017

Cemento rosso : il secolo cinese, mattone dopo mattone / Giuliano Marrucci, Mimesi, 2017, pp. 180

Testo denso ed interessante per capire come l'industria del "mattone cinese" (con le sue complesse articolazioni collegate alla proprietà pubblica della terra) abbia sostenuto e sostenga l'infinito boom dell'economia cinese. 
Numeri e situazioni impressionanti per dimensione e mole. Irripetibili (per fortuna) in Occidente. Certo l'urbanizzazione di 500 milioni di persone in trent'anni è di gran lunga il più complesso sconvolgimento sociale della storia dell'umanità (almeno per quello che se ne sa). E il fatto che si avvenuto tutto sommato in forma "controllata" appare "quasi" un miracolo. Ovviamente la "diversità" cinese costituisce un fattore importante di questa trasformazione/transizione pacifica. E sulla natura di questa "diversità" c'è ancora molto da dire e da capire: almeno in Occidente.
Armando Zappolini: un prete secondo Francesco. Contemplativo, sognatore e costruttore di ponti / Armando Zappolini, 2017, Edizioni San Paolo, pp. 234

E' una biografia intensa quella che ha messo insieme Don Armando. Piena di suggestioni, di incontri, di riflessioni. Consegna al lettore l'idea di un progetto di vita come vocazione vissuta fino da ragazzo, ma con le incertezze e le difficoltà che la vita pone a tutti: anche ai più caparbi, ai determinati e ai giullari. E don Armando è tutto questo e molto di più, come scoprirà che leggerà la sue pagine
Attorno a sé, Don Armando, disegna un percorso di quaranta anni, con una Chiesa, diverse Comunità e più in generale un mondo affettuosamente umano, dove lui si muove, con la sua variegata personalità a tratte anche "selvaggia" (è una definizione sua). Una personalità che mira scuotere le coscienze assopite e a metterle di fronte alle responsabilità: quelle che hanno verso loro stessi, verso gli altri uomini e verso Dio.
E nel disegnare tutto ciò Don Armando ci regala un racconto variegato, pieno di dettagli e di attenzione per gli altri. Per il mondo della sofferenza e dell'emarginazione, per l'aiuto alle popolazioni povere della terra, per la battaglia a sostegno della legalità e contro la mafia.
Ma tutto questo andare verso il mondo, Don Armando lo fa partendo e restando nella sua parrocchia di Tripalle e Perignano. E dimostrando che si può e si deve essere universali nell'impegno di tutti i giorni, anche animando una parrocchia ed una comunità di 400 anime (come era quella di Tripalle negli anni '80).
Certo Don Armando, almeno per come ho letto io il libro e per quello che anche prima sapevo di lui, è soprattutto un costruttore di relazioni, una persona che turba le coscienze di coloro che vivacchiano, un uomo che vuole aiutare gli altri a crescere. A diventare persone adulte e responsabili. Un prete che crea relazioni e dialogo con tutti (incluse le altre religioni); che costruisce ponti, che fonda e anima cooperative e associazioni; e che sprona giovani e meno giovani ad impegnarsi nella vita sociale e civile, oltre che sul terreno religioso. E' un uomo che inventa progetti, trasforma la sua fede in opere di carità e di umanità a vantaggio dei più bisognosi, provoca e non sta con le mani in mano.
In questo segue il percorso di preti come Don Milani, Don Gallo e Don Ciotti. Ed è figlio ed interprete di un cristianesimo che prima di tutto è aiuto spirituale e materiale verso chi ha più bisogno. Verso chi chiede aiuto o semplicemente non ce la fa.
Ed è normale che, come dice lui stesso, oggi si senta pienamente a casa nella Chiesa che Papa Francesco ha definito e sta trasformando in un "ospedale da campo".

domenica 17 dicembre 2017

Vendemmia rosso sangue: lo strano caso del morto che parla / Maurizio Castellani (2017, p. 149)

Questo è il secondo giallo di Castellani. Il primo si intitolava "La ventiquattrore: delitto in albergo" (Kimerik, 2015). Ed è una specie di sequel. La storia (analogamente alla prima) si svolge in una pensione/albergo a conduzione familiare, posizionata in un paesino della provincia (Casciana Terme, a tre passi da Pontedera e a quattro da Pisa), dove agisce Marco Vincenti, un albergatore per caso (ex geometra), che si trasforma in detective per vocazione ed astuzia. Attorno al lui, agiscono due amici, un maresciallo acuto ma non troppo delle forze dell'ordine, un paio di donne (una delle quali viene però spedita in vacanza)  e altre presenze minori.
All'inizio ci sono il morto, straniero, e una bicicletta.
Il problema che Castellani consegna al suo alter ego Marco Vincenti è quello di capire perchè e chi abbia ucciso il povero ciclista.
Per scoprire tutto questo il lettore dovrà leggere e girare circa 150 pagine. Per invogliarlo e trascinarlo in questa impresa e fargli accertare l'identità dell'assassino, l'autore, che non fa muovere il suo detective dalla pensione, organizza pranzi e cene con gli amici. Sono loro in realtà a gestire l'indagine e a muoversi insieme al maresciallo Bevacqua. Colazioni, cene e pranzi lasciano così colare nel testo, tra un brandello di indagine e un indizio da valutare, chicche di ricette culinarie che l'autore, gaudente e buongustaio, propone con maestria da chef. E mentre prende per la gola lettori e lettrici, inserisce anche riflessioni sulle ramificate relazioni uomo/donna e piccole avventure erotico-sentimentali che alzano il livello di attenzione e fanno scorrere velocemente le pagine.
Il tutto è condito con un'ironia, un gusto della battuta, il piacere di prendere in giro se stesso e i suoi personaggi che danno leggerezza, velocità e la giusta sincopatura al giallo.
Il testo ha anche un piccolo risvolto sociale collegato alla storia del ciclista morto ammazzato.
Direi che nel suo voler essere, per ammissione dello stesso autore, un giallo "popolare", funziona.
Ieri sera il romanzo è stato presentato a Pontedera, alla sala Carpi, alla presenza di una quarantina di pontederesi. Quasi tutti doc. Come l'autore, il quale prima di mettersi a scrivere faceva (e fa) tutt'altro. E anche per questo costituisce una piacevole sorpresa.

venerdì 8 dicembre 2017


Due come noi. "La storia dei cattivi" / Luigi Cioni, Pharus Editore Librario, Livorno, 2017, p. 74
Lettura non agile quella del testo di Cioni che decostruisce e ricostruisce due figure non facili della Bibbia e della tradizione cristiana, Caino e Giuda. Due cattivi, per l'appunto. Due cattivi come tutti noi, scrive Cioni. È una lettura non semplice per un non credente. Per uno, come me, che è portato a leggere la Bibbia in chiave storica, antropologica, letteraria, ecc. ecc., ma non crede nell'esistenza del dio della Bibbia e non crede neppure nella sostanza divina del Gesù dei Vangeli. Ciò premesso le meditazioni di Cioni su queste due figure profondamente innestate nella nostra cultura sono stimolanti e perfino sfidanti. E il breve ma denso libretto di Cioni ci invita ad una analisi profonda e meditata dei nostri simili cattivi. E di noi stessi come cattivi. Almeno potenzialmente. Come spesso accade le domande e le suggestioni dei libri sono più ricche della risposte. Perché le domande aprono sempre infinte possibilità di risposta. Mentre le risposte operano scelte e spesso deludono. Il libro di Cioni è ricco di domande e di suggestioni. Davvero una lettura non banale per chi voglia misurarcisi.

mercoledì 6 dicembre 2017

Arte e fiabe alla Galleria Il Germoglio di Manrico Mosti

Fatica questa Pontedera contemporanea. Forse come non mai negli ultimi 100 anni (prima e seconda guerra mondiale a parte). Fatica ma si impegna e continua ad investire. Anche in cultura. E nell'arte contemporanea. Così, martedi 5 dicembre, la Galleria Il Germoglio, di cui è guida spirituale Manrico Mosti, ha organizzato, in via Guerrazzi, tre eventi in uno: la presentazione di un delicatissimo e al tempo stesso sofisticatissimo libro di fiabe per la famiglia; una mostra di opere con un notevole impatto emotivo, realizzate da un artista affermato come Paolo Grigò e da una giovane promessa come Sara Baldinotti; e, infine, un intenso reading con Dario Marconcini e Giovanna Daddi (attori, registi, lettori straordinari, performer), i quali, cullati dalla musica suonata al pianoforte dal Maestro Alessandro Lanini, hanno letto alcuni dei deliziosi racconti di Mosti.
A godersi tutto questo, una quarantina di ospiti, parenti ed amici, tra cui un po' di bambini, i nipoti di Manrico.
E allora ho pensato che anche la Galleria Il Germoglio era o meglio è un altro tassello di quella Pontedera che crede davvero nell'arte contemporanea e nella qualità della comunicazione culturale. Una Pontedera pubblica e privata. Perchè la manifestazione e il libro sono stati sostenuti anche dal Comune di Pontedera.
Aggiungo che i bei disegni dell'amico Paolo Grigò e di Sara Baldinotti (che fino a ieri non conoscevo) costituiscono le illustrazioni del volume di fiabe, intitolato "Facciamo finta che...", scritto da Manrico Mosti con e per i suoi nipoti e stampato con cura artigianale da quel laboratorio di arte grafica che è la Tipografia Bandecchi & Vivaldi.
Una copia del libro è stata donata alla Biblioteca Gronchi che l'ha già catalogata e nei prossimi giorni la collocherà in prestito. Nel descriverla siamo stati incerti se collocare l'opera tra i libri per bambini o tra i testi d'arte (perché i racconti, forzando un po' le cose, potrebbero anche essere considerati lunghe spiegazioni dei disegni). Alla fine abbiamo optato per collocare il volume tra le opere dedicate alla nostra città, perchè anche se i racconti ed in parte i disegni vivono e spaziano in un mondo immaginario e magico, pur tuttavia questo volume ha un'intimità e un garbo che mi sembrano richiamare i caratteri migliori di Pontedera. Un certo gusto ed una certa qualità nel fare le cose. Il giusto garbo nel porgerle. L'abilità nel mettere insieme e mescolare capacità e professionalità diverse. Il desiderio di guardare lontano e di sognare, ma senza perdere i valori fondanti ereditati dal passato e una certa praticità del vivere quotidiano. La disponibilità ad accettare la sfida di un mondo che, comunque sia, ci viene addosso e che dobbiamo saper fronteggiare. Con gusto. Lo ripeto. Con sobrietà. Con la fronte alta. Un po' pensosi. E un po' ironicamente sorridenti. Il volume è un dono che bene ha fatto Manrico a collocare nella stagione del "ceppo". Un dono che Mosti ha fatto alla sua famiglia, certo. Ma anche a quella famiglia allargata e molto poliedrica che è la nostra città. Una città che spero trovi il tempo e la voglia per gustarsi le opere di Grigò e di Baldinotti e poi di comprare e leggere i racconti del libro o di venirlo a prendere in prestito in biblioteca. E, tra che c'è, attraversi le strade, salga le scale del PALP e visiti le sue mostre. Raggiunga Villa Crastan e respiri altra cultura. E poi entri dentro al Museo Piaggio. Ne vale di sicuro la pena.



Liba ha inaugurato a Pontedera una mostra d'arte di qualità

E' accaduto sabato 2 dicembre. Alla Villa Crastan. Ex biblioteca. Liba, l'Associazione per l'arte contemporanea, ha festeggiato i suoi venti anni di attività e di presenza nella città di Pontedera mettendo in mostra (con apertura fino al 5 gennaio 2018) una quarantina di opere di alcuni grandi artisti contemporanei, tra cui Baj, Cascella, Benetton, Carmassi, Pomodoro.
Si tratta di una piccola esposizione di opere di grande qualità e di artisti di valore, riconosciuti e quotati nel contesto nazionale ed internazionale.
L'Amministrazione comunale ha fornito lo spazio e anche questo, come già il PALP, è un bell'esempio di sinergia tra pubblico e privato nella costruzione di percorsi culturali e nel recupero e la valorizzazione di spazi urbani importanti. Un modo chiaro per lavorare a favore della cultura e della città.
Con la mostra organizzata da LIBA sono almeno tre le offerte culturali nel campo dell'arte aperte e quindi attive in contemporanea su Pontedera e che tali rimarranno fino al nuovo anno. Alla Liba si affiancano infatti la straordinaria mostra da "La trottola e il robot. Tra Balla, Casorati e Capogrossi" aperta al PALP (fino ad aprile 2018) e la mostra "GHOST MOTO-PHOTO-FOOD MOSTRA FOTOGRAFICA"  allestita al Museo Piaggio fino al 20 gennaio.



opera di Baj in mostra



sabato 2 dicembre 2017

Pietro Leopoldo: un granduca veramente illuminato

Il granduca Pietro Leopoldo (che resse la Toscana dal 1765 al 1790) durante la sua permanenza in carica soppresse circa mille comunelli e costituì i quasi 300 comuni toscani che sono arrivati fino a noi. Inventò, riorganizzò e finanziò, con le rendite dei monasteri soppressi, scuole pubbliche e ospedali pubblici; favori il libero commercio, la creazione della piccola proprietà terriera, avviò opere pubbliche di bonifica delle terre malariche, allargò il numero dei cittadini che dovevano occuparsi di amministrazione locale, incentivò il turismo incluso quello termale e altre cose di questo tipo. Poi tentò di varare la prima costituzione e di promuovere una riforma religiosa di spirito vagamente protestante. Ma qui non riuscì a procedere. 
Ai Toscani il granduca Pietro Leopoldo è noto per l'abolizione della pena di morte (primo stato europeo a muoversi in questa direzione), ma la mostra della Rete Archivistica Pisana lo ritrae soprattutto nei panni di amministratore del territorio, attento conoscitore dei mille volti della società toscana del '700 che in parte riuscì a traghettare verso la modernità.
Dai prossimi giorni e fino a metà dicembre presso al Biblioteca Gronchi di Pontedera sarà possibile vedere (nell'orario di apertura della biblioteca) una mostra in 10 grandi pannelli che illustra il meglio di Pietro Leopoldo amministratore con riferimento alle sue riforme sul territorio provinciale.





Prima parte della mostra


Le riforme e il sistema scolastico


Il carattere dei "potederesi visti dal Granduca"

Un giudizio ancora valido?


La nascita della sanità pubblica

venerdì 24 novembre 2017

La sinistra identitaria e il desiderio di essere sconfitti
Esiste una Sinistra Variamente Identitaria (che costituisce una parte della sinistra italiana e che abbrevierò in SVI per comodità) che tende a privilegiare gli elementi valoriali, programmatici e qualitativi, rispetto alla possibilità di far parte di una coalizione con potenzialità vincenti e a cui non piace negoziare (se riuscirà a vincere le elezioni) ciò che dei propri elementi valoriali e programmatici potrà ottenere, patteggiando civilmente coi componenti della coalizione.
Negoziare è una logica compromissoria? Sì, lo è. Ma in una democrazia negoziare è un requisito fondante. Lo hanno imparato perfino Berlusconi, Salvini e la Meloni.
Invece chi non negozia è potenzialmente antidemocratico e spesso pericoloso (almeno per la democrazia). Certo può darsi che chi non negozia abbia dalla sua parte la Ragione, Dio, la STORIA, il Destino, il POPOLO o perfino la MORALE. Ma chi non negozia resta un soggetto sordo alle esigenze altrui: quando ormai è sempre più chiaro che il mondo è fatto soprattutto da altri. Altri che non sono come noi e che non la pensano come noi, che vivono in questo grande supercondominio che è l'Italia e coi quali dobbiamo accordarci. Perchè è proprio il prevalere del concetto di alterità che mette in crisi i diversi NOI apparsi nella Storia e in perenne lotta tra di loro.
Ma nella SVI questo argomento non fa breccia. La SVI non negozia. Preferisce perdere, uscire umiliata dalle tornate elettorali, ma non compromettersi.
Va da sè, che la SVI con questo suo atteggiamento non danneggia solo se stessa, ma ottiene due risultati inutili (almeno per la SVI e, se la SVI avesse ragione, anche per il Paese), ovvero:
- favorisce il successo di coloro che la SVI considera i nemici più pericolosi (nell'italico caso: Destra e Grillini)
- rende impossibile far proliferare anticorpi per arrestare i nemici più pericolosi (anche se è evidente che per Bersani, Renzi non rappresenta un anticorpo rispetto a Berlusca o Grillo, ma è lui stesso un nemico da abbattere).
Ora se la SVI negoziasse col PD di Renzi, potrebbe partecipare ad una coalizione dove sarebbe in minoranza, ma dove, se la coalizione riuscisse a vincere, potrebbe sperare di portare a casa qualcosa. Poco? Sempre meglio che non ottenere niente.
Invece nisba. Nein. Non tratteremus, nemmeno coi meno peggio.
Ora come non risentire in questi atteggiamenti l'eco togliattiana che ragionava di socialfasciti in anni decisivi e sciagurati per le sorti della italica democrazia?
Come non risentire l'eco di chi pensa che Destra, Grillini e sinistra moderata sono solo facce diverse dei poteri forti che continuano a dominare la scena politica? E che quindi uno vale l'altro.
Ovvio che se SVI pensa che Renzi è peggio o uguale a Berlusca e a Grillo, il mio argomento non vale una cicca. Se anche Renzi è il Male...
Ma la SVI è proprio sicura di avere ragione a pensare questo pensiero?
Se la risposta è sì, mi arrendo. Una resa però accompagnata dal sospetto che la SVI sia afflitta oltre che da autismo politico da una freudiana pulsione autodistruttiva. Un'autodemolizione alla quale da diversi anni si è accinta con grande accanimento e che effettivamente sta dando buoni frutti.
Naturalmente i buoni frutti sono per gli altri.

lunedì 20 novembre 2017

I bersaniani e la sindrome di Bertinotti

Sembra abbastanza evidente che i bersaniani (inclusi i più moderati di loro e quelli che un tempo,  forse mentendo, si definivano a-renziani) e in generale gli scissionisti fuoriusciti dal Pd, pur di buttare Renzi giù dal seggiolone, siano disposti a spaccare tutte le alleanze, a perdere tutte le elezioni politiche e quelle amministrative regionali e locali, da qui al 2030, a superare il rivoluzionarismo bertinottesco e, come nel film "La guerra dei Roses", a suicidarsi, purché il proprio suicidio ammazzi anche l'odiato ex amico ed ex collega di partito.
Santo cielo, non si vedeva tanta acredine a sinistra dai tempi delle coltellate in casa socialista e dalla guerra che oppose Craxi a Berlinguer e viceversa nella prima metà degli anni '80.
La dinamica autodistruttiva che divampa nel campo del centro sinistra (e tra le anime che andavano a braccetto nel pd fino ad un paio di anni fa) pare così limpida e perseguita con tanta agonistica tenacia e caparbietà, che sembra davvero arduo, molto arduo, interromperne il corso. Non parliamo poi di capovolgerlo.
Eppure qualcosa bisognerà pur inventarsi per costringere tutti a ragionare. Confidando che il ragionamento sblocchi e diluisca certi grumi cognitivi di cui molti, compresi intellettuali patentati e commentatori fini, sembrano essere vittime. Che si tratti di un malefizio?
Sia come sia, una domanda sorge spontanea. Una sinistra già moderata e ora trasfiguratasi in neobertinottiana come fa a credere di poter realizzare programmi socialmente avanzati e di sinistra se le elezioni spediranno la simmenzionata componente rivoluzionaria nell'angolo ovvero all'opposizione?
Ma chi è quel cervellino fine, quel nepotino di Machiavelli, che può credere che la propria efficacia politica sarà esaltata nell'essere sbattuto all'opposizione e relegato in minoranza?
Chi può credere di poter migliorare le sorti del popolo di sinistra, e più in generale del Paese, autoconfinandosi in un'opposizione a cui resterà solo il diritto di abbaiare alla luna?
Ma davvero c'è qualcuno che pensa di poter vincere prendendo a sassate, oltre che la destra e i grillini, perfino gli ex amici?
Ostia!
Il piano inclinato del centrosinistra

Sembra molto difficile che pd e mdp si accordino per correre insieme alle elezioni politiche e ad alcune elezioni amministrative primaverili, tipo Pisa. Ma la speranza è l'ultima a morire. Anche perché un mancato accordo potrebbe consegnare, come Sicilia docet, il Paese a Grillo o a Berlusconi. Spero che tutti gli uomini e le donne di buona volontà si impegnino per ricucire una rottura che sta facendo male a tante realtà locali e molto di più potrebbe farne al sistema Paese.

sabato 18 novembre 2017

Il Pisa Book Festival è una sicurezza (spigolando l'edizione 2018)

Nonostante un certo taglio molto orientato a sinistra (qualunque cosa questo ormai voglia dire), il Pisa Book Festival mi suscita due sentimenti complementari: non sorprende e non delude. E se non fosse per quella certa aria "alternativa" che pretende di avere, la cosa sarebbe del tutto normale, visto che oggi mantenere il ritmo giusto e una buona andatura, è già un fatto importante e positivo.
Purtroppo sono stato solo un paio d'ore al Festival, di domenica, nel tempo morto che di solito le persone dedicano al pranzo (e fanno bene). Un passaggio veloce. Quindi questo sarà solo un giudizio frettoloso, forse superficiale. E tuttavia non me lo risparmio. Con un occhiata alla depliantistica informativa che ho raccolto e alle battute e alle frasi che ho scambiato, come sempre, con gli amici presenti. Niente da dire sugli eventi. Non ne ho beccato uno. Da programma sembravano interessanti. Nella sostanza bisognava esserci per valutare cosa effettivamente veniva detto e se valeva la pena di ascoltarlo.
La parte espositiva aveva più o meno le caratteristiche degli ultimi anni precedenti. E' striminzita la parte dedicata ai ragazzi e ai bambini. Ma anche questo, da quando è stata chiusa la sezione della Leopolda, ormai è un fatto consolidato.
Nell'insieme comunque il Piccolo Pisa Book Festival (che della piccola editoria indipendente segnala e soprattutto accoglie solo una piccola parte) fornisce l'idea di una scrittura e di una stamperia sempre più alla portata di tutti e sempre più babelica e inevitabilmente plurale.
Visto con gli occhi del PPBF davvero il mondo sembra un bazar di voci desiderose di posarsi sulla carta e farsi storie, favole, opinioni, istruzioni per l'uso, saggezza da leggere. Ce n'è davvero per tutti i gusti. Per tutti gli occhi e per tutti i cervelli, con un taglio, dicevo, prevalentemente adulto, dagli studenti universitari in su, sempre più invecchiando.
Ma ce ne fossero di iniziative così. Ce ne fossero.




sabato 11 novembre 2017

Ma qualcuno legge ancora Gramsci?

Non è facile rispondere ad una simile domanda. Servirebbero i dati delle vendite di Amazon, di IBS e quelli delle librerie di mezzo mondo. Più i dati della biblioteche del mondo. Oppure se volessimo sapere se Gramsci viene letto in Italia, bisognerebbe sempre chiedere ad Amazon, a IBS, a Fastbook più tutte le librerie italiane, più le biblioteche. Insomma è chiaro che nessuno potrà mai rispondere ad una domanda del genere con certezza assoluta.
Ma una cosa possono controllare i lettori delle Reti Bibliotecarie toscane, ovvero se qualche libro di Gramsci o su Gramsci viene preso in prestito dai lettori di queste Reti.
Bene. Mi sono divertito a fare un riscontro puntuale su quanti libri scritti da Gramsci risultano attualmente in prestito presso i 40.000 lettori della Rete Bibliotecaria Provinciale di Pisa. Il dato è pubblico.
I dati riconducibili ad Antonio Gramsci ci dicono che in Bibliolandia ci sono quasi 500 titoli (molti doppioni, ovviamente, dislocati in biblioteche diverse). I libri di cui Antonio Gramsci risulta autore in prestito ai lettori della provincia di Pisa sono zero . Esatto 0: in questo momento (il controllo è del giorno 11/11/2017) nessun opera di Gramsci risulta in prestito.
Ovviamente può essere che ci sia qualche errore, ma questo dato sembra largamente attendibile.
E un dato analogo sembra uscire anche da una rapida (ma ammetto incompleta) analisi (via OPAC) delle biblioteche dell'area empolese-valdelsa (un'area che era ancora più rossa, almeno fino ad un po' di tempo fa, di quella pisana).
Tra i testi di analisi gramsciana posseduti dalle biblioteche pubbliche (commenti, critiche, biografie) ne risulta in prestito solo uno, leggi 1, nel pisano.
Vuol dire qualcosa tutto questo?
Non lo so. Forse è solo un indizio. Ma importante.
Ci dice che ci sono 57 biblioteche di comuni e scuole della Provincia di Pisa che conservano circa 500 opere di e su questo pensatore, a cui anche recentemente è stato dedicata una giornata di studi a Pisa. E ci dice che in nessuna delle biblioteche della provincia pisana nessuno dei 40.000 lettori forti iscritti al prestito della provincia legge qualcosa di questo pensatore ritenuto "fondamentale".
Eppure anche negli ultimi anni sono uscite biografie, lettere, saggi polemici e saggi rivalutativi della sua opera. Ma nessuno è andato negli ultimi due mesi in biblioteca a prenderne una copia.
Ok in molte case di militanti di sinistra, ultracinquantenni, si troveranno copie dell'opera del pensatore sardo e molti potranno aver comprato le sue opere e la saggistica a lui riferibile in libreria (se si continuano a stampare, dovrebbe essere così). 
Ma la lettura pubblica ci fornisce un dato impietoso e senza sconti.
Che la figura di Gramsci, un martire antifascista, morto in carcere, resti moralmente importante per il Paese, non è cosa che si discuta.
Ma che si leggano i suoi testi come ispirazione e illuminazione alla politica contemporanea non pare affermazione sostenibile. Gramsci resta un pensatore difficile e per pochi. Su questo gli indizi (tra cui quelli che ho appena segnalato) sembrerebbero inequivocabili. Quindi è probabile che la sua lettura costituisca ormai un fenomeno assolutamente marginale (e confinato per lo più in ambienti accademici) per poterlo considerare un pensatore davvero influente sulla contemporaneità.
O almeno così mi pare di poter concludere dai dati che ho segnalato.


Una nuova strepitosa mostra al PALP di Pontedera, ma i negozianti la ignorano. Perchè?

Quest'anno mi è capitato di vedere una curiosissima mostra in una città del Trentino. Era dedicata alle Radio. Era fatta da oltre un centinaio di pezzi. C'erano Radio di tutte le età e dalle tante provenienze internazionali. E per fare pubblicità alla mostra, in tutte le oltre cento vetrine del paese trentino era esposta una Radio d'epoca. Nel negozio che vendeva formaggi, in quello che noleggiava sci, nel bar, persino dall'orafo e in quello che vendeva oggetti di artigianato locale. Tutti mobilitati con la loro Radio originale con didascalia ben curata sulla mostra.
A Pontedera invece stasera ho percorso tutto il corso e dintorni e non mi pare di aver visto nè un manifesto della mostra, né una giocattolo. E un giocattolo e una piccola locandina invece ci sarebbero stati proprio bene, visto che la nuova mostra che si è inaugurata stasera al Palazzo Pretorio si intitola "La trottola e il robot tra Balla, Casorati e Capogrossi" e presenta giocattoli e opere d'arte di pittori di notevolissimo livello (oltre a quelli citati: Carlo Levi, Severini, Gentilini, De Chirico, Savinio e tanti altri; il tutto illustrato in un bellissimo catalogo curato da Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci, Bandecchi & Vivaldi editore).
Ma com'è possibile che una mostra di livello nazionale, che cerca di attrarre turisti a Pontedera, turisti con interessi culturali che potrebbero andare a visitare anche il Museo Piaggio e, perchè no?, le mostre al Sete Sois e magari uno spettacolo al Teatro Era, e magari fermarsi in un negozio o in un ristorante, com'è possibile che un evento che certo ha un forte contenuto culturale, ma ha anche un importante obiettivo economico, venga ignorato da chi potrebbe giovarsi di quelle 20.000 presenze in più che la mostra potrebbe portare in città e nel centro storico nei prossimi 5 mesi?
Come è possibile che una cosa del genere la capiscano bene i commerciati di un paesino del Trentino (e non sto parlando di città capoluogo o di 10.000 abitanti, ma di un centro sotto i 5.000 abitanti anche se a vocazione sciistico e paesaggistica) e non la capiscano i compaesani pontaderesi che almeno dalla metà del '700 (come dimostra un bel documento sul Palazzo Pretorio) campano di mercati, fiere, persone che vengono da fuori a fare acquisti e a divertirsi in città?
Comunque dato che la mostra durerà fino alla fine di aprile, mi auguro che i miei compaesani distratti si ravvedano e che prima di Natale i giocattoli e le locandine della mostra compaiano nelle vetrine della città. 
Non solo. Siccome il passaparola nelle mostre vale il 60 per cento di visitatori, mi auguro che tutti i negozianti di tutte le tipologie di negozi mentre vendono un caffè o un profumo o un vestitino o un pezzo di pizza possano chiedere ai loro clienti se hanno visto la mostra al PALP e invitarli ad andarci. Perchè chi ci andrà (e ci andranno quelli a cui sarà suggerito con passione e intelligenza di andarci anche dai commercianti), rimarrà a bocca aperta e magari ne parlerà con altri amici e forse suggerirà loro di andarci. E magari, a battuta, chiederà se un qualche dopocena, quando la mostra è chiusa, magari pagando un biglietto speciale, non si possa accedere al PALP. No, non per rivedere la bella tela di Carlo Levi o il piccolo quadro di Savinio. Ma per giocare con i giocattoli d'epoca e farcisi fotografare nel mezzo.
Sì, mi auguro proprio che i negozianti (farmacisti inclusi) costruiscano un gigantesco passaparola. Farebbero un gran favore alla mostra, ma di ritorno anche a loro stessi. Sarebbe un gran bel modo di dimostrare che Pontedera è davvero una comunità che sa fare squadra. E sa continuare a campare delle sue abilità mercantili, anche in tempi complicatissimi come questi.
Perchè per tornare a crescere, fare squadra servirà. E parecchio.

lunedì 6 novembre 2017

Cosa potrebbero insegnare le elezioni siciliane al centro sinistra?

Beh, un sacco di cose, riassumibili in poche frasi.
1. Che divisi si perde e si spiana la strada al ritorno del centro destra o alla vittoria dei 5 Stelle. Litigare in famiglia e tra amici ci fa male. Anzi parecchio male. Da qualunque parte stia la ragione. Diviso, per il centro sinistra non c'è partita. Per noi c'è solo il terzo posto. Sicilia docet.
2. Che tutto questo gran popolo desideroso di sbilanciarsi a sinistra, che invoca partecipazione e rivoluzione sociale, con un impianto nostalgicamente socialista, corbyniano e sendersiano, qui, nella Little Italy non parrebbe esserci. Semmai c'è un popolo desideroso di riallinearsi a destra dietro un intramontabile ottuagenario o che spera nel miracoloso populismo grillino. Oppure che non va a votare. Ma di sicuro non c'è un popolo (fatto di vecchi militanti delusi, di bravi compagni di una volta, e via retoricheggiando) che sostiene le proposte più radicali e i cartelli ultrasinistri. Prima ne prendiamo atto, meglio è.
3. Che forse per rimanere nel gioco bisogna costruire un'ampia coalizione di centro sinistra. Dove ampia vuol dire ampia, democratica, variegata, tollerante, negoziata, con un sacco di compromessi. Una coalizione che raccolga tutti gli antipopulisti e i non destrorsi. Con a capo un leader moderato che sia molto inclusivo, molto democratico e molto tollerante, oltre che esplicitamente europeista e un negoziatore non rigido.
Naturalmente per la legge di Nanni Moretti che aggiorna la legge di Saragat, possiamo anche continuare a farci del male e a dare la colpa della nostra sconfitta e del nostri ridimensionamento al destino cinico e baro.
Ma chi è causa del suo male non può che piangere se stesso.

sabato 4 novembre 2017

Inaugurate oggi le Officine Garibaldi  a Pisa

Ho partecipato, da spettatore interessato, ad un evento credo interessante per Pisa: l'inaugurazione di un edificio/spazio, in via Gioberti, articolato sui 4/5.000 mq (tre piani e un grande spazio interrato, più un grande giardino esterno appoggiato ad un tratto delle mura medievali) destinato a... varie attività e servizi, che, in  buona parte, come hanno detto sia il sindaco di Pisa e presidente della Provincia che il presidente della PAIM (la cooperativa sociale capofila della ATI che ha ottenuto in gestione mediante concessione l'immobile dalla Provincia)  si preciseranno col tempo. Intanto da oggi le Officine Garibaldi, coraggiosamente e con una sana dose di incoscienza garibaldina, aprono le porte e.....partono.
E già l'edificio potrebbe costruire un monumento attrattivo. Perchè per come è realizzato, per dove si trova e per altre caratteristiche è di grande interesse, come stasera ha brevemente raccontato l'architetto Salvatore Re che ha progettato e portato a forma la struttura (cfr. intervista su http://www.floornature.it/salvatore-re-7588/). E' appena nato (beh, di fatto ha già almeno 6 anni tra progettazione e realizzazione), ma la sua storia e quello che si vede all'interno è affascinante. Soprattutto avendo in mente in quale congiuntura avversa si è trovato a... crescere. Pensato e avviato, intercettando fondi PIUS (e quindi finanziamenti europei e regionali), ovvero quando la Provincia di Pisa (come le altre province) aveva ancora competenze culturali, turistiche, sociali, formative, ecc., è stato portato a forma nel 2016 mentre questa istituzione, la Provincia, veniva sostanzialmente ridimensionata e perdeva quasi tutte le funzioni a cui l'edificio avrebbe dovuto essere destinato, tra cui (e da qui è nata la mia curiosità e l'aver seguito la sua storia) la collocazione della Biblioteca Provinciale (oggi ancora in via Betti). Insomma è un mezzo miracolo che l'edificio sia stato partorito. E così bello e innovativo. Poteva essere abortito per grave malattia della madre (la Provincia). Invece è nato: a dispetto della crisi, delle nostra confusione legislativa e della farraginosità amministrativa.


Infatti, lo confesso, quando nel 2014 ho cominciato a sentir parlare dell'edificio di via Gioberti (e dei progetti connessi) e ho approfondito le problematiche collegate con la sua costruzione (e la sua successiva gestione) ho pensato che l'edificio non sarebbe mai arrivato alla fine e che non avrebbe mai contenuto la Biblioteca Provinciale. Tesi queste che ho sostenuto anche in pubblico. Ammetto quindi ora, pubblicamente, di essermi sbagliato e il vederlo realizzato ed operativo, mi fa molto piacere e spero che nei prossimi mesi la PAIM riuscirà a definire un assetto gestionale della struttura dalle molte facce e sicuramente polivalente in grado di aprirla e di farci passare migliaia di persone ogni giorno.


Tuttavia una delle battute più divertenti che oggi ho registrato sul mio taccuino è quella tra un politico  di rilievo e un rappresentante di una cooperativa che partecipa alla concessione. L'uomo politico ha chiesto come diavolo pensavano di tenere in piedi tutto quel po' po' di Vaticano. L'altro ha sorriso, si è strusciato la barba e ha sornionamente concluso che in qualche modo avrebbero fatto. Si sarebbero rivolti a tutti. Ha dichiarato. Avrebbero gestito progetti e accoglienza ed erano aperti a suggerimenti e integrazioni. In sostanza avrebbero fatto di necessità virtù. Confidando sul buon senso degli uomini di buona volontà. Insomma non è chiaro come volerà questo gigantesco calabrone, ma volerà.
Di sicuro, come ha confermato anche il presidente della Provincia per la città di Pisa, le Offine Garibaldi costituiscino una bella sfida che si collega anche con le funzioni di informazioni e di lettura della vicina struttura della Biblioteca SMS e con gli spazi espositivi che si trovano a fianco della nuova Biblioteca civica. Le Officine Garibaldi entrano poi in un'area che col Pisa Book Festival sembra sempre di più destinata a trovare nei libri e nella lettura non solo un proprio elemento identitario ma un elemento che dovrebbe portare anche a pensare ad un Pisa Book Festival che dura tutto l'anno e che è disseminato per tutta la città. Insomma Pisa, grazie anche all'arrivo delle Officine Garibaldi, grazie all'Università, grazie al suo tessuto di piccole e grandi librerie, grazie alle sue innumerevoli case editrici dovrebbe realizzare un piano di presentazione e promozione di libri con centinaia di occasioni distribuite su tutti i giorni di tutti i mesi dell'anno. Un calendario fitto. Senza interruzioni. Il pubblico, anzi i tanti tipi di pubblico, probabilmente non mancherebbero. E forse questo potrebbe ridarle la forza di tentare (ovviamente con molte altre eccellenze culturali) di agguantare il traguardo di città nazionale ed internazionale della cultura.



Quanto alla Biblioteca provinciale e al suo trasferimento presso un'area delle Officine (nella foto si vede un angolo che dovrebbe accogliere la sala di consultazione e lettura della Biblio Provinciale), è chiaro che ciò che sarà trasferito va ripensato e adeguato al luogo, al giro di persone e di attività e alle .cangianti funzioni delle officine, ma senza smarrire l'essenza di una biblioteca. E qui la speranza è che delle attività strategiche della vecchia Biblioteca di via Betti qui trovino posto almeno: (a) la consultazione dell'emeroteca e dell'importante collezioni di riviste e quotidiani su microfilm; (b) 100 posti lettura (con wifi e tavoli con prese elettriche) per studenti di scuola superiore e universitari sempre affamati di buoni posti al caldo per leggere e fare comunità; (c) il prestito di libri del posseduto della provinciale e della Rete Bibliotecaria Provinciale (circa 1.000.000 di volumi).


Certo, aggiungo io, niente vieterebbe che, con un servizio di trasporto libri, presso le Officine Garibaldi si potessero prestare e far leggere anche libri di altre biblioteche attualmente meno agibili o ormai decentrate (penso alla BFS). Perchè, e su questo insisto spesso, e Amazon ne ha fatto il suo core business, non è importante in quale magazzino stiano i libri, l'importante è che questi magazzini abbiamo i loro cataloghi facilmente accessibili online e che siano logisticamente collegati con luoghi dove gli utenti possono andare a consultarli o a prenderli in prestito. E le Officine Garibaldi potrebbero essere il perno di questo servizio.
Insomma se le Officine Garibaldi volessero e potessero farlo, potrebbero configurarsi come un luogo baricentrico su Pisa per distribuire libri a chi vuole leggerli. E sono sicuro che i pisani (universitari e non) potrebbero molto apprezzare un simile servizio.


Naturalmente solo nei prossimi mesi si vedrà quanto delle belle promesse illustrate stasera si realizzerà. Quali idee di servizi prenderanno forma. Gli spazi non mancano. Le idee nemmeno. L'ATI mi pare consapevole della sfida che l'aspetta. Auguriamoci quindi che tutti possano fare la loro parte al meglio. In fondo l'essere arrivati qui è già un mezzo miracolo (o almeno per me lo è). Per questo esprimerei un cauto ottimismo sul futuro.



giovedì 2 novembre 2017

Si è avviato il percorso che porterà alla riapertura della Biblioteca Provinciale presso le Officine Garibaldi di Pisa.

Sabato 4 novembre p.v. si apre, a Pisa, lo spazio Officine Garibaldi.
In questo edificio a breve verrà anche collocata (e riaperta) la Biblioteca Provinciale, almeno una parte importante del suo patrimonio documentario e dei suoi servizi. 
La Rete Bibliolandia collaborerà con i nuovi gestori della Biblioteca Provinciale e si augura che entro l'inizio del 2018 almeno i servizi più importanti della Biblioteca Provinciale (tra cui la consultazione dei microfilm e il prestito librario) vengano effettivamente riavviati.




domenica 29 ottobre 2017

Manola Guazzini ha lasciato il PD di San Miniato senza definire una chiara scelta di campo. Perchè?

L'uscita di Manola, smentita da lei fino a pochi giorni fa, era invece data dai bookmaker per altamente probabile dopo la sua defenestrazione dalla Giunta Gabbanini e dopo che la sinistra dem, che via Baldacci e Lupi l'aveva fatta entrare in Giunta, era uscita dal PD sanminiatese, senza sbattere troppo la porta, ma con coerenza rispetto alle scelte nazionali del gruppo che fa capo all'ex segretario Bersani e a Enrico Rossi.
La cosa meno scontata era che Manola, che ha meditato a lungo sulla scelta, decidesse di non aderire a MDP e di lasciarsi invece le mani libere per vagliare diverse ipotesi (lista civica, appoggio ad una formazione amica, o altro ancora).
Per chi conosce Manola questa è forse la decisione più inaspettata e per questo ancora più significativa, soprattutto per quello che la "mossa" ci dice rispetto alla militanza "politica" in generale e alle sue declinazioni a livello locale.
Già, ma cosa ci dice?
Che Manola Guazzini non ritiene particolarmente forte e abbastanza "chiara" la costruzione politica che si va aggregando attorno a MDP (almeno nel comprensorio del Cuoio o almeno nel sanminiatese). Anche se tutta la sua storia politica avrebbe dovuto portarla verso questo approdo. E invece no.
Che, forse, la politica locale dovrà essere ricostruita (e governata) attraverso la costituzione di una nuova forza politica che magari nascerà dopo l'esito di una lunga tornata di elezioni significative (prima quelle regionali di Sicilia, poi le elezioni politiche nazionali ed infine, su scala locale e molto importante, il voto amministrativo per la città di Pisa).
Che le dinamiche amministrative locali potranno prendere forma solo dopo che il polverone e gli scossoni, gli accorpamenti e gli scontri che le summenzionate tornate elettorali, simili a terremoti, provocheranno, si saranno alla fine ricomposti e sedimentati. Come? Impossibile prevederlo. Per questo, almeno da quello che presumo di capire, un politico di razza come Manola prende tempo.
E ancora. La "mossa" di Manola ci conferma che non esistono più contesti politico-culturali che possano vincolare le strategie delle élite politiche (di cui lei indubbiamente fa parte) e che quindi ogni attore può muoversi con maggiore libertà. Fin troppa? Vedremo.
Quel che è certo è che il legame con "il partito", per quanto sbandierato e usato con molta nostalgia e spesso con tanta enfasi, ha un valore prevalentemente tattico, ma non designa più una vera appartenenza, come gli studi di Mario Caciagli su quest'area della provincia rossa hanno ben dimostrato.
Da tutto questo sembra voler nascere un legame diretto tra l'elite politica e la "gente", "il popolo", dove entità come gente e popolo non sono però più riconducibili a una militanza politica chiara, ma piuttosto a luoghi geografici, a piccole comunità, ad associazioni benemerite, sportive e ricreative, a frequentazioni prevalentemente emotive.
Ho la sensazione che tutto questo farà crescere, come sottoprodotto, una discreta entropia politica che finirà per rendere sempre più complicato capire qualcosa della lotta civile e politica sia a livello nazionale che locale. Finirà per dilatare lo spazio delle singole personalità e poi per generare, inevitabilmente, il bisogno di semplificatori mediatici, ma in un crogiolo di forze, movimenti, partiti via via sempre più confuso e complicato da decifrare, almeno per i non addetti ai lavori.
Quello che mi pare di cogliere dietro tutto questo sbriciolarsi e riaggregarsi di forze e attori della politica è l'impossibilità di delineare linee culturali e sociali del conflitto che abbiano stabilità e ancoraggi sicuri e continui. Ma in effetti capisco bene che la pretesa che la politica resti ancorata a valori e sentimenti chiari e quindi produca mosse e scelte conseguenti è via via sempre più difficile. Ad una società liquida (per dirla con Bauman) e democratica, non può che corrispondere una politica liquida. L'Europa e l'Italia non sono la granitica e monopartitica comunista Cina.
Impossibile dire dove tutto questo ci porterà. Anche se è certo che da qualche parte ci porterà. Auguri Manola.

ESTATE DI SAN MARTINO

E' cominciata quest'anno la 22a straordinaria rassegna di teatro amatoriale di San Miniato (PI). E' una settimana di full immersion nel teatro che quest'anno offre una discreta varietà di nuovi autori che non è assolutamente facile vedere rappresentati nel nostro paese. In più va aggiunto che quello di San Miniato è un teatro amatoriale per modo di dire, perchè spesso le compagnie che salgono sul palco della chiesa di San Martino sono tutt'altro che amatoriali e non hanno niente da invidiare al teatro professionale (a parte, di sicuro, i cachet). Tra i prossimi spettacoli segnalo "La signorina Papillon" di Stefano Benni (stasera) e "Fiori d'acciaio" di Robert Harling.
Per il programma completo organizzato dagli amici del Gruppo Teatrale Four Red Roses rimando al sito:

sabato 28 ottobre 2017

Alternanza scuola lavoro. I risultati della proficua collaborazione tra l'Itis Marconi di Pontedera, il Liceo classico di Pontedera e la biblioteca Gronchi di Pontedera.

Come hanno sottolineato dirigenti scolastici, insegnanti, la bibliotecaria Delia Giannini che ha seguito tutti i progetti ASL e una decina di ragazzi dei due istituti superiori che hanno concretamente dato vita all'alternanza, la collaborazione tra scuole e biblioteca comunale ha funzionato bene. Stamani è stato presentato il bilancio del progetto di alternanza. E i ragazzi hanno sostenuto di aver fatto un'esperienza operativa, contribuendo perfino a scrivere un breve manuale del giovane bibliotecario, che sarà molto utile ai ragazzi che nei prossimi anni ripeteranno questa loro esperienza. Il preside dell'ITIS prof. Robino ha parlato di buona pratica da imitare e per quello che mi riguarda posso dire che gli studenti delle superiori sono entrati nel vivo del nostro lavoro alla Gronchi realizzando anche un interessante monitoraggio sulla soddisfazione dei nostri utenti. Ovviamente non sono diventati bibliotecari. Ma forse hanno capito come funziona una biblioteca e che vale la pena di frequentarla e di farne uno dei punti di riferimento della loro vita culturale. O almeno così mi auguro. Nella foto la sede rinnovata della biblioteca dell'Itis Marconi.


venerdì 20 ottobre 2017

Un comunista al servizio della gente. Settant'anni di impegno politico / Adriano Sartini (a cura di Valentina Filidei), Tagete ed. 2017, pp. 100 e molte illustrazioni.

Il piccolo volume molto ben illustrato racconta la storia di un "soldatino" del PCI di Montecastello (Pontedera/Pisa), che poi ha aderito alle formazioni politiche che dal PCI sono discese per LA COSA-PDS-DS-PD.
Non si tratta di un saggio di memorie che riflettono sulla militanza politica di un comunista, ma  di un omaggio editoriale alla lunga militanza di una persona che da sempre è stata attiva in politica sia pure in un contesto particolare e se si vuole in una specie di meraviglioso microcosmo tra le campagne a est di Pontedera e il piccolo centro medievale di Montecastello.
La storia raccontata da Adriano (con l'aiuto di Valentina Filidei) elude quasi tutti i momenti importanti della storia politica cittadina e nazionale a cui sembrano alludere i settanta anni del titolo. Non è per parlare di queste cose che gli infaticabili amici di Tagete hanno curato e pubblicato il volumetto di Adriano.
Il breve testo costituisce soprattutto una botta di nostalgia per le generazioni più anziane, legate all'antica fede comunista. E l'oggetto stampato è soprattutto e per fortuna un album, ricco di fotografie, a cui il bianco e nero aggiunge un tocco di leggerezza e simpatia. Fotografie in gran parte collegate alle Feste dell'Unità, al lavoro di allestimento della manifestazione estiva e alle attività connesse alla ristorazione che di quella festa furono uno punto cardine ed un elemento di affratellamento tra i partecipanti.
Ma consumata la nostalgia, non si può dimenticare che se i compagni di Adriano (e anche miei) avessero conquistato il potere centrale (lo Stato) nel secondo dopoguerra e se l'Italia fosse finita nell'orbita dell'URSS (insomma se i carri armati di Baffone fossero arrivati anche a Pontedera e a Montecastello, come molti compagni di Sartini e lui stesso almeno fino al 1956, avevano desiderato che accadesse), magari sarebbe stata abolita la democrazia, si sarebbe instaurato un regime totalitario, con un solo partito al potere, quello comunista, e l'Italia si sarebbe  trasformata in qualcosa di simile all'Ungheria, alla Bulgaria, alla Polonia o alla Corea del Nord.
Per questo adesso penso che se i comunisti italiani ci fanno nostalgia è perché hanno (abbiamo) perso  politicamente la loro (la nostra) partita. Perché sono stati politicamente sconfitti. E quindi possiamo vederli (ci) come brave persone. Ma così ci appaiono solo perchè sono stati neutralizzati e alla fine disinnescati fino a scomparire, senza neppure riuscire a trasformarsi in socialdemocratici.
Ma per capire come li (ci) avrebbero visto gli italiani se questo paese fosse diventato simile alla Polonia o all'Ungheria, per comprendere come sarebbero diventati i comunisti italiani se avessero conquistato il governo centrale, basta pensare a come polacchi e ungheresi oggi vedono Gomulka o Kadar. Vale a dire più o meno come i protagonisti di un grande "Arcipelag Gulag" o di "Buio a mezzogiorno".
Lo so, lo so: i comunisti italiani erano un'altra cosa, sostiene una schiera di estimatori di Togliatti, Longo, Berlinguer, Ingrao e Napolitano.
Può darsi che sia così. E forse il mio argomento è semplicistico e impietoso. Ma, col senno del sessantenne, non credo che Togliatti e Secchia, se nel '48 avessero vinto le elezioni, ci avrebbero regalato un Paese migliore di quello che ha ritirato su la DC. Perciò, pur riconoscendo i difetti di una democrazia liberale e cattolica, sono contento che le cose siano andate così a noi italiani. E penso che abbiamo avuto davvero molta fortuna.


giovedì 19 ottobre 2017


Alcuni bibliotecari sono persone davvero superfurbe.

La Rete Bibliolandia è un soggetto collettivo molto ampio. Associa 26 biblioteche comunali articolare su una trentina di sedi, sparse per la provincia di Pisa. Una quindicina di biblioteche scolastiche. Una decina di altre biblioteche private o sanitarie. Oltre 500.000 volumi disponibili. Circa 150 operatori bibliotecari (tra quelli di ruolo, di cooperative, volontari, servizio civile, ecc.). E tutti i giorni se ne scopre una. Ad es. si scopre che ci sono bibliotecari che non rispettano le regole del gioco e forzano l'uso dell'opzione "novità locali" applicandola anche per libri che trattano di globalizzazione. Classificando un libro su questo argomento come "novità locale" il libro possono cuccarlo e leggerlo solo i propri concittadini, quelli che gironzolano attorno alla loro biblioteca, che sono utenti più cari e con più diritti di quelli del comune vicino o anche lontano ma che sta sempre in Rete. E magari si scopre pure che quegli stessi concittadini di quel comune si cuccano e leggono anche la stessa copia del libro che un'altra biblioteca di un altro comune che rispetta le regole del gioco ha messo disponibile al prestito. In sintesi ci sono tre cittadini di un comune che leggono le 3 copie di un libro e le leggono proprio loro, una perchè il bibliotecario del loro comune gliel'ha riservata sottraendola arbitrariamente ai residenti degli altri comuni e le altre due copie perchè i bibliotecari hanno fatto il loro dovere e i primi a prenotarla sono stati concittadini del bibliotecario furbastro. Ma c'è di più e di peggio, perchè frugando nei big data della Rete Bibliolandia si scopre che ci sono bibliotecari che non indicano che il libro (sempre quello sulla globalizzazione di cui sopra) deve essere visibile a catalogo. Così questi bibliotecari superurbacchioni comprano la novità, la catalogano, ma per evitare di prestarla fuori della mura del loro comune e per evitare di essere biasimati per uso improprio della classificazione come "Novità locale", la trasformano in un libro fantasma, la cui esistenza, se non se ne dimenticano, è nota solo a loro. In questo modo ottengo lo stesso risultato di prestare la novità ad uso e consumo dei loro utenti locali, nascondendo la copia a tutte le altre biblioteche e a tutti gli utenti della Rete. E che si tratti proprio di superfurbacchioni è dimostrato dal fatto che ogni catalogazione di libro prevede una pubblicazione automatica nel catalogo e per togliere visibilità al volume catalogato (e quindi nasconderlo e non renderlo prenotabile) è necessario rientrare due volte nella catalogazione e togliere consapevolmente la visibilità. Insomma, come ha commentato un nostro giovane collaboratore, alcuni dei nostri bibliotecari sono molto furbi ed ingegnosi. E coltivano i loro comunardi. Mentre sono meno propensi a socializzare e a pensarsi come parte di una Rete più ampia. O meglio dalla Rete vorrebbero prendere solo i vantaggi e scaricare sugli altri gli svantaggi. E poi dice che il municipalismo medievale è finito e che se il Paese va male è tutta colpa dei politici!

domenica 15 ottobre 2017

Pontedera ed Enrico Piaggio: a 52 anni dalla sua morte

La Piaggio non sbarcò a Pontedera nel 1924 per merito di Enrico Piaggio. Gli investimenti della famiglia genovese su Pontedera furono probabilmente decisi dal padre Rinaldo, a cui il comune di Pontedera dedicò, dopo la morte, il viale lungo il quale era cresciuta la grande fabbrica, dai primi capannoni a ridosso di via Roma, fino a perdersi nelle lontane Curigliane, bel oltre la nuova stazione ferroviaria, ben oltre l'hangar che originariamente aveva ospitato i dirigibili.
Ma dal 1938 in poi Enrico Piaggio recitò un ruolo importante nelle sorti dello stabilimento di Pontedera che produceva motori per aerei da guerra e che durante il conflitto bellico, fu prima pesantemente bombardato e poi in parte trasferito a Biella e in parte sparpagliato in piccole strutture ed officine nei dintorni di Pontedera.
Il ruolo strategico di Enrico Piaggio, la sua importanza assoluta per il nostro territorio, le ragioni per le quali tutti i nostri concittadini dovrebbero conoscere la sua biografia (con le sue luci e le sue ombre), sono da ricondurre, indissolubilmente, alla creazione e alla commercializzazione della Vespa (e poi dell'Ape) e alla rinascita degli stabilimenti di Pontedera e al loro decollo internazionale negli anni '50 del '900.
Se Pontedera è quella che è oggi, in larga misura ciò si deve ad una serie di scelte compiute tra il 1944 e il 1945 da Enrico Piaggio, il quale nel mezzo di una guerra che aveva assunto anche i caratteri di una lotta fratricida, capì che di aerei non gliene avrebbero più fatti fare, che bisognava inventarsi qualcosa di assolutamente originale e che doveva essere un prodotto per le masse.
E se a noi oggi pare quasi scontato pensare che da queste premesse non potesse che uscire fuori la "Vespa", chiunque abbia qualche nozione storica sa che questo non è affatto vero.
Genio e fortuna, insieme ad una solida capacità tecnica e ad abilità  progettuali e organizzative di primordine, si mescolarono allora per tirar fuori il "papero" e poi la Vespa. Così come capacità organizzativa e abilità tecniche consentirono il lancio e poi il successo della innovativa due ruote.
Il resto fu una corsa durata quasi vent'anni che vide Enrico Piaggio cavalcare con le sue aziende il boom italiano, anzi esserne un protagonista e contribuire a costruire la prima motorizzazione dei massa dell'Italia, sia pure su due ruote.
Per Pontedera la rinascita e il successo della Piaggio nel secondo dopoguerra furono un'autentica manna, che dette lavoro e garanti' stipendi dignitosi ad alcune migliaia di famiglie, consentendo loro (soprattutto se anche la moglie lavorava) di traghettare da una vita di "miseria e comunque di povertà" ad una vita dignitosa, che poteva includere anche quattro settimane di ferie all'anno, da trascorrere coi figli in qualche località balneare della costa e poi di comprarsi una utilitaria e pagare il mutuo per un piccolo appartamento, magari in cooperativa. Un balzo enorme rispetto a tutte le generazioni precedenti. Enorme.
Per Pontedera e la Valdera fu una manna, perchè gli stipendi dei dipendenti dello stabilimento Piaggio sostennero anche gran parte delle attività economiche e commerciali del territorio, raggiungendo le tasche di molti che vivevano qui.
Per contro va detto che ciò avvenne mentre tanti pontederesi di sinistra negli anni '40 e '50 sognavano la pianificazione sovietica e negli stabilimenti di Enrico Piaggio vedevano un luogo per lo più infernale e semmai una palestra politica dove irrobustire il loro antagonismo e provare a costruire una società anticapitalistica, che allora sembrava il sole dell'avvenire.
E siccome i pontederesi di sinistra costituivano la maggioranza degli elettori del comune, Enrico Piaggio rimase per loro solo "il padrone", "il capitalista", "il fascista" e la città, che orgogliosamente e politicamente non voleva considerarsi "Piaggiopoli", non trovò mai il modo di relazionarsi in maniera adeguata con uno degli uomini a cui pure doveva buona parte della sua fortuna e della sua sorte. Un uomo certamente non facile, l'opposto ad esempio di un imprenditore dal volto umano come Adriano Olivetti.
Poi, il 16 ottobre 1965 di 52 anni fa, Enrico Piaggio morì. Improvvisamente. Il suo posto fu preso da Umberto Agnelli e dopo di lui, fino agli anni '90, da altri rappresentanti o da altri membri della famiglia Agnelli (come Giovannino). Ma nè gli Agnelli, nè chi acquistò la società dopo di loro, se si esclude le breve eccezionale parentesi di Giovannino Agnelli, trovò il modo di definire rapporti di reciproco riconoscimento e di fiducia con la città e con i suoi amministratori. Nè la città e le sue elite politiche ed amministrative riuscirono a riflettere sulla storia recente di Pontedera, con capacità alte e con profonda comprensione degli accadimenti, nel rispetto dei reciproci compiti e vincoli. Ma non parlo di memorie retoricamente condivise. La lotta sociale esiste e i conflitti di classe e lo scontro tra interessi diversi pure. Mi riferisco al riconoscimento dei rispettivi ruoli e dei meriti. Meriti veri. Di chi sta in piedi nelle tempeste del mercato mondiale. Con azioni ed effetti misurabili. Nel caso di Enrico Piaggio, eccezionali.
Invece per ragioni squisatamente ideologiche, per sentimenti che affondano le radici in visioni distorte della realtà e del mondo, la città di Pontedera, pur dovendogli moltissimo, ad Enrico Piaggio non ha riconosciuto quasi nulla. E perfino parlare del ruolo di Enrico Piaggio nella rinascita di Pontedera resta in città un mezzo tabù.
Eppure chiunque cerchi di pensare a qualche personaggio le cui scelte e le cui risorse personali abbiano avuto un ruolo decisivo e positivo non solo sulla storia e sullo sviluppo della città, ma su migliaia e migliaia di suoi cittadini e su decine di imprese locali (con un impatto che si è propagato su un lungo arco di anni), chiunque pensi alle dinamiche di questa città e alla sua fama nel mondo, sì, proprio nel mondo, non può che pensare ad Enrico Piaggio ed alle decisioni drammatiche e lungimiranti assunte da questo coriaceo imprenditore genovese, morto ciquantadue anni fa.

sabato 14 ottobre 2017

Diario di guerra. 16 luglio - 1 settembre 1944. Una storia di pontederesi in un rifugio di Montecalvoli / Faliero Fantozzi (ma a cura di Michele Quirici) e con un racconto di Anna Vanni Lupi, Tagete Edizioni, 2017, pp.84

Michele Quirici fa un lavoro straordinario e meritorio di recupero e pubblicazione di memorie locali, paragonabile, per mole, agli annali muratoriani, ovviamente tenuto conto delle debite proporzioni. Anche in questo caso, grazie ad un ritrovamento nell'archivio di casa Vanni-Lupi, la Tagete edizioni tira fuori e consegna ai lettori pontederesi (ma non solo) la quotianità del vissuto di un manipolo di Pontederesi che coll'avanzare degli eserciti alleati verso l'Arno, anzichè sfollare a sud (ovvero andando ad incontrare gli alleati e liberarsi prima) si trasferì a Nord e quindi volontariamente allungò la propria agonia.
Certo nessuna delle famiglie sfollate a nord dell'Arno aveva, tra i propri ranghi, esperti militari che avrebbero potuto suggerire che il grande fiume, una volta distrutti i punti, avrebbe potuto trasformarsi in una barriera difficile da superare anche per l'attrezzatissimo esercito alleato.
E poi c'era la propaganda fascista che, per quanto in crisi, spingeva le persone a nord; e poi c'erano le voci, il passaparola, l'incertezza della vita quotidiana, la paura, e mille altre cose.
Così il Diario di Faliero Fantozzi ci fa conoscere i dettagli di 19 famiglie formate da 71 persone costrette alla coabitazione coatta in un rifugio a Montecalvoli sotto le cannonate americane e con le vessazioni dei tedeschi tra il luglio e l'agosto 1944
E si scopre o si ritrova (per chi, come me, ha ascoltato storie analoghe dai propri genitori) la storia di tutte le difficoltà della vita quotidiana forzata, a cominciare dall'espletamento delle esigenze corporali per continuare con i rastrellamenti, le tante violenze, la rabbia, la paura, lo stordimento, il coraggio. E i morti per i cannoneggiamenti. E la fame. Tanta fame. Quasi più della paura.
Devo dire che essendo figlio di due "rifugiati" tra Montecalvoli e Santa Maria a Monte, il racconto di Fantozzi non aggiunge quasi niente a quello che già sapevo. Semmai rinnova il dolore dei racconti che le famiglie Cerri, Marrucci, Guidi  Marconcini mi hanno tramandato per oltre settanta anni.
Mio nonno, Giordano, fu colpito da una scheggia poco fuori dal suo rifugio di Santa Maria a Monte e trasferito a Firenze, a piedi, su un carretto da barrocciaio, dove morì pochi giorni dopo, per un'infezione che non si potè curare.
Mentre l'altro mio nonno paterno, Attilio, fu rastrellato dai tedeschi e come il protagonista del diario di Faliero riuscì fortunosamente a fuggire e a tornare al rifugio.
Ma per un mitico giovane di oggi (sperando di riuscire a fargli leggere a scuola qualcosa del genere), per un bambino della primaria, a cui Anna Vanni Lupi aveva pensato di far conoscere questa storia (ma oggi, alla primaria, si studiano solo i romani antichi se va bene, altrimenti ci si ferma alle favole sugli egizi e i babilonesi), una vicenda come quella di Faliero risulterà quasi sconosciuta, a meno che non ci sia ancora in giro un qualche bisnonno che la storia dei rifugi a nord dell'Arno l'abbia vissuta e che sia ancora lucido e abbia ancora voglia di raccontarla (senza omettere troppi particolari).
Comunque, la cosa importante è che Michele Quirici abbia scovato e quindi pubblicato questo straordinario diario, che ci racconta, in presa diretta, i due mesi del '44 di permanenza nel rifugio delle 19 famiglie pontederesi; e ci ripropone la memoria di Anna Vanni Lupi, che sintetizza e riassume, a posteriori, la stessa storia con gli occhi di una bambina.
Il libro resterà a disposizione dei buoni lettori e delle brave lettrici, che magari decideranno di leggerne qualche pagina ai loro nipotini. Resterà a disposizione delle tante maestre e prof delle medie che magari non hanno mai sentito parlare della loro straordinaria collega Anna, che su questi materiali fece lavorare i suoi bambini. Il libro e la testimonianza di Fantozzi, letti o non letti, rimarranno per i posteri. E nessuno potrà dire, senza sentirsi in colpa, di fronte ad avvenimenti di questo tipo, io non sapevo. Io non c'ero. Io non credevo. I libri infatti ci sono. E raccontano. Sono custoditi nelle case e nelle biblioteche, oggi sempre più accessibili. E come chi ha preso la patente di guida non può dire di non conoscere il codice della strada, chi ha imparato a leggere non può dire che non sa le cose perchè semplicemente non vuole leggere o non vuole arrivare in biblioteca a prendere un libro.
I libri infatti hanno tra i tanti meriti quello di conservare la memoria e di trasmetterla. E i contemporanei hanno l'obbligo morale di leggerli e di conoscerli.E se non lo fanno è un demerito ed una responsabilità dei contemporanei. I quali, tra tutte le scuse che possono accampare, non possono tirare fuori quella di non sapere.
Il libro è disponibile nelle librerie, nelle cartolibrerie ed in alcune edicole, oltre che, gratuitamente, presso la Biblioteca Gronchi.



giovedì 12 ottobre 2017

Presentazione dei testi di Gennaro Strazzullo alla Biblioteca Gronchi.

Domani, venerdi 13 ottobre, alle ore 17, alcuni amici ed estimatori di Gennaro Strazzullo commenteranno un volume che contiene i versi e le prose, le riflessioni, che l'artista ha prodotto dal 1964 a oggi e che ora rende pubbliche. 
So poco d'arte e conosco Gennaro Strazzullo solo attraverso le sue opere che sono in alcuni spazi pubblici, tra cui la Biblioteca di Villa Crastan, attraverso i cataloghi che ha pubblicato e quello che ne hanno scritto critici d'arte e amici comuni.
Di lui mi colpiscono il pessimismo, la sofferenza e il male di vivere. Ma anche la forza salvifica con cui, tutto sommato, riesce a sopportare questa visione dolorosa del mondo e a raccontarla.
Domani pomeriggio a parlare di lui, in biblioteca, interverranno Ilario Luperini, Claudio Gonnelli e Domenico Antonacci.



Il Teatro Era di Pontedera è una grande risorsa per la città e presenta una stagione straordinaria

Ho partecipato con molto piacere alla presentazione della prossima stagione del Teatro Era di Pontedera, che da tre anni, a tutti gli effetti, è una componente importante del Teatro della Toscana (una joint-venture tra il Teatro La Pergola di Firenze e il Teatro Era di Pontedera col sostegno economico, fondamentale, della Regione Toscana e del Ministero per la Cultura). Una fortuna per la Toscana e soprattutto per Pontedera.
E se la stagione sarà all'altezza della presentazione di martedi 10 ottobre, sarà un successone, perché anche l'annuncio (a cominciare dal curatissimo video promozionale sparato all'inizio) è stato strepitoso e da tanti punti di vista.
Per le cose dette. Per le molteplici interlocuzioni. Per le cose a cui mi ha fatto pensare.
Intanto Luca Dini, direttore, ha fatto un bilancio del triennio che si è appena concluso e insieme ad Antonio Chelli, vice presidente del Teatro della Toscana, ha fornito numeri e diversi spunti, senza nascondersi le difficoltà che in questi anni la nuova organizzazione (che pure si è avvalsa di cospicui finanziamenti) ha dovuto affrontare e superare.
Dini soprattutto ha anche annunciato una volontà di aprirsi ancora di più al territorio. Un lavoro di conquista importante, che va perseguito con maggiore metodo. In particolare quello verso le scuole. E verso gli insegnanti.
Poi è seguita una breve ma intensa performance di Gabriele Lavia, direttore artistico della Pergola, sull'immortalità del teatro e sulla sua importanza nella vita umana. Una performance che si è conclusa con l'appello a non misurare tutto sulla base dei soldi e dei costi e con un incoraggiamento, imperioso, al consiglio di amministrazione del Teatro a tirare fuori più quattrini. Un invito che ha fatto arrossire il povero Chelli.
A seguire, il neopensionato, ma sempre attivo al centro del palcoscenico, Roberto Bacci che ha rivendicato la storia del CSRT, gli incontri con Grotowski e con altri straordinari artisti italiani ed internazionali che hanno reso celebre il decentrato "teatro pontederese". Presentate le produzioni della prossima stagione, Bacci ha quindi suggerito come l'anima del "suo" teatro andasse ricondotta all'idea di una Pontedera città dell'accoglienza, degli esuli (in questo caso teatrali, come Grotowski), e delle sfide impossibili, che però si radicano e alla fine sopravvivono e danno frutti molto interessanti. Tutti concetti che condivido. Uno per uno. A cui aggiungerei solo la mercantile abilità pontederese di sapersi adattare al mutamento.
Poi il microfono è passato a Giorgetti, direttore amministrativo del TdT. La sincerità sulla faticosa costruzione delle stagioni teatrali. La sottolineatura delle dinamiche conflittuali interne al nuovo complesso teatrale, chiamato ad amalgamarsi in una rapida esperienza triennale. E la capacità di prendere il toro per le corna e sottolineare anche differenze di vedute, scontri e negoziati sulle soluzioni. L'ammissione, in alcuni casi, di essersi sbagliati. Tutto ciò che Giorgetti ha raccontato ha dato la sensazione di un teatro vivo, complicato nel farsi, ma consapevole di sè e attento alla contemporaneità.
Insomma è stata una bella presentazione. Forte. Poco retorica. Originale, credo.
Mi ha confermato che il Teatro Era costituisce davvero una risorsa strategica per Pontedera. Strategica come la Piaggio, come il Sant'Anna, l'Ospedale Lotti e il sistema scolastico superiore.
Rispetto al Teatro mi permetterei di sottolineare solo un obiettivo da perfezionare: quello di far crescere il pubblico locale. Lo so, Roberto Bacci potrebbe replicarmi che vale più uno spettatore che viene da Tokyo a vedere uno spettacolo per 50 spettatori prodotto e realizzato a Pontedera dal CSRT, che i 49 spettatori che abitano tra Palaia e Calcinaia o nel resto delle campagne pisane e che frequentano il Teatro senza capire molto di quello che vedono (soprattutto per la parte di sperimentazione). Replicherei che, certo, fino a tre o quattro anni fa, aveva ragione lui. Ma, oggi, il gigantismo della nuova struttura (e i costi connessi), i mutamenti di sensibilità politica (e i nuovi assetti che potrebbero prendere corpo), la mutazione dell'offerta teatrale in atto, ho l'impressione che abbiano cambiato la situazione.
Senza importanti numeri sarà più difficile sostenere i costi complessivi (e i posti di lavoro collegati), soprattutto in una fase politica complicata come è quella i cui ci siamo infilati. Perciò, a maggior ragione, serve un equilibrio tra ricerca teatrale e offerta di spettacoli che vada incontro ai desiderata del pubblico, il quale è bene non solo che riempia sempre le belle e comode poltrone del Teatro, ma che funzioni come supporto consensuale alla grande struttura teatrale.
E poi oltre i numeri, c'è anche la qualità degli spettatori da far crescere.
Su questo versante l'idea di sostenere e incoraggiare la presenza a teatro degli insegnanti è strategica, come quella di costruire una rete di alleanze, di promoter e di supporter del proprio lavoro. Tutte cose però che chi lavora al Teatro Era sa bene.
Ovviamente, e qui concordo fino in fondo con Bacci, tutto questo va fatto senza smarrire anima e originalità del CSRT.
Infine il problema del nuovo pubblico si ricollega anche alla capacità di rinnovare il rapporto con le elite politiche del territorio. Un rapporto che non può più essere di collateralità ideologico-culturale. Perchè i tempi stanno cambiando, canterebbe il vecchio Dylan.
Qui la soluzione teatrale che Gabriele Lavia ha straordinariamente suggerito, attraverso l'invocazione ad un mecenatismo generoso, dovrà trovare soluzioni in classi dirigenti locali (e nazionali) che da una parte conoscano e amino di più la cultura e dall'altra sappiano allargare il mecenatismo ad una borghesia "generosa" che in terre come questa dovrebbe essere abbastanza presente. Ma che va coltivato.
Sottolineo infine, pur non essendo un esperto di Teatro, ma solo uno spettatore curioso (e amante soprattutto del teatro classico) che la babelica e per certi aspetti bulimica offerta della prossima stagione mi stordisce, ma allo stesso aspetto mi fa molto piacere, perché indubbiamente, pur essendo il frutto di una negoziazione assai complicata, mi sembra andare nelle giusta direzione.
Certo saranno solo i biglietti staccati a fine stagione e i giudizi valutativi del pubblico che avrà visto gli spettacoli a raccontarci, con chiarezza, se il progetto del Teatro Era che sta per prendere il via avrà funzionato e avuto successo.

In bocca al lupo.